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Considerazioni a margine del suicidio assistito di “Anna” in Friuli Venezia Giulia.

1. L’Associazione Luca Coscioni prosegue nella sua opera di sostegno e facilitazione dei suicidi assistiti di pazienti italiani, pratica parzialmente depenalizzata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019. Tra le persone che hanno chiesto di essere aiutati a suicidarsi c’è “Anna”, affetta da malattia neurovegetativa cronica, che ha ottenuto dal Tribunale di Trieste un provvedimento che ordina all’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina (ASUGI) di accertare se la paziente è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, se è affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psichiche ritenute dalla stessa intollerabili e se è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

A tale accertamento dovrebbe seguire il parere del Comitato Etico: la pronuncia della Corte Costituzionale, infatti, subordina l’esclusione della punibilità per chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio alla verifica delle condizioni necessarie “da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

Come si evince dal sito web dell’Associazione Luca Coscioni, l’ASUGI ha nominato una Commissione Aziendale di Valutazione, incaricata di accertare le condizioni indicate nell’ordinanza.

La vicenda impone di approfondire il significato del concetto di “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”, una delle condizioni indicate nella sentenza.

2. La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.

Ricordiamo il percorso seguito dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 507 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019.

Come si ricorderà, la Corte di Assise di Milano aveva rilevato il contrasto dell’art. 580 cod. pen. con gli artt. 2 e 13, primo comma della Costituzione, sostenendo che il “principio personalistico” e quello di inviolabilità della libertà personale imporrebbero di riconoscere la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba avere luogo, così da ritenere ingiustificata la sanzione penale nel caso in cui le condotte di aiuto al suicidio siano state di mera attuazione di quanto richiesto da chi aveva fatto la sua scelta liberamente e consapevolmente, essendo la condotta dell’agente agevolatore uno strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita la sua libertà.

La Corte Costituzionale aveva ritenuto non pertinente il riferimento al diritto alla vita, “riconosciuto implicitamente – come «primo dei diritti inviolabili dell’uomo», in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri – dall’art. 2 Cost., nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 CEDU”. Secondo la Corte, “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”. Tali norme impongono allo Stato di adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione.

Anche il richiamo alla inviolabilità della libertà personale proclamata dall’art. 13 della Costituzione veniva duramente respinto: la Corte addebitava al giudice rimettente una rivendicazione avanzata “in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni (le scelte suicide) vengono concepite”. Il riconoscimento del diritto al suicidio, secondo la Corte, è pericoloso per le singole persone e per la comunità: anche guardando alla persona umana come ad un valore in sé, e non come mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi, l’incriminazione dell’aiuto al suicidio è funzionale alla tutela del diritto alla vita “soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. (…) Al legislatore penale non può ritenersi inibito (…) vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide (…). Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.)”.

Respinta, quindi, la prospettazione proposta nell’ordinanza di rimessione, la Corte Costituzionale fondava la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. sull’art. 32, secondo comma, della Costituzione, dal quale discende il diritto del paziente di rifiutare ogni terapia e ogni forma di sostegno vitale e di provocarne l’interruzione, come sancito dalla legge n. 219 del 2017; una decisione fondata, quindi, su presupposti del tutto differenti: la Corte di Assise di Milano, nel dispositivo dell’ordinanza, non aveva nemmeno evocato il parametro dell’art. 32 della Costituzione.

3. Ebbene: il contrasto tra le due visioni – da una parte, il diritto al suicidio come connaturato al diritto alla vita ed espressione dell’autodeterminazione dell’individuo, dall’altra la parziale depenalizzazione dell’aiuto al suicidio come sviluppo del diritto del paziente di rifiutare terapie salvavita e trattamenti di sostegno vitale – non si è affatto acquietato dopo le pronunce della Corte Costituzionale ma, se possibile, si è acuito: e il principale “contraddittore” – meglio: “avversario” – della Corte Costituzionale è proprio l’Associazione Luca Coscioni, il cui dirigente era imputato davanti alla Corte di Assise di Milano per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani; Associazione che, come si è visto, “aiuta” la signora “Anna” nel suo desiderio di essere aiutata a suicidarsi in Italia.

Ho usato l’espressione “avversario” non a caso: nel promuovere il referendum  abrogativo dell’art. 579 cod. pen., che punisce l’omicidio del consenziente, l’Associazione si poneva in esplicita contrapposizione la pronuncia della Corte Costituzionale; si sosteneva che “la Corte costituzionale ha chiarito che l’aiuto al suicidio non è punibile nel caso in cui la persona che lo richiede sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”, ma che “tutte le altre persone con patologie irreversibili che procurano dolori intollerabili, e i pazienti impossibilitati ad assumere autonomamente un farmaco nel nostro Paese non hanno la possibilità di scegliere, e di chiedere aiuto medico attivo per la morte volontaria, perché il nostro codice penale vieta l’omicidio del consenziente”.

Ma, con la sentenza n. 50 del 2022 che ha dichiarato l’inammissibilità del quesito referendario, la Corte Costituzionale non si è sottratta allo scontro con i promotori, utilizzando espressioni assai severe e, sostanzialmente, sbugiardandoli sulle dichiarazioni fatte nella campagna di raccolta delle sottoscrizioni: ricordando che «l’obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento», la Corte constatava che “il risultato oggettivo del successo dell’iniziativa referendaria sarebbe quello di rendere penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione”; di conseguenza, “la norma verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo. L’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili. La “liberalizzazione” del fatto prescinderebbe dalle motivazioni che possono indurre a chiedere la propria morte, le quali non dovrebbero risultare necessariamente legate a un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche, potendo connettersi anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae, ovvero pure a scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui”.

Nel richiamare l’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte rafforzava, con una significativa sottolineatura, il giudizio di liceità delle norme penali: “Vietando ai terzi di farsi esecutori delle altrui richieste di morte, pur validamente espresse, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente assolve, in effetti, come quella dell’aiuto al suicidio, allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate”.

4. Emergono, allora, i rischi che la vicenda di “Anna” – come quelle delle altre persone “assistite” dall’Associazione Luca Coscioni – comporta per la tenuta del quadro disegnato dalla Corte Costituzionale.

La signora “Anna” è tutelata da un’Associazione che ha ripetutamente promosso e sostenuto la liberalizzazione dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio del consenziente in nome del principio di autodeterminazione individuale, prospettando soluzioni contrarie al dettato costituzionale e, addirittura – secondo la stessa Corte – rilasciando dichiarazioni non corrispondenti al contenuto della proposta giuridica: soggetto, quindi, portatore di idee illegittime relative al bene supremo della vita e contrastanti con il “primo dei diritti inviolabili dell’uomo, presupposto per l’esercizio di tutti gli altri”; soggetto, per di più, del tutto inaffidabile. Da questo soggetto non si può che temere forzature dirette ad eludere gli stretti limiti posti dalla Consulta.  

5. Ebbene: tra le condizioni che rendono non punibile l’agevolazione dell’esecuzione del proposito di suicidio in base alla sentenza n. 242 del 2019, solo la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale permette di distinguere il suicidio come frutto di autodeterminazione individuale dal suicidio come conseguenza del rifiuto di trattamenti sanitari tutelato dall’art. 32 della Costituzione.

In effetti, non è condizione discriminante il requisito della capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, che si riscontra sia negli aspiranti suicidi per motivi slegati da un trattamento sanitario, sia in quelli che intendono rifiutare terapie e forme di sostegno vitale.

Nemmeno la condizione di sofferenza intollerabile percepita dall’aspirante suicida costituisce un reale elemento discriminante: la Corte Costituzionale ritiene alternativamente necessarie sofferenze fisiche e sofferenze psicologiche, quindi sufficienti le seconde; ma è difficile negare che, nella stragrande maggioranza degli aspiranti suicidi per ragioni slegate da un trattamento sanitario, la sofferenza psicologica sia altissima, tanto da diventare intollerabile e, appunto, spingere la persona ad un atto estremo: il suicidio di Socrate è un’eccezione, il rischio di suicidio – come riconosce la stessa Corte – riguarda le persone “debole e vulnerabili”.

6. La condizione dell’esistenza di una “patologia irreversibile”, che deve essere fonte delle sofferenze di cui si è detto, è anch’essa un parametro assai poco utile per distinguere le due situazioni.

Su questo punto occorre soffermarsi: la martellante propaganda dei fautori della liberalizzazione dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio del consenziente seleziona e propone casi di persone affette da gravi malattie o disabilità; tuttavia, è indiscutibile che la Corte Costituzionale non ha affatto condizionato la parziale depenalizzazione dell’art. 580 cod. pen. ad una particolare gravità della patologia né, tanto meno, alla natura letale della stessa né, ancora, ad una situazione di progresso inarrestabile dei sintomi né, infine, alla previsione della morte del paziente in un breve termine come conseguenza di tale patologia.

Le caratteristiche della patologia da cui deve essere affetto l’aspirante suicida sono due: la irreversibilità – quindi l’impossibilità per il paziente di guarire dalla malattia – e la produzione di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili.

Si tratta di un punto decisivo: spesso si ritiene che la pronuncia della Corte e, prima ancora, le norme dettate dalla legge sul consenso informato (legge 219 del 2017) siano finalizzate a dare un aiuto a pazienti in stato terminale o, comunque, affetti da malattie gravissime e del tutto invalidanti; ma anche il diabete, l’artrite, l’infezione da HIV, le patologie cardiache sono spesso inguaribili, anche se curabili. A ben vedere, la stragrande maggioranza degli anziani è affetta da una o più patologie irreversibili. Ancora: la disabilità – pur non essendo una patologia, ma una condizione derivante da una malattia o da un evento traumatico – è considerata una patologia irreversibile (si ricordino i casi di Eluana Englaro e quello, più recente, di Federico Carboni – “Mario” – reso tetraplegico da un incidente stradale).

In base alla pronuncia della Corte Costituzionale, la gravità della patologia è misurabile esclusivamente sulla base delle sofferenze che la stessa produce sul soggetto, che devono risultare intollerabili: ma, come si è visto, le sofferenze possono essere anche soltanto psicologiche e, per di più, la Consulta esclude la loro “misurabilità” oggettiva, precisando che deve essere l’interessato a “reputarle” intollerabili. Federico Carboni, secondo le sue dichiarazioni, dopo avere vissuto per dieci anni con la sua condizione circondato da familiari, affetti, assistenza, fisioterapia, aveva ritenuto la sua vita “una mera sopravvivenza”, ritenendo una “umiliazione” che il suo corpo venisse toccato da altri. Analoga è la condizione della signora “Anna”: “la sua sofferenza è di natura interiore e non fisica. Infatti, non lamenta dolore fisico, ma ritiene intollerabile da un punto di vista psichico la sofferenza che il suo stato di dipendenza le provoca”.

7. Comprendiamo, quindi, che la “platea” di aspiranti suicidi che potrebbero essere lecitamente agevolati nel loro proposito sarebbe amplissima se le condizioni poste dalla Corte Costituzionale fossero soltanto le tre che abbiamo esaminato (capacità di prendere decisioni libere e consapevoli; sofferenze intollerabili; patologia irreversibile): vi rientrerebbero potenzialmente la quasi totalità delle persone anziane e tutti i disabili, ma anche i soggetti affetti da patologie inguaribili – ma curabili –  e non invalidanti.

Se così fosse, risulterebbe evidente la vittoria dell’Associazione Luca Coscioni nel suo “braccio di ferro” con la Corte Costituzionale: l’aiuto al suicidio sarebbe depenalizzato anche quando le motivazioni della richiesta non fossero “legate a un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche” (sent. n. 50 del 2022), ma fossero sostanzialmente espressione dell’autodeterminazione del soggetto.

In effetti, la scelta di suicidarsi (e, quindi, di chiedere l’aiuto altrui) può essere frutto di autodeterminazione anche se il soggetto è affetto da patologie; anzi: è verosimile che la sofferenza psicologica intollerabile che spinge al desiderio di procurarsi la morte e la valutazione di inutilità della propria vita siano frutto anche di una condizione di salute precaria o difficoltosa; ma tale condizione non muta la natura dell’atto: per la decisione di suicidarsi la condizione di salute non è decisiva e l’atto non è realizzato mediante il rifiuto di terapie salvavita o di forme di sostegno vitale.

8. Nel disegno della Corte Costituzionale, tutto cambia quando ricorre l’ultima condizione: la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Solo tale condizione delimita realmente i casi in cui l’aiuto al suicidio diviene non punibile e garantisce che lo stretto spiraglio aperto dalla sentenza n. 242 non si trasformi in una porta spalancata.

Per questo l’Associazione Luca Coscioni mira a vanificare tale condizione, così da renderla ininfluente nel selezionare le condotte di aiuto al suicidio non punibili, in coerenza con il disegno illegittimo più volte stigmatizzato dalla Corte Costituzionale.

Per attribuire l’esatto significato della nozione di “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”, ripercorriamo alcuni passaggi dell’ordinanza n. 207 del 2018 e della sentenza n. 242 del 2019.

Come abbiamo visto, la Corte aggancia la pronuncia di parziale illegittimità all’art. 32, secondo comma, della Costituzione e fa leva sul dettato della legge n. 219 del 2017 che “riconosce ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5) […] In ogni caso, il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo […]”.

Si verte, quindi, nell’ipotesi di rifiuto o revoca del consenso a trattamenti sanitari salvavita: per argomentare la decisione, in un passaggio cruciale dell’ordinanza n. 207, la Corte osserva che “la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua”. Si noti che la Corte Costituzionale richiama la legge n. 219 del 2017 come se permettesse espressamente la richiesta di “interruzione dei trattamenti di sostegno vitale”: ma quella legge non menziona mai i “trattamenti di sostegno vitale”, affrontando, piuttosto, il rifiuto dei “trattamenti sanitari” e disponendo, nella norma già ricordata, l’equiparazione ai trattamenti sanitari della nutrizione e dell’idratazione artificiale (“Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”).

Questo è una prima indicazione dell’impossibilità di estendere senza freni la nozione di “trattamenti di sostegno vitale”: occorre, infatti, la natura “artificiale” del trattamento che necessita di un “dispositivo medico”; l’interruzione di tale trattamento equivale alla “decisione di lasciarsi morire”.

La descrizione delle condizioni di salute di Fabiano Antoniani permette alla Consulta di far rientrare nei trattamenti di sostegno vitale anche il respiratore artificiale (che la legge n. 219 del 2017 non menziona): Antoniani non era più autonomo nella respirazione “necessitando dell’ausilio, pur periodico, di un respiratore inserito in un foro della trachea”; importante è il passaggio in cui viene descritto quanto sarebbe avvenuto se Antoniani non avesse optato per il suicidio assistito: “l’interessato richiese l’assistenza al suicidio scartando la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni […]”.

 In definitiva, i trattamenti di sostegno vitale cui si riferisce la Corte Costituzionale sono la nutrizione e l’idratazione artificiale e la respirazione artificiale: sono trattamenti che presuppongono un “dispositivo medico” e che, se interrotti, determinano la morte entro pochi giorni.

Ulteriori elementi spingono verso questa interpretazione della nozione.

In primo luogo, si tratta delle forme di sostegno vitale che permettevano l’esistenza in vita di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro – i protagonisti dei “casi pilota” nel nostro Paese – che, infatti morirono rapidamente in conseguenza, il primo dell’interruzione della respirazione artificiale, e la seconda della sospensione della nutrizione e idratazione artificiale.

Ancora: altri passaggi delle due pronunce della Corte Costituzionale sono significativi in questa direzione.

In primo luogo la Corte lega la soluzione adottata anche al progresso della scienza medica che determina “situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”: si noti il riferimento alla “tecnologia” che, appunto, presuppone dispositivi, macchinari inesistenti nel 1930; tali “macchinari” vengono espressamente menzionati in un passaggio successivo, in cui si ricorda la condotta attiva da parte di terzi “quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario”.

In secondo luogo, la Corte riprende il concetto di “vita artificiale” che già era stata utilizzata nei casi Welby ed Englaro: “si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto […]”.

Comunque, in un terzo passaggio, la sentenza è esplicita nelle sue indicazioni: nel menzionare la possibilità del ricorso alla sedazione palliativa profonda in associazione con la terapia del dolore (art. 2, comma 2, legge 219 del 2017), la Corte osserva: “Tale disposizione non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiale: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte”.

9. In conclusione: la “dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale”, indicata come condizione per la non punibilità dell’aiuto al suicidio, permette di delimitare i casi contemplati mediante due cerchi concentrici.

In primo luogo l’aspirante suicida deve il suo mantenimento in vita da un macchinario, frutto del progresso recente della tecnologia: l’interruzione del funzionamento di tale macchinario comporta la morte inevitabile e rapida, facendo mancare al corpo una funzione necessaria alla sopravvivenza che il dispositivo fornisce, non essendo più in grado di farlo l’organismo. Ecco che la parola “dipendenza” assume un significato pregnante, così come l’espressione “sostegno vitale”. Del resto, la legge n. 219 del 2017 fa riferimento alla rinuncia e al rifiuto “di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, cioè al mantenimento in vita; non a caso, nel passaggio già menzionato, la Corte rappresenta come alternativa al suicidio assistito l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua: quindi l’interruzione mette in moto immediatamente il processo che porta alla morte del paziente, richiedendo un intervento immediato per evitare che sia doloroso.

Ma tale condizione di dipendenza non è sufficiente: disegnando un secondo cerchio più ristretto, la Corte legittima l’aiuto al suicidio assistito solo nel caso in cui la morte derivante dall’interruzione del trattamento di sostegno vitale non sia sostanzialmente istantanea. La messa a disposizione del paziente di trattamenti diretti a determinarne la morte viene, infatti, presentata come alternativa alla sedazione palliativa profonda continua, associata con la terapia del dolore, che può essere approntata contestualmente all’interruzione del trattamento di sostegno vitale: in mancanza di tale possibilità “si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono cariche”.

La Corte fa, quindi, riferimento al “processo del morire”: il paziente nei cui confronti è stato interrotto il trattamento di sostegno vitale su sua richiesta, ha iniziato a morire, in una evoluzione irreversibile. La pronuncia della Corte crea per il paziente un’alternativa prima inesistente: se morire secondo i tempi “naturali” – quelli determinati dalla capacità del corpo di resistere alla mancanza di nutrizione o idratazione o di sostegno alla respirazione – ovvero se morire immediatamente, in entrambi i casi senza dolore. Una scelta che si situa all’interno dello scenario di una morte già decisa e inevitabile (se dalla decisione si passa all’attuazione).

In nessun modo, quindi, si può ritenere che l’alternativa che la Corte Costituzionale ha offerto al paziente con la pronuncia di illegittimità costituzionale riguardi la possibilità di continuare a vivere e la possibilità di morire; l’alternativa sorge dopo e in conseguenza della decisione del paziente di morire, rifiutando o interrompendo il trattamento di sostegno vitale: solo a quel punto egli potrà scegliere la “modalità per congedarsi dalla vita”.

Il percorso argomentativo delle due pronunce è chiarissimo e non si ferma soltanto all’esemplificazione del caso di Fabiano Antoniani (“Non essendo egli, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa […]”); la diversa natura delle due decisioni – di porre fine alla propria esistenza e di scegliere le modalità della morte – è resa evidente dal passaggio successivo: “Se […] il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari […] non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.

Nell’immediato prosieguo dell’ordinanza n. 207 del 2018 la Corte fa distinto riferimento alle due “decisioni”: quella “di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento” e quella “di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitose alla predetta interruzione”.

10. Se tale rigorosa delimitazione delle ipotesi in cui l’aiuto al suicidio non è penalmente punibile viene abbandonata, vanificando la condizione della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, si legittima la condotta vietata dalla norma in casi in cui la decisione dell’aspirante suicida non riguarda le modalità più dignitose della morte, ma interviene sull’alternativa tra il continuare a vivere e il morire: una decisione presa in nome dell’autodeterminazione individuale.

Ciò è avvenuto nel caso dell’aiuto al suicidio di Davide Trentini che, affetto da sclerosi multipla, sicuramente irreversibile e fonte di gravi sofferenze, non dipendeva da alcun macchinario per vivere. Trentini assumeva numerosi farmaci ed era sottoposto all’evacuazione manuale delle feci in conseguenza della paralisi della muscolatura intestinale. Recependo l’impostazione del dr. Riccio, consulente tecnico della difesa, la Corte di assise di Massa aveva sostenuto che tale situazione corrispondesse alla dipendenza da due forme di sostegno vitale. Premettendo che “la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza da una macchina”, la Corte affermava che la regola iuris dettata dalla sentenza n. 242 del 2019 non doveva essere confusa con il caso di Fabiano Antoniani. Secondo la Corte di Massa il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretato ai sensi della legge n. 219 del 2017, “prendendo come punto di riferimento […] i trattamenti sanitari che detta legge consente al malato di rifiutare. Il riferimento, quindi, è da intendersi fatto a qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutico o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici. La predetta legge ricomprende, poi, nel novero dei trattamenti sanitari anche la nutrizione e l’idratazione artificiale. Pertanto, ciò che ha rilevanza sono tutti quei trattamenti sanitari, sia di tipo assistenziale medico o paramedico, sia, infine, con l’utilizzo di macchinari, compresi la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, senza i quali si viene ad innescare nel malato un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito, non necessariamente rapido, è la morte. Quindi, in definitiva, per trattamento di sostegno vitale deve intendersi qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte anche in maniera non rapida”.

Veniva ritenuta trattamento di sostegno vitale anche l’operazione di evacuazione manuale delle feci compiuta settimanalmente dalla madre di Trentini.

La Corte di assise di appello di Genova confermava questa impostazione, sostenendo che “il trattamento farmacologico era tuttavia per lui [Trentini] essenziale per la sopravvivenza, poiché se non lo avesse assunto si sarebbe fatalmente alterato il delicato equilibrio che gli permetteva di sopravvivere”, giungendo a definire quella di Trentini “una vita artificiale” e concludendo: “se, quindi, aveva il diritto di interrompere tale terapia essenziale per la sua vita e di avviarsi alla morte, non gli può essere negato il diritto di rinunciare a vivere ancor prima di affrontare la brutale agonia che la sua gravissima malattia gli avrebbe imposto”.

Si può richiamare quanto fin qui argomentato; si deve aggiungere che, equiparando una terapia farmacologica – che è un trattamento sanitario – a un trattamento di sostegno vitale, la violazione della legge 219 del 2017 e della sentenza della Corte Costituzionale è evidente: in effetti, da una parte, la legge prevede il diritto del paziente a rifiutare trattamenti sanitari anche se necessari alla sopravvivenza, ma non menziona i trattamenti di sostegno vitale, limitandosi ad equiparare la nutrizione e idratazione artificiale ai trattamenti sanitari; dall’altra, la Corte Costituzionale non ha reso non punibile l’aiuto al suicidio in caso di rifiuto di trattamenti sanitari, ma in caso di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale; se la non punibilità dell’aiuto al suicidio avesse riguardato ogni rifiuto di trattamento sanitario, il dispositivo della sentenza n. 242 sarebbe stato differente.

11. Nel caso del suicidio assistito di Federico Carboni (“Mario”), il Comitato Etico della Regione Marche aveva espressamente contrapposto alla decisione della Corte Costituzionale “alcune posizioni del Comitato Nazionale di Bioetica”, secondo cui la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale “di fatto potrebbe introdurre un elemento di discriminazione poiché determina una selezione tra quanti sono tenuti in vita artificialmente e quanti, pur affetti anche da patologia cronica irreversibile e con sofferenza fisica e psicologica ritenuta insopportabile, non lo sono o non lo sono ancora, ma ricevono comunque una forma di assistenza continuativa”: accusando, quindi, la Corte Costituzionale di discriminare tra i pazienti, “tutelando” il diritto di essere aiutati a suicidarsi solo per alcuni (quelli “tenuti in vita artificialmente”) e non per altri.

Si noti il passaggio inquietante – ma rivelatore – secondo cui il diritto al suicidio assistito (meglio: la non punibilità dell’aiuto al suicidio) dovrebbe essere riconosciuto anche nel caso di coloro che non sono dipendenti attualmente da trattamenti di sostegno vitale, ma potrebbero esserlo nel futuro: le persone potrebbero, cioè, essere aiutate a suicidarsi anche soltanto sulla base della previsione di un futuro sviluppo della patologia.

Il parere del Comitato Etico riteneva Carboni dipendente da trattamenti di sostegno vitale per la presenza di un pacemaker – che “interviene in caso di aritmia cardiaca” e, quindi, il cui spegnimento o rimozione non determinano automaticamente la morte del soggetto – oltre che di un catetere vescicale e per la sottoposizione a manovre di evacuazione manuali. Il Comitato giungeva a tali conclusioni pur ammettendo che “tali dispositivi e trattamenti, pur non avendo un ruolo attivo come nel caso della ventilazione, idratazione e alimentazione, svolgono un ruolo sussidiario per le funzioni fisiologiche ed intervengono in caso di aritmia cardiaca”.

Non è difficile comprendere che si tratta di conclusioni cui la decisione della Corte Costituzionale è del tutto estranea e che rendono sostanzialmente ininfluente il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.  

12. Anche nel caso della signora “Anna”, oggetto del presente scritto, la lettura del parere della Commissione Aziendale di Valutazione nominata dall’ASUGI fa temere un esito decisamente contrario al dictum della Corte Costituzionale nel senso dell’ampliamento dei casi di non punibilità dell’aiuto al suicidio ad ipotesi in nessun modo previste dalla sentenza n. 242 del 2019.

Si tratta di soggetto affetto da sclerosi multipla secondariamente progressiva, con severa tetraparesi con conseguente assenza di autonomia nelle funzioni di vita quotidiane; non prova dolore fisico, appetito normale, riposo buono. L’alvo è mantenuto con clismi giornalieri eseguiti da terzi. La signora “Anna”, quindi, risulta completamente dipendente nello svolgimento delle ADL (activities daily living) e tale dipendenza è giudicata dalla stessa intollerabile. L’unico macchinario che la signora “Anna” usa è il CPAP (un supporto ventilatorio assistito) nel corso del riposo notturno, un macchinario che migliora la qualità del sonno; ella, peraltro, non ha necessità di usarlo durante il giorno.

Secondo la Commissione, la signora “Anna” è dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Per giungere a tale conclusione, oltre a richiamare le sentenze nel caso “Trentini” già ricordate, la Commissione aderisce alla definizione dei trattamenti di sostegno vitale come “quei trattamenti che, in caso di malattie che mettono in pericolo la vita, sono in grado di prolungarla (cioè di posporre la morte), anche se non necessariamente di guarire la malattia”: una nozione differente da quella adottata dalla Corte Costituzionale, che individua la caratteristiche dei trattamenti di sostegno vitale – oltre che nell’utilizzo di macchinari – nell’effetto di determinare l’inizio immediato del processo di morte in caso di loro interruzione: di ciò dà sostanzialmente atto il parere della Commissione che, tuttavia, contrappone alla pronuncia della Consulta la “giurisprudenza di merito” (in realtà, menzionando esclusivamente le sentenze di Massa e di Genova), sostenendo la necessità di un’interpretazione più ampia del concetto e di una “estensione in bonam partem della causa di non punibilità ex art. 580 cod. pen.”.

In sostanza, la Commissione di Valutazione censura la decisione della Corte Costituzionale e la capacità della Consulta di interpretare la legge n. 219 del 2017. La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale ricorrerebbe “nei casi in cui la possibilità di continuare a vivere dipenda non solo dal funzionamento di un macchinario medico, ma anche dalla prosecuzione di una terapia farmacologica o, più in generale, dalla necessità di assistenza sanitaria (sia essa da cose o persone)”.

Il passaggio fondamentale del parere, con riferimento alla condizione di dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, segue immediatamente: “Qualora il soggetto, per la sua sopravvivenza, dipenda da un’altra persona, non potrebbe considerarsi integrato il requisito del trattamento ma, nondimeno, si determinerebbe una situazione analoga alle precedenti, tale da legittimare un’estensione in bonam partem della causa di non punibilità ex art. 580 cod. pen.”

E ancora: “Una tale interpretazione appare più coerente al disposto normativo di cui alla legge 219 del 2017 nella parte in cui riconosce al paziente il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, per modo che con tale locuzione si debba intendere ogni intervento realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale sanitario e non sanitario o con l’ausilio di strumentazione medicale oltre a nutrizione e idratazione artificiali”.

13. Qualche considerazione si impone.

In primo luogo, al fine di ritenere sussistente la condizione nel caso della signora “Anna”, la Commissione di Valutazione, non solo interpreta la nozione di “trattamenti di sostegno vitale” in modo difforme da quanto si ricava dalla sentenza della Corte Costituzionale, ma non ha remore nello stravolgere addirittura il significato della nozione di “trattamento sanitario”: in effetti, fa coincidere l’assistenza prestata nelle attività giornaliere anche da personale non sanitario come rifiutabile ai sensi della legge 219 del 2017: ma – non c’è davvero bisogno di sottolinearlo – quella legge riguarda, appunto, i trattamento sanitari e definisce il rapporto tra “paziente e medico” (art. 1, comma 2); il rifiuto o la rinuncia a trattamenti sanitari impone al medico di rispettare la volontà del paziente; è il medico che, rispettandoli, “è esente da responsabilità civile e penale” (art. 1, comma 6); le norme relative alla terapia del dolore, al divieto di ostinazione irragionevole delle cure e alla dignità nella fase finale della vita dettate dall’art. 2 sono rivolte esplicitamente al medico. L’intera materia è inerente alla relazione tra il medico e il paziente.

Appare davvero sorprendente l’argomentazione con cui la Commissione di Valutazione Aziendale giunge a questo risultato: benché incaricata, fra l’altro, di accertare se la signora “Anna” sia mantenuta in vita da trattamenti di sostegni vitali, la Commissione propone un ragionamento di tipo giuridico penalistico, ritenendo estensibile la causa di non punibilità; opera questa invasione di campo del giudice penale senza chiarire davvero se si tratti di una interpretazione estensiva della causa di non punibilità o di un’applicazione analogica: comunque avanzando argomentazioni che non erano state chieste dal Tribunale civile e che, ovviamente, non le spettavano.

Come si comprende dalle conclusioni, la questione riguarda soprattutto “l’esecuzione di clisteri evacuativi giornalieri per l’espletamento dell’alvo, senza i quali la signora “Anna” andrebbe incontro ad un quadro di occlusione intestinale e al rischio di perforazione del viscere, sì da determinare la morte della paziente anche in maniera non rapida”; un’assistenza analoga a quella che la madre di Federico Carboni prestava al figlio, sia pure settimanalmente, in nessun modo classificabile come di carattere sanitario né necessitante l’opera di personale sanitario.

Non pare un caso che la Corte di assise di appello di Genova, pur confermando la sentenza del giudice di primo grado di assoluzione degli imputati per il suicidio assistito di Carboni, abbia evitato di pronunciarsi sulla natura di questo tipo di assistenza – che la Corte di primo grado aveva compreso nei trattamenti di sostegno vitale – concentrando la sua attenzione esclusivamente sul trattamento farmacologico cui Carboni era sottoposto.

In effetti, quelle operazioni non possono considerarsi “trattamento” e non hanno carattere sanitario. Ma ciò non rileva per la Commissione di Valutazione che fa emergere come rilevante “l’assoluta e completa dipendenza da un’altra persona (caregiver) per l’espletamento dei propri bisogni vitali (igiene personale, gestione della continenza, vestirsi, alimentarsi in modo autosufficiente, idratarsi, possibilità di passare da una posizione all’altra e di camminare in modo indipendente), necessari (in buona parte) alla stessa sopravvivenza della paziente”.

14. Resta da dire che la dipendenza attuale dal macchinario CPAP, usato nel riposo notturno, non è affatto  documentata nel parere: dopo avere riferito che il macchinario migliora la qualità del sonno della paziente e avere escluso una dipendenza dal presidio di ventilazione durante il giorno, “dati i parametri vitali e l’esame obiettivo”, nelle conclusioni la Commissione fa riferimento a “una dipendenza meccanica non esclusiva garantita attraverso l’impiego di supporto ventilatorio nelle ore di sonno notturno”, affermando che la sua sospensione “potrebbe comportare una condizione di ipercapnia ed insufficienza respiratoria, sì da determinare la morte della paziente anche in maniera non rapida”: ancora una volta non si afferma affatto che il mancato utilizzo del CPAP nel corso della notte comporterebbe inevitabilmente l’avvio del processo mortale (il CPAP non è un respiratore artificiale), ma si ipotizza come possibile – e non certo – che lo stesso influenzerebbe la concentrazione di anidride carbonica nel sangue e l’insufficienza respiratoria. Un giudizio, a ben vedere, che potrebbe essere applicato a numerosi trattamenti o farmaci usati dalla generalità delle persone per prevenire un peggioramento delle proprie condizioni di salute.

La Commissione aggiunge che “non si può escludere che in futuro la progressione della malattia e/o eventuali patologie intercorrenti possano rendere indispensabile l’utilizzo costante del supporto ventilatorio”: con ciò confermando che non vi è dipendenza attuale da tale supporto.

15. Così come già anticipato, l’interpretazione abusiva della nozione di “trattamenti di sostegno vitale” da parte della Commissione di Valutazione Aziendale della ASUGI – se accolta – renderebbe non punibile l’aiuto al suicidio di tutte le persone disabili, di tutte le persone dipendenti da caregivers (quindi, in sostanza, degli anziani assistiti da badanti e di buona parte di quelli ricoverati nelle RSA) e di tutte le persone affette da patologie, più o meno gravi, ma irreversibili, contrastate efficacemente da qualsivoglia terapia, anche farmacologica.

Esattamente ciò che la Corte Costituzionale non voleva e che, da sempre, l’Associazione Luca Coscioni vuole ottenere, rivendicando il diritto al suicidio assistito e all’uccisione su richiesta come forma estrema di autodeterminazione dell’individuo.

La lettura della sentenza n. 242 del 2019 dimostra che la Corte ha imposto la verifica delle condizioni legittimanti la non punibilità dell’aiuto al suicidio da parte di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente, per “evitare che la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità”.

Le strutture del servizio sanitario nazionale, quindi, sono chiamate a verificare l’esistenza delle condizioni indicate dalla Corte: non è loro compito interpretare la pronuncia della Corte né la legge n. 219 del 2017, né proporne un’interpretazione estensiva o analogica, né disapplicarle perché “discriminatorie”, né spingersi in valutazioni di carattere penalistico. 

16. Nel concludere questo excursus, si può rispondere all’obiezione possibile, che potrebbe chiedere la ragione di un “accanimento” nei confronti di persone, come la signora “Anna”, in condizioni precarie e fermamente decise a porre termine alla loro vita. Perché ostacolare questa volontà? Perché permettere l’aiuto al suicidio di determinati malati o disabili e negarlo per altri?

La risposta l’ha data la Corte Costituzionale con le pronunce più volte citate: “L’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio è funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”.

E ancora: “Il divieto (di aiuto al suicidio) conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite”.

Sì: la libertà di decidere per la propria morte potrebbe essere vanificata da “interferenze di ogni genere” e tali interferenze possono derivare anche da interessi di chi vuole indurre al suicidio e colpire le persone psicologicamente fragili, depresse, anziane, in solitudine … insomma quelle che la nostra società inizia a considerare inutili, improduttive, costose per tutti, pesanti da sopportare.

L’autonomia individuale, dice la Corte, non può essere considerata in maniera astratta, ma nel concreto! Il riconoscimento del diritto ad essere aiutati a suicidarsi rischia di trasformarsi in uno strumento per eliminare le persone “inadatte”, a prescindere da loro reale consenso.

Del resto, la storia insegna: l’eutanasia consensuale porta sempre con sé quella non consensuale.

Giacomo Rocchi

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