Intervento del prof. Stefano Delle Monache al convegno “Beati gli operatori di giustizia. La vita e il martirio del giudice Rosario Livatino: una proposta e una Promessa per il presente di tutti”, tenutosi a Padova il 31 marzo 2023.
“Cosa vi ho fatto, picciotti?”
Vorrei partire da qui, da questa frase rivolta da Rosario Livatino ai suoi assalitori, prima che gli venisse inferto il colpo finale: una frase che ha costituito il punto d’appoggio del suo processo di beatificazione.
“Cosa vi ho fatto?” Dev’essere sembrata una provocazione, quasi un atto di scherno. “Come che cosa ci hai fatto? Lo sai bene, hai tentato di contrastarci, ti sei opposto al nostro potere, ti sei dimostrato nostro nemico”.
E difatti le cronache registrano l’infame espressione del killer, prima di esplodere gli ultimi fatali colpi di pistola.
Ma non si trattava di una provocazione. Era piuttosto il condensato di tutto un programma di vita, di un’intera esperienza, dell’insieme dei convincimenti profondi che guidavano un uomo ormai giunto alla fine del suo percorso.
“Cosa vi ho fatto, picciotti?” Siete malavitosi, e questo posso anche comprenderlo, ma ciò che non comprendo è cosa vi aspettavate da me. Avrei dovuto forse venir meno al mio compito, non adempiere i miei doveri, dimenticarmi del mio ruolo?
Impossibile: impossibile, anche solo da immaginare!
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Come emerge nel suo scritto intitolato a “Fede e diritto”, per Rosario Livatino l’ordine giuridico non è un mero fatto contingente, un semplice prodotto della storia, un’esperienza puramente formale.
Non si tratta di un insieme di precetti vigenti solo perché posti da un corpo legislativo e che rivendicano la forza che viene da un comando, come nella più stretta tradizione giuspositivista.
No, non è questo. Piuttosto, l’ordine giuridico si salda con l’ordine naturale, immanente alle cose. E in tal senso poggia su un chiaro fondamento etico.
Fin dalla propria tesi di laurea, rivelando un pensiero già profondo e maturo, Livatino scriveva che il diritto “è costruito per l’uomo, a misura d’uomo”, nella sua consustanziale vocazione alla socialità, alla vita in comune: il solo luogo, questo, in cui il singolo può vedere salvaguardata la propria dignità e in cui possono realizzarsi le condizioni per vivere bene, per una buona-vita.
La mala-vita è la negazione di tutto ciò. E si rivela dunque irricevibile la pretesa di chiunque intendesse che un Giudice non debba adempiere fino in fondo il proprio compito: quello di realizzare l’ordine giuridico, attuando la giustizia.
Sono un Giudice: questo ho fatto; questo dovevo fare; non mi si poteva chiedere altro.
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Ma ho accennato, così, a un tema centrale nella testimonianza di Livatino: il tema della giustizia.
Legge, diritto e giustizia: questa è la triade con cui si confronta ogni giurista, nel corso della sua formazione e durante la sua attività.
Alla legge, intesa come l’insieme dei precetti, delle norme e delle regole che compongono l’ordinamento giuridico, si arriva con l’erudizione.
Il diritto è invece qualcosa di più: è un discorso organico, la sintesi dell’interpretazione delle singole norme e della loro ricomposizione in un sistema ordinato e coerente. Al diritto si arriva con una conoscenza che si fa competenza scientifica.
Più in là ancora del diritto, però, sta la giustizia. La scienza giuridica non è ancora tutto. Già l’antico giureconsulto, con una sintesi mirabile, insegnava che il diritto è ars boni et aequi (Celso).
È dunque necessario che il discorso scientifico sul diritto, ad un certo punto, si sciolga in una valutazione più rotonda: non condensata soltanto in rigorose proposizioni formali, ma attenta alle peculiarità del caso da decidere, alla sua concretezza, alle istanze pratiche che esso presenta.
Ecco il momento della giustizia: un momento ineffabile, in cui il diritto si fa ars, e tende a realizzare ciò che è “buono ed equo”.
Ora, come lo strumento per accedere alla legge è una conoscenza erudita e come il diritto, per essere compreso, richiede precise competenze, che si affinano con lo studio e la formazione, così la via di ingresso alla giustizia sembra essere l’esperienza.
La legge la si impara; il diritto lo si apprende; la giustizia non si impara né si apprende: la giustizia la si vive.
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Siamo qui ad un problema fondamentale per il giurista: un problema che, quanto al Giudice, ne definisce lo stesso modo d’essere. Chi mai potrebbe accettare, infatti, la figura di un Giudice che non sia giusto?
Non parlo del Giudice come ipotetico perequatore di diseguaglianze sociali, secondo quanto inteso da certe istanze politiche che lo stesso Livatino valutava negativamente, bollandole come un “tradimento” delle funzioni e dei compiti affidati alla magistratura dalla Carta costituzionale.
Parlo della giustizia come anelito a vivificare la legge, a darle “un’anima”, a comprendere – e sono parole di Livatino – che essa è sempre un mezzo e mai un fine.
Ora, se è soltanto l’esperienza – come ho detto – ciò a cui si può attingere nella ricerca della giustizia, ebbene l’esperienza di Rosario Livatino era tutta pregna della fede.
“… decidere è scegliere … e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare”, così scriveva.
Il magistrato si trova solo nel momento della decisione, ma questa solitudine, nell’esperienza di Livatino, è riempita dal “rapporto con Dio”. Tanto che egli non esita a indicare nella preghiera un momento significativo – o il più significativo – del processo decisionale: Dio mio, ispirami nella scelta!
C’è dunque molto di più che non il richiamo ad un sistema di valori etici, sia pure quelli della tradizione cristiana. La fede è la base esperienziale da cui è intermediata la ricerca della giustizia.
Tutto il contrario che il richiudersi in sé stessi, in una dimensione asfittica e autoreferenziale, giacché – come annota ancora Livatino – “nessun uomo è luce assoluta”!
L’erudizione è muta, la competenza rischia di essere cieca, solo l’esperienza vivifica: e se è una cattiva esperienza il Giudice rischia di essere un cattivo Giudice.
Viene a emergere, così, un problema di grande rilevanza, che è quello della selezione dei magistrati. L’esperienza non la si misura, non la si valuta per concorso, non necessariamente procede di pari passo con l’acquisizione delle necessarie competenze in materia giuridica.
Parlo dell’esperienza – credo sia chiaro – come di quel vissuto che dovrebbe rendere maturi, sensibili, equilibrati, capaci di attingere ad un saldo sistema di valori etici, se non anche, come nel caso di Livatino, ad una dimensione spirituale della propria vita.
Se la ricerca della giustizia non è guidata da un’esperienza forte, che abbia condotto ad un uomo – una donna – definiti e compiuti, il rischio è quello dell’arbitrio individuale, della decisione solipsistica o, peggio, narcisistica.
Con la possibile deformazione che consiste nel praticare le strade di una sorta di “diritto libero”, forgiato dal Giudice secondo il suo sentire soggettivo.
La legge va infatti “vivificata”, ma pur sempre osservata e non disattesa nella pronuncia del Giudice.
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Ma v’è di più nel pensiero di Livatino. La sua è un’esperienza di fede, ma la fede cristiana altro non è – come egli testimonia e dice – se non un’esperienza d’amore.
Nei suoi scritti Livatino si riferisce, così, al passo evangelico in cui Gesù ammonisce chi lo ascolta: “… se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”.
È necessaria una giustizia che superi quella dei dotti, degli eruditi e competenti. La giustizia dei maestri della legge non è sufficiente, non è salvifica: non lo è perché perde di vista l’uomo, scambia il mezzo con il fine. “Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
Ecco che l’operatore di giustizia, nel pensiero di Livatino, dev’essere caritatevole. Perché l’esperienza di Dio è un’esperienza d’amore.
La carità, a sua volta, è dativa. E suona anche a richiamo dei doveri inderogabili di solidarietà cui si riferisce l’art. 2 della nostra Costituzione.
Si scorge così una visione del diritto che è tutt’altro che appiattita sulle ingenue ed egoistiche immagini moderne, secondo cui esso è declinato nel solo segno di sempre nuovi diritti reclamati a gran voce in ogni campo del vivere civile. Il diritto come mera sommatoria dei diritti soggettivi: un luogo in cui tutti possono e nessuno deve.
Non è questa la concezione di Livatino, che invece ha ben chiara la dimensione – non solo giuridica, ma anche etica – della doverosità e responsabilità: una dimensione irrinunciabile, a pena di vedere alterate, altrimenti, le dinamiche dei rapporti sociali.
In questo senso, sono davvero mirabili le pagine dedicate a “Il ruolo del giudice nella società che cambia”, pagine di stringente attualità, anche in relazione al delicatissimo tema dell’indipendenza e trasparenza della magistratura: “Inevitabilmente … è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non [avrebbe] altri obblighi … e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole”.
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Ma vorrei tornare a quanto dicevo poc’anzi sul modo di intendere la giustizia di Rosario Livatino, quale spinta ad applicare la legge, a “vivificarla”, secondo i dettami della carità cristiana.
Con particolare riferimento alla giustizia penale e ai laceranti dilemmi che essa pone, egli scrive che nel decidere (e cioè nel compiere – lo abbiamo visto – quel che è più difficile) il Giudice dovrebbe essere mosso dal “tramite dell’amore verso la persona giudicata”, dismettendo “ogni vanità e soprattutto ogni superbia”.
L’amore, per Livatino, è la metrica stessa della vita. Non posso comprendere ciò che hai fatto e, tanto meno, posso giustificarlo, ma posso tentare di capire.
Torna quindi quell’ultima frase, le ultime parole pronunciate da Rosario Livatino ormai morente: “Cosa vi fatto, picciotti?”. Nonostante tutto, vi ho voluto bene.
Prof. Avv. Stefano Delle Monache
Ordinario di Istituzioni di Diritto Privato
Università di Padova