Anna Smajdor, professoressa all’Università di Oslo, in un articolo apparso sulla rivista “Journal of Theoretical Medicine and Bioethics”, pubblicato lo scorso novembre e intitolato “Whole Body Gestational Donation” (WBGD), propone di utilizzare il corpo di donne in stato di morte celebrale come madri surroganti. In questo articolo si tenta di mettere a punto una critica radicale, sotto il profilo biomorale, a tale proposta.
In attesa che le tecnologie connesse all’utero artificiale (Artificial Womb Tecnology) vengano definitivamente messe a punto e per ovviare alle innumerevoli ed insormontabili questioni bio-etiche poste dalla pratica dalla maternità surrogata (MS), Anna Smajdor, professoressa di filosofia all’Università di Oslo, in un articolo apparso sulla rivista “Journal of Theoretical Medicine and Bioethics”, pubblicato lo scorso novembre e intitolato “Whole Body Gestational Donation” (WBGD), propone di utilizzare il corpo di donne in stato di morte celebrale come madri surroganti per i “futuri genitori che desiderano avere figli ma non possono o preferiscono non gestare“[1].
Facendo riferimento a precedenti teorie della israeliana Rosalie Ber[2], Smajdor ritiene che i corpi di pazienti di sesso femminile in stato vegetativo persistenti (PVS), o di coloro che hanno subito la morte cerebrale, potrebbero essere usati come delle incubatrici, tenendone in vita le funzioni necessarie a consentire la crescita e lo sviluppo del feto, per mezzo di ventilazione e alimentazione artificiali e per il tempo necessario a portare a termine la gravidanza. Il tutto, secondo la Smajdor, dovrebbe potersi compiere all’interno della cornice di giustificazione legale offerta dalle norme, operanti, ormai ad ogni latitudine, in tema di donazione di organi da defunto: “Il mio suggerimento di utilizzare il quadro della donazione di organi significa che: (a) abbiamo più potenziali candidati e (b) abbiamo sistemi di consenso esistenti in base ai quali le persone danno il consenso in modo proattivo in anticipo o si ritiene che lo abbiano fatto in mancanza di qualsiasi prova contraria. Pertanto, ovunque la donazione di organi sia legale, la WBGD cerebralmente morta sarebbe una modifica relativamente semplice a tale quadro”[3].
Orbene, nessuna delle argomentazioni addotte dalla Smajdor nel suo contributo, consente di superare le numerose, complesse e irrisolte questioni di natura eminentemente bio-etica che la pratica della MS ha fin dall’inizio posto e che permangono, semmai amplificate, moltiplicate ed esacerbate dalla prospettiva di una surrogazione praticata sfruttando il corpo di una donna cerebralmente morta, che nell’ottica dell’autrice potrebbe essere mantenuto vivo come mero incubatore, non solo e non tanto per continuare una gravidanza già iniziata, come pure potrebbe pensarsi lecito realizzare al fine di salvare un feto già formatosi e in via di gestazione, ma per consentirne l’avvio di una non ancora iniziata, sfruttando il corpo di una donna morta, al fine di evitare la mole di inconvenienti legati alla MS tradizionale, senza che ciò offra l’occasione di una qualsiasi remora morale per l’autrice, che anzi, sgombrando il campo da ogni ingombro di natura bioetica, chiarisce fin da subito: “La WBGD implica trattare il corpo morto del paziente come un mezzo per un fine, piuttosto che come un fine in sé. Il paziente passa dall’essere al centro delle preoccupazioni mediche, ad essere un deposito di tessuti che possono essere utilizzati a beneficio degli altri”[4].
Eppure, la dignità morale dei soggetti tutti coinvolti nella pratica della MS sembra minacciata fin dalle prime fasi di raccolta, elaborazione e archiviazione dei dati, tanto dei donatori esterni di gameti, quanto delle candidate alla surrogazione, in vista di una classificazione di questo capitale umano, vivo o morto che sia, che consenta alla coppia committente di scegliersi i donatori eventuali come le future candidate alla gestazione[5]. In una parola, la MS, sia nella sua variante dell’utero in affitto da vivente, sia nella variante proposta da Smajdor di WBGD, costituisce sempre e comunque una lesione della dignità della donna poiché rende il suo corpo strumento in vista della soddisfazione dei desideri riproduttivi altrui, con scenari, già in atto, da incubo distopico, tanto più iniqui quanto minore è la capacità di mettere la gestante nella condizione non solo di dare il proprio consenso, alto punto critico della teoria della Smajdor su cui torneremo a breve, ma anche di instaurare qualsiasi tipo di relazione significativa con il feto che ha portato in seno, esattamente come avverrebbe per il caso del ricorso ad una comunissima incubatrice. E proprio la predominanza della tecnica nella pratica della MS conferma il processo, ad essa sotteso, non solo di reificazione, ma anche di spersonalizzazione dell’essere umano, trasformato in un ingranaggio dell’industria della riproduzione umana sempre più incline a conformarsi ai diktat della bio-tecnocrazia.
Da tutto quanto appena descritto, si evince facilmente come quelli della mercificazione, della strumentalizzazione della madre gestante siano effetti e caratteri propri, costitutivi della MS, cioè non legati solo all’eventualità di abusi perpetrati ai danni della parte contrattualmente più debole dell’accordo di surrogazione, tipico dei Paesi dove più facile appare vulnerare le prerogative giuridiche fondamentali di una persona[6], ma anche e soprattutto nella prospettiva dello sfruttamento del nudo corpo gestante della madre encefalicamente morta proposta dalla Smajdor. La quale non ha remore nell’esprimersi nell’ottica di un puro sfruttamento del materiale biologico offerto dal corpo della defunta, tenuta in vita artificialmente, mediante il prolungamento della sua sopravvivenza somatica, al solo fine di consentire l’esito felice della gestazione avviata quando era già in tale stato: “La donatrice WBG non ha vita quotidiana: la sua funzione è esclusivamente quella di gestare. Non osiamo trasferire troppi embrioni in donne vive, perché la riduzione selettiva è traumatica e dannosa per la donna incinta. Non ci sono problemi di questo tipo in relazione al donatore WBGD. Se ha bisogno di più o meno di un particolare farmaco o se sono necessari interventi fetali, non abbiamo nessuno dei potenziali conflitti che possono influenzare le gravidanze ordinarie. I genitori possono trasferire tutti gli embrioni che possono generare, massimizzando le possibilità di almeno un parto vitale e, se necessario, scartando in anticipo quelli danneggiati o malati”[7]. Insomma, in una valutazione puramente utilitaristica, Smajdor afferma che la tecnica della WBGD permette di massimizzare i risultati attesi da una gravidanza portata avanti da una donna in stato di morte encefalica, minimizzando i rischi connessi ad eventi avversi, sempre possibili, per la gestante.
Né pare assurgere a questione problematica, agli occhi della Smajdor, la necessità di una manifestazione univoca di volontà libera da parte della gestante medesima – volontà eventualmente raccolta, secondo modalità ritualmente prescritte, quando ancora fosse nel pieno delle sue facoltà. Invero, prendendo sul punto le distanze dalla Ber, la Nostra non solo nega la necessità di un consenso espresso da parte di chi si troverebbe a fare da madre gestante a sua insaputa in una condizione di morte cerebrale sopravvenuta, ma anzi arriva al punto di sostenere l’opportunità di considerare l’assenza di un chiaro dissenso all’espianto donativo di organi come condizione legale sufficiente a consentire l’uso del corpo delle donne cerebralmente morte in vista di una gestazione per altri: “Certamente, il livello di informazioni ritenute sufficienti come base per il prelievo di organi è minimo rispetto ad altre procedure invasive significative né prima né dopo la morte. Il consenso a un’operazione richiederebbe molto di più grado di informazione; fare testamento richiederebbe un grado molto maggiore di specificità e dovrebbe essere testimoniato per essere giuridicamente vincolante. Se attuale consenso i protocolli sono accettabili per la donazione di organi, dovrebbero essere accettabili per WBGD, magari con ulteriori campagne di informazione pubblica”[8].
Ebbene, la necessità di salvaguardare il diritto di libertà e di autodeterminazione del soggetto morale, che perdura anche post mortem, in una fase cioè in cui il soggetto non è più nelle condizioni di farlo direttamente e personalmente, impone di considerare come legge morale universale l’assunto secondo cui in assenza di un consenso espresso univocamente in vita, il cadavere giammai possa essere violato per mezzo di espianti di tessuti o organi di qualsiasi tipo. Alla base di tale postura morale vi è l’idea che il diritto fondamentale dell’autonomia morale, quale suprema espressione della dignità personale di ogni essere umano, non debba, né possa mai essere sottoposto in vista del beneficio da arrecare ad un’altra persona.
Tornando all’articolo della Smajdor, la stessa sostiene che il prolungamento somatico della sopravvivenza nella donazione convenzionale di organi si giustifica in ragione dei benefici che una simile pratica verrà ad assicurare al destinatario finale dell’organo, e non di quelli che subiranno l’espianto, il cui best interest sembrerebbe anzi in questo caso sacrificato. In tal senso, allora, gli stessi criteri dovrebbero ritenersi applicabili alla WBGD, che dunque ne uscirebbe giustificata nella sua liceità morale esattamente al pari della donazione convenzionale di organi: “Dal momento che siamo felici di accettare che i donatori di organi siano abbastanza morti da donare, non dovremmo avere obiezioni al WBGD per questi motivi. I donatori WBGD sono morti come gli altri donatori, né più né meno. Dal momento che siamo felici di prolungare la sopravvivenza somatica di donne già incinte in morte cerebrale, iniziare una gravidanza tra donatrici idonee in morte cerebrale non dovrebbe preoccuparci indebitamente”[9].
Ebbene, la differenza tra le due prospettive, quella dei donatori convenzionali di organi post mortem e quella di chi metterebbe, seppure volontariamente, a disposizione il proprio corpo per una gestazione per altri, dopo la morte encefalica, al netto di questioni di consenso di cui si è già accennato, è di tutta evidenza. Di certo nei confronti del corpo di qualsiasi uomo, che conserva una dignità che gli deriva dal fatto di essere stato un “corpo umano”, sussistono, in tutte le culture, obblighi morali, prescrizioni o proibizioni per le quali esso non può essere considerato alla stregua di una res o del cadavere di un animale. Una persona, infatti, non “ha” semplicemente un corpo, ma “è” il suo corpo[10], così che, “in forza della sua unione sostanziale con un’anima spirituale, il corpo umano non può essere considerato solo come un complesso di tessuti, organi e funzioni […], ma è parte costitutiva della persona, che attraverso di esso si manifesta e si esprime”[11]. Pertanto, ogni disposizione sul corpo e su parti di esso non può essere fatta contro la volontà, ossia contro il “consenso informato” della persona stessa. Inoltre, alla libertà assoluta del donante, deve fare da pendant la libertà assoluta anche del donatario. Ebbene, nel caso proposto della Smajdor, questa libertà del donatario, di poter liberamente e consapevolmente accettare di nascere dal corpo di una persona encefalicamente morta, non esisterebbe. Si verrebbe cioè a privare il futuro non solo della possibilità di conoscere la sua madre biologica[12], per essere la stessa morta premorta all’inizio della sua gestazione, ma altresì della possibilità di assentire alla totalità dei rischi connessi ad una gestazione condotta in simili condizioni. In ogni caso, qualsiasi donazione post mortem dovrebbe comunque compiersi nel rispetto del corpo del donante, considerato come corpo di una persona e, quindi non semplicemente come accumulo di organi o tessuti da utilizzare e ciò anche in ragione del rispetto che si deve al cadavere a motivo della «sua sacralità per il riferimento fenomenologico e psicologico che riceve nei superstiti»[13].
Un ultimo principio etico statuisce, infine, la necessità che gli organi oggetto della donazione non siano annoverabili nel novero di quelli strettamente legati all’identità di una persona, come nel caso dell’utero di una donna appunto. Si tratta di principi che puntano a garantire una adeguata tutela della dignità umana sia dei donatori sia dei donatari di organi.
Non solo la dichiarata e reificante strumentalizzazione di un corpo umano, implicata dalla pratica della WBGD è eticamente inaccettabile, ma lo è anche la superficialità con la quale la Smajdor parla della sopprimibilità di embrioni e finanche di feti, pur di riuscire a conseguire i risultati attesi dai committenti, in ragione dei cui desideri si è potuto mettere a punto l’idea della liceità morale di un’incubatrice umana morta encefalicamente: “I motivi legali per l’aborto generalmente includono menomazioni o malattie che colpiscono il feto. Pertanto, con una sorveglianza molto stretta, è ragionevole pensare che – se i feti sono gravemente danneggiati da fattori imprevisti derivanti da gestazione con morte cerebrale, questo non deve comportare la nascita di bambini gravemente danneggiati”[14], che dunque potranno essere pacificamente abortiti, anche qualora la diagnosi della patologia fetale dovesse arrivare in una fase ormai avanzata della gestazione.
Del pari inaccettabile appare l’idea di rendere la pratica della WBGD alla portata di tutti, in alternativa alle gravidanze da concepimento naturale e ciò in ragione della necessità di azzerare completamente i rischi connessi a queste ultime: “È noto che la gravidanza e il parto comportano rischi significativi per la salute, anche in ambienti ricchi con sistemi sanitari sofisticati. Esporsi a rischi paragonabili alla gravidanza e al parto sarebbe considerato sciocco e patologico in qualsiasi altro contesto. Ho precedentemente dimostrato che in un confronto tra gravidanza e morbillo, la gravidanza risulta notevolmente peggiore in termini di morbilità e mortalità. Tuttavia, gli sforzi medici concertati si concentrano sul liberarci dal morbillo, mentre ci si aspetta che le donne si sottopongano ai maggiori rischi della gravidanza e del parto quasi senza pensarci. Il morbillo è una malattia soggetta a denuncia, la cui eradicazione è un obiettivo dichiarato della medicina. Ne consegue che anche la gravidanza dovrebbe – a parità di altre condizioni – essere considerata in questa luce, poiché è più rischiosa del morbillo. Non possiamo ancora rinunciare del tutto all’utero per la riproduzione della nostra specie. Ma possiamo trasferire i rischi della gestazione a coloro che non sono più in grado di essere danneggiati da loro”[15].
In effetti, se può apparire ragionevole affermare che la semplice comparsa di una gestazione non implichi, di per sé, il dovere morale per la gestante di sentirsi madre, cionondimeno, la proposta di stabilire una separazione radicale, sistematica, come fa la Smajdor, tra maternità e gestazione reca in sé i germi di una deriva ideologica che rappresenta esattamente il presupposto dello sfruttamento della donna, del suo corpo, della sua femminilità. A dire che se si obnubila l’esistenza di un vincolo ontologico tra maternità e gestazione, se si accetta che sia possibile essere gestanti senza essere madri della creatura che si è portata in grembo, diviene allora altresì possibile, isolando i due momenti, affittare la capacità riproduttiva della donna, ovvero metterla in condizione di disporne per il tempo in cui non sarà più viva cerebralmente, come nel caso in esame, come se gestazione e parto fossero dei servizi qualsiasi, prestazioni pienamente fungibili, disponibili ed esigibili da parte di chicchessia, con o senza un consenso espresso dell’interessato. La MS, nella versione della WBGD proposta di Smajdor, aggrava gli esiti di mercantilizzazione e cosificazione delle facoltà riproduttive femminili, derive, umane, prima ancora che morali, che la separazione tra maternità e gestazione rende possibile e che conduce inevitabilmente a risultati reificanti e dunque eticamente riprovevoli. L’ipotetica esclusione di una transazione economica, poi, come nel caso prospettato da Smajdor, non esclude, semmai conferma la logica mercificante di tale pratica, laddove si consideri che a poter essere donati sono sempre e solo gli oggetti, non certamente le persone, né, meno che mai, il loro corpo, ineludibilmente personale a sua volta.
Antonio Casciano
[1] Smajdor, A., Whole body gestational donation, Theoretical Medicine and Bioethics (2022): https://doi.org/10.1007/s11017-022-09599-8.
[2] Ber, R., Ethical Issues in gestational Surrogacy, Theoretical Medicine and Bioethics (2000): https://doi.org/10.1023/a:1009956218800.
[3] Ivi, pp. 3 – 4.
[4] Smajdor, A., Whole body gestational donation, cit., p. 4.
[5] Sulla questione dell’invasività e del numero dei quesiti posti ai candidati alla donazione di gameti, si veda: Egg Donor Application, 2015.
[6] Donchin, A., Reproductive tourism and the quest for global justice, Bioethics, 24, 2010, pp. 323 – 332.
[7] Smajdor, A., Whole body gestational donation, cit., p. 9.
[8] Ivi, p. 4.
[9] Smajdor, A., Whole body gestational donation, cit., p. 7.
[10] Questo assunto esprime in nuce il «principio di totalità», ossia la considerazione del corpo come «tutto unitario risultante di parti distinte e fra loro organicamente e gerarchicamente unificate dall’esistenza unica e personale» e la consapevolezza che «per salvare il tutto e la vita stessa del soggetto, si debba incidere […] su parte dell’organismo», così in Sgreccia, E., Manuale di bioetica, vol. 1, Milano, 2007 (IV ed.), p. 225.
[11] Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum vitae, nr. 3.
[12] «Occorre notare che eludere la richiesta di conoscere la verità implica una specifica forma di violenza: la violenza di chi, conoscendo la verità che concerne un’altra persona e potendo comunicargliela, si rifiuta di farlo, mantenendo nei suoi confronti un’indebita posizione di potere. Ulteriore rilievo ha questa argomentazione quando questo soggetto sia lo Stato: si deve ricordare il tema individuato da Kant del principio supremo del diritto pubblico, che non può che essere quello della pubblicità, dell’abolizione degli arcana imperii in qualsiasi forma. Lo Stato non ha il diritto e non dovrebbe mai avere il potere di precludere l’accesso alla verità non solo ai propri cittadini, ma a qualsiasi essere umano, in particolare quando questa verità ha per oggetto l’identità personale»: Comitato Nazionale di Bioetica, Conoscere le proprie origini biologiche nella procreazione medicalmente assistita eterologa, 25 novembre2011.
[13] Sgreccia E., Manuale, op. cit., p. 840.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 9.