A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 131/2022, in tema di cognome dei figli (su cui su questo sito cf. https://www.centrostudilivatino.it/il-nuovo-si-della-consulta-al-doppio-cognome-lascia-in-piedi-tanti-problemi-pratici/#more-10574; https://www.centrostudilivatino.it/doppio-cognome-e-davvero-una-priorita/), il presidente emerito di sezione della Cassazione Pietro Dubolino interviene sul merito della questione, e in generale sul potere che la Consulta da tempo si attribuisce nel dettare al legislatore i termini per la formulazione delle nuove norme. L’autore indica anche una strada, ardua ma non impossibile, per affrontare l’anomalia.
1. Con la sentenza n. 131/2022, depositata il 1 giugno scorso (ma il cui contenuto era stato già anticipato con un comunicato-stampa del 27 aprile), la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità, per violazione del principio di uguaglianza, delle norme che prevedevano l’automatica attribuzione del cognome del padre al figlio nato da genitori uniti in matrimonio o anche da genitori non uniti in matrimonio ma dai quali il figlio fosse stato congiuntamente riconosciuto.
In precedenza, con la sentenza n. 286/2016 la stessa Corte si era limitata a dichiarare incostituzionali le medesime norme, nella sola parte in cui non consentivano ai genitori, uniti o meno che fossero in matrimonio, di trasmettere ai figli, di comune accordo, al momento della nascita, anche il cognome materno, in aggiunta a quello paterno che restava quindi, in ogni caso, attribuito per legge. In base alla nuova pronuncia, invece, tale attribuzione deve intendersi del tutto venuta meno e sostituita da una disciplina per cui, secondo quanto testualmente affermato dalla Corte, “il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”.
Appare di tutta evidenza che, con tale decisione, la Corte costituzionale non si è limitata ad espungere dall’ordinamento una norma ritenuta incostituzionale ma si è, di fatto, sostituita al legislatore per creare, al suo posto, una norma del tutto nuova, pur riconoscendo, nel contempo (come risulta dalla lettura della motivazione), la necessità di un intervento integrativo dello stesso legislatore. Esso sarà volto, in primo luogo, “a impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome”; in secondo luogo a prendere in considerazione “ l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle”. Il tutto corredato, inoltre, per l’eventualità di un disaccordo tra i genitori circa il cognome da attribuire al figlio, da un richiamo alle norme, già esistenti, che prevedono la possibilità del ricorso al giudice per risolvere i contrasti tra i genitori su scelte di particolare rilevanza riguardanti i figli.
2. Mette conto osservare, però, che, come ricordato anche nelle sentenze ora citate, la questione di costituzionalità dell’automatica attribuzione del cognome del padre al figlio era già stata affrontata dalla Corte costituzionale, con esiti completamente diversi, nel 1988 e nel 2006. In particolare, con l’ordinanza n. 176/1988, la questione era stata dichiarata inammissibile, osservandosi, tra l’altro, che l’interesse dell’unità familiare, posto come limite, nell’art. 29, secondo comma, della Costituzione, al principio della “uguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, sarebbe stato “gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia” e che, in ogni caso, volendosi modificare la norma in modo da renderla maggiormente “consentanea all’evoluzione della coscienza sociale”, a ciò avrebbe potuto provvedere esclusivamente il legislatore, essendo questa “una questione di politica e di tecnica legislativa”.
Alla stessa conclusione, e sulla base di motivazioni del tutto analoghe, era poi giunta anche l’ordinanza n. 586/1988. Diciotto anni dopo, con la sentenza n. 61/2006, la questione era stata ancora una volta dichiarata inammissibile, dal momento che il suo ipotetico accoglimento avrebbe richiesto “una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte”; e ciò pur osservandosi, nella stessa sentenza, che “l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potesta’ maritale, non piu’ coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. Peraltro, anche con la già citata sentenza n. 286/2016, la Corte, pur giungendo (come si è visto), alla declaratoria di parziale incostituzionalità della norma denunciata, ebbe tuttavia a confermare che, per il resto, ci si doveva necessariamente rimettere a un “intervento legislativo”, postulato come “indifferibile” e “destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”.
3. Come giustificare, quindi, il fatto che, con la sentenza n. 131/2022, la Corte abbia ritenuto che le fosse consentito fare qualcosa che, fino al 2016, secondo quanto da essa stessa affermato, le sarebbe stato inibito, in quanto esulante dalle proprie competenze? A tale interrogativo si deve avere il coraggio di rispondere, sfidando la “communis opinio”, che la giustificazione, in realtà, non esiste.
In particolare, non può condividersi il pur diffuso convincimento che la Corte abbia il potere-dovere di supplire all’inerzia del legislatore a fronte dei suoi più o meno pressanti e perentori “inviti” ad intervenire per modificare o integrare assetti normativi che, nel loro complesso, la stessa Corte abbia ritenuto incompatibili con la Costituzione. A rigore, infatti, la Corte ha solo il potere–dovere di accertare se le norme sottoposte al suo giudizio sono compatibili o meno con la Costituzione e, nella seconda di tali ipotesi, di dichiararne puramente e semplicemente l’incostituzionalità, parziale o totale, rimanendo, per converso, escluso che, pur ritenendole incostituzionali, possa farle sopravvivere “a tempo” (come avviene con le c.d. “sentenze monito”), per ragioni di ritenuta opportunità, nell’attesa che, entro un certo termine, il legislatore intervenga a modificarle nel senso dalla stessa Corte indicato.
Un tale modo di procedere, in realtà, quali che siano i funambolismi dialettici ai quali spesso si fa ricorso per sostenerne la legittimità, dà luogo a due inaccettabili conseguenze: la prima costituita dalla perdurante, ancorché provvisoria, vigenza di una norma che deve quindi continuare a trovare applicazione, fino all’intervento del legislatore, nonostante la sua riconosciuta contrarietà alla Costituzione; la seconda costituita dalla sovrapposizione della volontà della Corte a quella, per definizione sovrana, dello stesso legislatore, al quale si finisce, talvolta, per voler imporre non solo l’intervento, ma anche quello che dovrebbe essere il suo specifico contenuto[1].
All’origine del fenomeno vi è anche il fatto che non sempre, nel pensiero della Corte, appare presente la necessaria distinzione tra il giudizio, a essa demandato, circa la mera compatibilità della norma sottoposta al suo esame con uno o più principi costituzionali e l’individuazione, spettante solo al legislatore, di quella che, tra le varie possibili attuazioni degli stessi principi, sia o possa apparire la migliore, avuto riguardo alla continua evoluzione delle esigenze e del costume della società, di cui lo stesso legislatore, in democrazia, deve ritenersi l’interprete più qualificato.
4. Non sarà inutile ricordare che, ai sensi dell’art. 28 della legge 11 marzo 1953 n. 87, recante “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”, “Il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”. E non sembra facilmente contestabile che mal si concili con tale norma il fatto che la Corte, dopo aver essa stessa affermato, come si è visto nel caso specifico (ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi), di non potersi sostituire al legislatore proprio perché si verteva in materia di “politica e di tecnica legislativa”, abbia poi operato una tale sostituzione scegliendo, fra le varie possibili soluzioni politiche e tecniche, quella non certo “obbligata”, ma semplicemente ritenuta più conforme alle proprie visioni.
Il citato art. 28, però, non è munito di apposita sanzione né sono previsti specifici rimedi per il caso che esso possa ritenersi violato. Se ne deve quindi trarre la conclusione che la sua osservanza sia rimessa soltanto all’autonoma ed insindacabile capacità di “self restraint” della stessa Corte costituzionale? Se così fosse, tanto varrebbe ammettere che esso è da considerare, di fatto, “tamquam non esset”, per cui ogni e qualsiasi debordamento della Corte, sempre possibile a verificarsi, dai limiti del suo potere, in danno della sfera di attribuzione di altri organi costituzionali, sarebbe senza rimedio alcuno. Ciò a differenza di quanto è invece previsto per il caso che siano altri organi costituzionali a debordare dai limiti ad essi imposti dalla Costituzione, trovando essi, sulla loro strada, in un modo o nell’altro, proprio il controllo esercitato dalla Corte costituzionale. Rimarrebbe quindi privo di risposta, con riguardo a quest’ultima, il classico interrogativo “quis custodiet custodes ?”[2].
5. Se non ci si vuole rassegnare a una tale anomalia, ben poco compatibile con il fondamentale principio dell’equilibrio dei poteri cui si ispira la nostra Costituzione, occorre quindi sforzarsi di trovare, nelle pieghe del sistema giuridico, uno strumento mediante il quale essa possa essere eliminata o, quanto meno, ridotta. E lo strumento potrebbe essere costituito da una pura e semplice disapplicazione del “dictum” della Corte costituzionale, quando esso sia ritenuto illegittimo in quanto esorbitante dai limiti segnati dall’art. 28 della legge n.87/1953; disapplicazione che potrebbe aver luogo ogni qual volta dovesse decidersi, in sede giurisdizionale, una controversia nella quale assuma rilievo la norma oggetto del giudizio di incostituzionalità, atteso che spetta in ogni caso all’autorità giudiziaria investita di quella controversia stabilire se sia o meno da considerare vigente la norma sulla base della quale la relativa decisione dovrebbe essere adottata.
Al riguardo sembra appena il caso di osservare che la Corte costituzionale ha sì il potere di dichiarare l’incostituzionalità delle norme sottoposte al suo esame, ma non ha quello di annullare le decisioni giudiziarie che, disattendendo, in ipotesi, tale declaratoria, continuino a fare applicazione delle stesse norme. L’annullamento potrebbe aver luogo esclusivamente ad opera del giudice di legittimità, cioè della Corte di cassazione, ma se quest’ultima decidesse diversamente il risultato sarebbe la definitiva disapplicazione della pronuncia di incostituzionalità. Vero è che tale disapplicazione opererebbe solo nel caso specifico sottoposto al giudizio della Cassazione, ma altrettanto vero è che se tale giudizio divenisse espressione di un orientamento consolidato, l’effetto della pronuncia di incostituzionalità verrebbe, di fatto, annullato del tutto.
6. Inutile dire che quella ora illustrata è una prospettiva puramente teorica, sulla cui traduzione in pratica non si può certo nutrire, allo stato, la benché minima illusione; e ciò perché essa richiederebbe, in chi volesse tentarla, oltre alla condivisione delle argomentazioni giuridiche sopra illustrate, anche e soprattutto una dose di coraggio tale da rasentare la temerarietà: quella, cioè, che sarebbe necessaria per fronteggiare il prevedibile fuoco di sbarramento da parte dell’”establishment” politico, mediatico e giudiziario, incondizionatamente favorevole, nella stragrande maggioranza, alla sacralità, in genere, delle decisioni della Corte costituzionale e tra di esse, in particolare, di quelle che (come nel nostro caso), vengano incontro alle aspettative del “politicamente corretto”.
Molta acqua è passata, infatti sotto i ponti da quando, a seguito della pronuncia di una delle prime (se non la prima in assoluto) tra le sentenze c.d. “additive” della Corte costituzionale, e cioè quella n. 190/1970, dichiarativa della illegittimità costituzionale dell’art. 304 bis, primo comma, dell’allora vigente codice di procedura penale, limitatamente alla parte in cui non prevedeva il diritto del difensore dell’imputato di assistere all’interrogatorio, si manifestò nell’ambito della magistratura penale, con il sostegno di buona parte della dottrina, un diffuso movimento di “ribellione” al “dictum” della Corte, ritenendosi che quest’ultima non avesse il potere di adottare pronunce del genere di quella in discorso e che quindi esse, se adottate, dovessero essere disapplicate.
E la tesi trovò implicito avallo nel fatto che il legislatore (senza essere stato a ciò in alcun modo sollecitato nella sentenza in questione), ritenne necessario, per eliminare la situazione di incertezza, intervenire con il D.L. n. 2/1971, conv. in legge n. 62/1971, aggiungendo espressamente l’interrogatorio dell’imputato all’elenco degli atti ai quali, ai sensi del citato art. 304 bis, il difensore dell’imputato aveva diritto di assistere. La Costituzione e le norme che regolano le funzioni della Corte costituzionale erano allora, per quanto qui interessa, le stesse che sono ancor oggi vigenti, ma lo “zeitgeist” era, con ogni evidenza, di gran lunga diverso.
Pietro Dubolino
[1] Per un’ampia e articolata trattazione della varie problematiche attinenti al “potere di supplenza” della Corte costituzionale e, più in generale, ai rapporti tra quest’ultima e il potere legislativo, con dovizia di richiami dottrinali e giurisprudenziali, si vedano, tra gli altri: L. ARCIDIACONO, Discrezionalità legislativa e giurisprudenza della Corte a confronto in tre recenti decisioni, in Teoria del diritto e dello Stato. Aracne, 2010; F.MODUGNO, La “supplenza” della Corte costituzionale, in Federalismi.it, 16/2007; A.RUGGERI, Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica ?, in Osservatorio sulle fonti, fasc. 2/2021. Con specifico riguardo alla c.d. “sentenze monito”, la legittimità delle stesse risulta ammessa, in particolare, da MODUGNO, op.cit., par.45, 47, 48, in dichiarato dissenso con il diverso, richiamato orientamento espresso da G. ZAGREBELSKY, nello scritto La Corte costituzionale e il legislatore, in Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, 1982, 120.
[2] Di “sostanziale fragilità dell’art. 28 della l. n. 87 del 1953” parla ARCIDIACONO, op. cit., par. 1. Anche per MODUGNO, op. cit., par. 24, “il criterio del limite insuperabile è sempre rimesso alla discrezionalità della Corte e quindi alla sua libertà interpretativa”.