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Introduzione

Negli anni Ottanta, in Italia, l’abuso di eroina è stata una piaga sociale che ha devastato un’intera generazione. In quegli anni il dibattito pubblico sull’argomento era molto acceso. Attualmente, invece, sembra un tema quasi dimenticato: si parla di sostanze stupefacenti troppo spesso declinando il concetto al singolare, inserendolo nella vaga categoria droga. Anche grazie alle campagne di depenalizzazione, che sono state portate avanti in diversi Paesi del mondo, si sente parlare della cannabis, dei suoi possibili impieghi benefici e della possibilità di aprire negozi che la vendano per il consumo ricreativo.

Difficilmente, invece, si analizza il tema delle droghe pesanti, in particolare degli oppioidi, e le conseguenze terribili legate al consumo di queste sostanze.

Al fine di comprendere i meccanismi di questo fenomeno è necessaria una analisi storica che tenga conto dell’evoluzione del consumo di questa sostanza, della risposta delle istituzioni a livello legislativo e la ricaduta del fenomeno a livello sociale.

Ora, la mia prima tesi è che l’esperienza della droga sia riconoscibile come una delle esemplificazioni realizzate dell’erosione del valore condiviso dell’eguale autonomia individuale. In questo senso, essa costituisce un genuino costo morale per istituzioni giuste.” (Salvatore Veca, “I costi sociali della droga“, atti della Prima Conferenza Nazionale sulla droga, Palermo, Giugno 93).

La presenza della droga nella storia umana

La presenza continuata delle droghe nella storia serve non tanto a ricordare una coesistenza pacifica, oggi non più possibile, quanto a comprendere un altro aspetto: la regolarità e la frequenza con la quale il bisogno umano di trascendere gli stati di coscienza, di potenziare le capacità sensoriali, o di annientare il dolore e raggiungere la pacificazione catartica, si manifesta cercando sbocchi in direzioni diverse ma sempre riconducibile all’auto-distruzione.

Alla parola droga corrisponde fino agli anni ’50 un significato del tutto innocente nei dizionari della lingua italiana. Lo si usa per parlare di spezie e di aromi. Poi con il tempo il termine perde la sua innocenza originaria ma la descrizione resta ampia e poco centrata, con il solo distinguo fra prodotti naturali e prodotti chimici.

Nel 1967 l’Organizzazione mondiale della sanità elabora una definizione, che rimane ancora in uso: droga è ogni sostanza naturale o artificiale in grado di modificare la psicologia e l’attività mentale degli esseri umani. Questi effetti vengono denominati «psicoattivi». È ancora una definizione sommaria, ma ha il pregio di evidenziare l’unico denominatore comune a tutte, cioè la capacità di alterare gli stati di coscienza e il sistema nervoso.

Da questo ombrello comune si possono estrarre e distinguere tutte le famiglie delle droghe. Ognuna è diversa dall’altra per gli effetti che produce in primo luogo, e per la considerazione nella quale è tenuta dalla società, subito dopo. Quanto modificano l’umore e l’attività mentale degli esseri umani le droghe – poco, molto – e con quali conseguenze – irrisorie, leggere, profonde?

Bisogna cominciare prima col prendere atto che il sapere umano ha individuato la natura e le capacità delle sostanze psicoattive moltissimo tempo fa e che numerosi popoli le hanno conosciute e usate: ma l’esperienza diretta della droga nel passato storico si è configurata in maniera assai diversa da quella di cui ci occupiamo nei nostri giorni.

Le testimonianze sono numerose e ne citerò solo alcune. Si tratta delle droghe naturali più importanti: l’alcol, la coca, l’hascisc, l’oppio, tutte con radici molto lontane nel tempo. Ho nominato l’alcol – Alceo nel distico celebra la bontà del vino – perché come sostanza psicoattiva è la più antica e diffusa tra le popolazioni mediterranee che l’hanno distillata, preferendola a lungo all’altrettanto antica canapa indiana e destinandole un posto di rilievo nella farmacopea. Le sostanze di origine asiatica e orientale vantano gli autori classici più celebri tra i loro osservatori.

È Erodoto che descrive l’hascisc nel quarto libro delle Storie, ma l’abitudine di respirarne l’effluvio non è dei greci, popolo mediterraneo che appunto favoriva le bevande alcoliche, bensì degli sciti: «il seme gettato fa fumo ed emana un vapore tale che nessun bagno a vapore greco potrebbe vincerlo: gli sciti mandano urla di gioia…». [1]

Siamo nella famiglia della canapa indiana, che fioriva allora sull’Himalaya settentrionale e l’hascisc, ricavato dalla sua resina, è al centro di uno dei racconti di Marco Polo. A seconda delle diverse redazioni de Il Milione, Marco Polo parla di hascisc o di oppio (che invece si ricava dal papavero). I seguaci del Vecchio sulla montagna, nel quarantesimo capitolo, vengono circuiti e addormentati da una bevanda meravigliosa che evoca in loro visioni di paradiso, poi, soggiogati e indotti a ubbidire, eseguono i delitti commissionati dal vecchio capo: nel loro nome – assassini – si conserva la radice dell’hascisc. Nei testi storici affiorano sia usi rituali e religiosi delle piante da cui provengono le sostanze (considerate piante sacre) -e in questo caso il fine è di trascendere lo stato normale della mente in vista della comunicazione con gli esseri soprannaturali o con gli dei-, sia usi puramente voluttuari, legati al piacere dei sensi, o una combinazione di entrambi. Le occasioni sono circoscritte, intermittenti, confinate a momenti o a eventi simbolici, incorporate entro relazioni sociali di fiducia e di sicurezza. I due esempi più chiari di un uso soprattutto voluttuario riguardano la coca e l’oppio, due sostanze assai diverse tra loro.

Non sono gli autori classici a descrivere gli effetti che le foglie di coca generavano tra gli indiani americani sconfitti dagli europei; lo fanno soltanto le testimonianze dei conquistatori stessi nel Perù, in Columbia, in Ecuador (così il segretario di Pizarro, nel 1533). Anche la coca era considerata una pianta sacra, al pari del peyotl diffuso in Messico, ma la masticavano sia i sacerdoti sia i contadini che i pastori, si dice per tollerare la fatica del lavoro sulle Ande ad altitudini elevate: è effetto proprio di questa sostanza l’abbassamento della soglia della fatica fisica. Un congresso ecclesiastico a Lima, dopo la conquista, provò a proibirne l’uso tra i contadini, definendo la coca pianta idolatrica, ma ottenne pochissima ubbidienza. All’interno di alcune tribù indiane americane, sia nel nord sia nel centro del continente, il legame con le foglie di coca non si è mai spezzato, neanche in epoca moderna, come testimonia tutta l’opera di Carlos Castaneda. La vicenda dell’oppio appare più complicata anche se nasce con analoghe caratteristiche di naturalezza e di normalità. [2]

I farmaci derivati dall’oppio sono i più antichi rimedi in uso ancora oggi. I Sumeri definivano il papavero la “pianta della felicità”: questo permette di intuire che ne avessero appreso le proprietà. Gli effetti psicotropi del succo di papavero erano ben conosciuti ai medici dell’antica Grecia, come riportato dal filosofo e botanico Teofrasto nel III secolo a.C.. L’oppio e la carne di vipera erano i principali ingredienti della terriaca, inventata dal medico personale di Nerone, Andromaco, che attraverso i perfezionamenti introdotti da Galeno è rimasta in uso fino al XVIII secolo.

Il medico alchimista Paracelso (1499-1541) ha ideato il laudano, la cui etimologia deriva dal verbo latino laudare: per la prima volta viene associato ad un oppiaceo il concetto di eroico.  Il laudano è un preparato farmaceutico a base di oppio. Si produce macerando l’oppio nel vino o in una soluzione alcolica per diversi giorni, con l’aggiunta di alcune spezie quali zafferano, cannella e chiodi di garofano che mascherano il gusto dell’oppio e lo rendono più gradevole. Si ottiene così un liquido brunastro, che, grazie al suo contenuto di morfina (1%), ha proprietà analgesiche e antispastiche.

Nel 1680 Thomas Sydenham ideò la tintura d’oppio, che poteva essere impiegata, in base alla sua composizione, come analgesico, sedativo o stimolate. Fu spesso utilizzata nel corso della guerra civile americana, con il duplice scopo di alleviare la sofferenza dei soldati feriti e di curare i disagi psicologici provocati dalla battaglia. Fu soprattutto il secondo impiego a degenerare nelle prime vere tossicodipendenze da oppio. A partire dal XVIII secolo, in Germania ebbero inizio le prime sperimentazioni che condussero all’isolamento dell’alcaloide più potente contenuto nell’oppio: la morfina. Nel 1804 il farmacista tedesco Friedrich Wilhelm Adam Serturner (1785- 1841) riuscì per la prima volta ad estrarre la morfina, per commercializzarla, a partire dal 1817, come farmaco contro la dipendenza da laudano, oppio e alcol. Rispetto al laudano che veniva prodotto diluendo l’oppio con alcol e spezie, la morfina è un vero e proprio farmaco moderno: può essere somministrato in quantità esatte ed è possibile un maggiore controllo degli effetti collaterali. Venne però sottovalutato da parte di medici e farmacisti il fatto che si trattasse di una sostanza raffinata e di conseguenza molto potente.

Un caso emblematico è rappresentato dallo Sciroppo lenitivo di Mrs Winslow (Mrs Winslow’s soothing syrup), uno sciroppo ad uso pediatrico messo sul mercato a partire dal 1849. Venduto come l’amico delle mamme, veniva utilizzato per gli scopi più svariati, dalle eruzioni dentarie ai problemi intestinali, e si può ipotizzare che venisse somministrato per sedare qualsiasi stato di agitazione o pianto. L’indiscutibile efficacia del prodotto, unita alla considerazione che si aveva dello stesso, concepito come naturale e sicuro, contribuì all’enorme successo dello sciroppo.

Solo nel 1911 l’American Medical Association denunciò l’abuso del preparato, la cui vendita nel Regno Unito fu proibita nel 1930. Per quanto attualmente possa sembrare inconsueto, un uso simile della morfina non era insolito fino a pochi decenni fa in alcune zone del Sud Italia, l’impiego di decotti di papavero per sedare le crisi di pianto dei bambini o per indurne il sonno, la cosiddetta papagna o in Sicilia papaverina. La morfina si dimostra subito un farmaco in grado di sollevare qualsiasi paziente da qualunque sofferenza, rendendo così molti medici inclini ad utilizzarla; eppure fu presto chiaro che essa instaurava una dipendenza molto più forte rispetto al laudano, e in un tempo inferiore.

Ma la presenza continuata delle droghe nella storia serve non tanto a ricordare una coesistenza pacifica, oggi non più possibile, quanto a comprendere un altro aspetto: la regolarità e la frequenza con la quale il bisogno umano di trascendere gli stati di coscienza, di potenziare le capacità sensoriali, o di annientare il dolore e raggiungere la pacificazione catartica, si manifesta cercando sbocchi in direzioni diverse ma sempre riconducibile all’auto-distruzione. È questo bisogno che molti scrittori hanno osservato e descritto da vicino: A. Huxley nel suo saggio sulla mescalina, C. Baudelaire nelle prose dei Paradisi artificiali, T. De Quincey nell’autobiografia del fumatore d’oppio.

E, con intenzione analitica diversa, M. Weber quando ha constatato l’importanza per i brahmani induisti di sorseggiare il succo inebriante del soma, la materia sacrificale più importante nella religione vedica; il sociologo Elias quando ha analizzato il rapporto tra la pulsione dell’aggressività e lo sport; lo psicologo Palmonari quando ha studiato le turbolenze e le tentazioni trasgressive dell’adolescenza. Tutti hanno scrutato il desiderio umano di trascendere i confini dell’io e di affinarne, sublimandole, le facoltà mentali e fisiche.

Da questo filo forte con la storia delle nostre esperienze, delle nostre inclinazioni e anche dei nostri sogni di onnipotenza è il caso di partire per cercare prima di tutto di riconoscerli e di comprenderli, per ragionare poi sul modo di governarli, infine per vigilare su quei mezzi, in questo caso le sostanze naturali e chimiche, che possono sfruttare e distorcere un’inclinazione così diffusa.

Nel 1897, la Bayer fu la prima casa farmaceutica a sintetizzare l’eroina: viene ottenuta tramite un processo di acetilazione della morfina; il suo nome scientifico è diacetilmorfina. Venne proposta come rimedio per la dipendenza da morfina, la tosse, e considerata particolarmente adatta ai bambini data la presunta maneggevolezza. Paradossalmente, nello stesso periodo, dall’acetilazione dell’acido salicilico era stato ottenuto l’acido acetilsalicilico, ovvero l’aspirina, e la stessa casa farmaceutica presentò l’eroina come un farmaco senza grandi effetti collaterali mentre chiese ai medici di essere cauti nella prescrizione dell’aspirina. Oltre ad essere fino a due volte più potente della morfina, l’eroina aveva un effetto più veloce: in particolare per via iniettiva i suoi effetti erano immediati. Anche questa volta non passò molto tempo prima che ci si rendesse conto che l’eroina non curasse la dipendenza da morfina, bensì ne stabilisse una molto più marcata. Dalla commercializzazione dell’eroina la Bayer non ottenne mai i guadagni sperati e nel 1911 perse il brevetto.

A partire dal 1924 l’uso medico dell’eroina venne progressivamente proibito in tutto il mondo. Oggi l’eroina non è più un farmaco in nessun Paese tranne che nel Regno Unito, in cui viene impiegata nei momenti in cui occorre un farmaco simile alla morfina ma con un effetto immediato. Anche se per poco tempo, l’eroina è stata a tutti gli effetti un farmaco, poi finito sul mercato illegale: si può dunque affermare che l’origine della malattia da eroina derivi da un effetto non voluto di un trattamento farmacologico del quale i medici dell’epoca hanno una responsabilità. [3]

In Italia, il consumo di stupefacenti assunse una dimensione di massa a partire dagli anni Settanta. Prima di addentrarsi dell’analisi delle caratteristiche del fenomeno e degli interventi adottati come reazione, si è ritenuto utile ricostruire un quadro complessivo del periodo precedente negli Stati Uniti, evidenziando la graduale crescita del consumo interno, le legislazioni preposte a contrastarne la diffusione e le rappresentazioni pubbliche dei consumatori. Nel 1906 gli Stati Uniti d’America introdussero la prima drug law e, nel corso degli anni, la criminalizzazione delle sostanze stupefacenti è diventata talmente severa da essere oggi conosciuta come “war on drugs”, guerra alla droga.

Daniele Onori


[1] Erodoto, Historiae, IV, 73(2)-75, nella traduzione di Augusta Izzo D’Accini, 1984, Mondadori, Milano. 

[2] S. Piccone Stella, Droga e Tossicodipendenza, p. 25 e ss. il Mulino Bologna 1999

[3] S. Giancane, Eroina. La malattia degli oppioidi nell’era digitale Edizioni Gruppo Abele 2014

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