Di alfredo mantovano, da Tempi mensile, giugno 2022.
Varsavia, agosto 1920. L’Armata rossa si avvicina alla capitale polacca. Il 7 di quel mese Lenin annuncia al congresso del Komintern che l’esercito della neo costituita Unione sovietica, comandato da Michajl Tuchačevskij, è prossimo a entrarvi, e il 13 le pone l’assedio. Nei giorni precedenti il governo polacco domanda aiuto ai governi europei, senza riceverlo tranne che dall’Ungheria, che risponde all’appello, e però si vede rifiutato il passaggio delle proprie truppe ai confini slovacchi. Il 16 agosto i polacchi, molti dei quali volontari, comandati da Józef Piłsudski, contrattaccano da Sud, e obbligano i sovietici a un ritiro disorganizzato a Est, oltre il fiume Nemunas: la battaglia è conosciuta come Miracolo della Vistola (in polacco Cud nad Wisłą), perché preceduta e accompagnata dall’intensa preghiera alla Vergine di Jasna Gòra, chiesta dai vescovi polacchi al Papa Benedetto XV e ai Cristiani nel mondo, e perché vinta dalla Polonia con uomini e mezzi in quantità notevolmente inferiore a quelli di Mosca.
La battaglia sui “nuovi diritti”. Si dice che la Storia non si fa con i ‘se’ e con i ‘ma’, e per certi aspetti è vero. Purché non si rinunci a chiedersi che cosa sarebbe accaduto ‘se’, in un determinato contesto, un uomo o un gruppo di uomini avessero deciso diversamente: non per rimpiangere il passato, ma per rendere il merito dovuto a chi quelle scelte ha operato. È certo che l’eroica resistenza dei soldati polacchi sulle sponde della Vistola, oltre a garantire alla Polonia vent’anni di vita civile e libera, ha impedito che l’Armata rossa, superata Varsavia, dilagasse in Europa orientale. Analogamente potrebbe dirsi per il ruolo svolto dall’Ungheria non in questa circostanza, ma nei secoli precedenti, quando, con costi umani e materiali pesantissimi, aveva costituito l’ultimo baluardo europeo contro l’impero Ottomano.
A Varsavia come a Budapest il coraggio è stato il riflesso di una fede profonda. Ricordarlo, e darne le ragioni, è stata una costante del magistero del Pontefice ‘venuto da un Paese lontano’: “non si può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone; bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale”, scriveva Giovanni Paolo II il 31 maggio 1980. Questo vale per l’intero “oecumene”, ma in particolare per l’Europa: il Papa Santo ne è stato così convinto da aver dichiarato patroni dell’Europa, a fianco di Benedetto, Cirillo e Metodio, perché “l’anima slava (…) appartiene sia all’Oriente che all’Occidente e si nutre a questa doppia sorgente del patrimonio comune, radicato nella fede in Cristo”(3 giugno 1979).
Nell’Europa che conta tutto questo non conta. Per l’Ungheria il contenzioso da tempo in atto con la Commissione, e soprattutto col Parlamento UE, riguarda non già il merito delle sanzioni alla Russia (altrimenti andrebbe chiesto conto a Germania e Italia del pagamento in rubli delle forniture energetiche di Mosca), bensì la mancata elargizione dei 7,2 miliardi di euro del PNRR a favore di Budapest: vittima, quest’ultima, del meccanismo di condizionalità economica per cui i trasferimenti di bilancio dall’Unione ai singoli Stati possono essere sospesi o del tutto negati in presenza di loro presunte violazioni all’ordinamento giuridico UE. La formale contestazione rivolta all’Ungheria è di non rispettare i princìpi dello ‘stato di diritto’, per via della propria legislazione scolastica restrittiva nei confronti della propaganda lgbt nelle scuole.
La Polonia è pur essa privata del denaro del Next Generation EU perché ugualmente rea di ‘leso stato di diritto’, ma a causa della sua riforma dell’ordinamento giudiziario: riforma che invece potrebbe fornire spunti interessanti, se la si esaminasse con minore acrimonia e senza i condizionamenti ideologici delle multinazionali giudiziarie, soprattutto quanto ai rapporti fra la Corte di Giustizia europea e la giurisdizione dei singoli Stati membri.
È vero, “siamo diversi”. In un momento di così grave conflitto sul suolo europeo, con missili, bombe, blindati e morti – tanti morti – sul terreno ucraino, l’Europa che conta mantiene ben alto il muro elevato al proprio interno nei confronti di chi non ha i requisiti di adesione al club. E trova i suoi cantori; come non essere grati per la chiarezza a uno degli scrittori che ‘piace alla gente che piace’, qual è Antonio Scurati? Intervistato da la Repubblica (10 aprile 2022, ma ribadisce il concetto in ogni contesto mediatico nel quale si trovi), egli dichiara con cipiglio che “l’Europa non sa più cos’è. L’Europa occidentale è molto diversa da quella orientale, e infatti uno degli errori storici è stato allargarla a Paesi come Polonia e Ungheria che non condividono la nostra stessa idea di democrazia”. Questa guerra è per lui, prima ancora di una tragedia da far cessare appena possibile, “l’occasione per ripensare l’Europa e i suoi confini. Siamo diversi dagli Usa, ma anche diversi dall’Europa dell’Est”; poi precisa, all’ipotesi dell’ingresso dell’Ucraina nella Ue, che “trovo la sua richiesta legittima, a condizione che dimostri di voler rispettare i valori del trattato di Lisbona”.
Dunque, il discrimine non è geografico ma ideologico, e sta nell’accettazione o meno dei ‘valori’ che chiamano ‘nuovi diritti’ i desideri, impongono l’aborto come diritto e il gender come strumento educativo per gli adolescenti, ed evocano la supremazia giudiziaria sulle istituzioni rappresentative, senza trascurare l’esaltazione dell’ecologismo più demenziale.
Accade però che la cronaca – prima ancora di diventare Storia – si prenda qualche rivincita. E che, mentre si pontifica sull’abbandono di Polonia e Ungheria (ma non dell’Ucraina) a un destino non europeo, Varsavia riveli al resto d’Europa e al mondo quale senso concreto possano avere parole come aiuto e solidarietà: il Corriere della Sera dell’11 maggio stima in 3,2 milioni i profughi ucraini accolti, curati, nutriti e alloggiati sul territorio polacco nel giro di poche settimane. La cifra va aggiornata al rialzo: ma già così è come se in Italia in tre mesi fossero arrivate 5 milioni di persone, mentre invece siamo a un po’ più di 100.000. Vi è da aggiungere che tre polacchi su quattro hanno donato beni ai rifugiati, due su tre denaro, e il 40% è consapevole che i profughi resteranno sul suolo della Polonia.
Ha ragione Scurati, e i non pochi intellettuali che ne condividono le tesi: la guerra in Ucraina è una occasione per ripensare l’Europa. Ma verso una direzione diversa da quella da lui immaginata. Bruxelles ha davanti a sé la scelta fra la concretezza di Varsavia o le chiacchiere di Capalbio. Ricordate, era l’estate 2016? nell’elegante lido maremmano, luogo popolato d’estate da vip della cultura, della politica e della giurisdizione, uniti nel ritenere l’immigrazione una risorsa, perché riequilibra il calo demografico e crea un positivo incontro interetnico e di fusione culturale, comparvero all’orizzonte 50 migranti da ospitare: 50, non 5.000, quanti ogni giorno attraversano il confine fra Ucraina e Polonia. Scoppiò la rivolta, guidata dal sindaco PD e da non pochi illuminati residenti agostani: finché i 50 furono ridotti a 12, numero ideale per il melting pot!
Viva l’umanità, morte agli uomini. È stata una attualizzazione – come lo è il ripudio del club di Bruxelles di Polonia e Ungheria – della distinzione fra l’amore per l’umanità e l’amore per le persone singole e concrete, di cui scrive Fëdor Dostoevskij (lo riportiamo a parte): letta la quale, è ancora più evidente comprendere perché cagiona così gravi danni all’Europa di oggi privarsi dell’ossigeno che proviene dal suo polmone orientale. E perché i miracoli nella Storia accadono, purché accompagnati da preghiera, azione e sacrificio.
“(…) quanto più amo l’umanità, tanto meno amo gli uomini in particolare, cioè presi separatamente, come singoli individui. Non di rado, fantasticando, sono arrivato a progettare con passione dei modi per servire l’umanità, e forse sarei davvero salito sulla croce per gli uomini, se fosse stato necessario, ma intanto non sono in grado di convivere per due giorni nella stessa camera con un altro, chiunque sia; lo so per esperienza. Appena qualcuno mi sta vicino, ecco che la sua personalità opprime il mio amor proprio e soffoca la mia libertà. In sole ventiquattr’ore posso arrivare a odiare anche l’uomo migliore del mondo: uno perché resta a tavola troppo a lungo, un altro perché ha il raffreddore e non fa che soffiarsi il naso. Io (…) divento nemico degli uomini appena vengono a contatto con me. In compenso mi è sempre successo che, quanto più odiavo gli uomini in particolare, tanto più ardente si faceva il mio amore per l’umanità in genere”.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov, libro II par. 4, trad.it. Newton Compton ed., p. 74.