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Il 2 dicembre si è svolto a Roma un incontro di studi intitolato “Famiglia e circolazione dei modelli giuridici. A margine della sentenza del Consiglio di Stato 26 ottobre 2015, n. 4899”, organizzato dalla Università LUMSA insieme al centro studio Rosario Livatino. 

L’incontro, presieduto da Giovanni Giacobbe, già magistrato e ordinario di Diritto privato, ha preso le mosse dai principi del diritto romano, e in particolare dalle definizioni antiche di diritto naturale, matrimonio e famiglia illustrate dalla prof.ssa Maria Pia Baccari Vari, ordinario di Diritto romano nella LUMSA e dall’avv. Maria Teresa Capozza. Si è richiamato, in particolare, il passo di Ulpiano, giurista non cristiano, e la sua celebre definizione del matrimonio come maris atque feminae coniunctio.

Il prof. Eduardo Gianfrancesco, ordinario di Diritto costituzionale, ha successivamente illustrato i profili costituzionali della disciplina della famiglia, prendendo le mosse dall’art. 29 della Costituzione, che riserva alla stessa una protezione speciale. L’art. 29 Cost. impedisce di aprire nell’ordinamento italiano il matrimonio a persone dello stesso sesso. Tale preclusione non può essere superata richiamandosi all’art. 2 Cost. e alla tutela dei diritti inviolabili ivi proposti; e neppure all’art. 3 Cost. e al principio d’eguaglianza ivi sancito, vista la differenza che sussiste tra convivenza e matrimonio, considerato dalla Carta fondamentale in chiave istituzionale. 

Il pres. Umberto De Augustinis, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, ha poi richiamato la giurisprudenza più recente in materia, mettendo il luce come esista un nesso di piena continuità tra le decisioni della Cassazione (tra cui la pronuncia n. 4184 del 2012), quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo (da ultimo la nota sentenza Oliari) e la pronuncia del Consiglio di Stato, 26 ottobre 2015, n. 4899, che ha appunto negato la possibilità di trascrivere i matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero. L’aspetto più innovativo di quest’ultima decisione riguarda, diversamente da quanto messo in luce sui quotidiani, il riconoscimento del ruolo del Prefetto nel controllo sulle trascrizioni, ruolo che in via generale un distorto senso dell’autonomia locale tende oggi a sminuire.

Il Cons. Alfredo Mantovano, vice Presidente del Centro Studi Livatino, ha illustrato come la sentenza della III sez. del Consiglio di Stato sia giuridicamente ineccepibile, in quanto pienamente conforme all’ordinamento giuridico nazionale. Ha, inoltre, messo in luce come nel quadro culturale contemporaneo, in Italia, il giudice abbia un ruolo creativo, che è invece mancato nella sentenza del Consiglio di Stato sulla trascrizione del matrimonio contratto all’estero. La reazione a tale decisione, segnata da un’aggressione al magistrato relatore e al presidente del collegio che la ha presa, dimostra come si stia passando dall’intolleranza verso i cattolici a una incipiente discriminazione nei loro confronti (di seguito pubblichiamo il testo integrale della relazione)

Le conclusioni dell’incontro sono state svolte da Paolo Maddalena, Vice Presidente emerito della Corte costituzionale, il quale ha notato come siamo di fronte all’assurdo nel momento in cui si accusano magistrati che prendono decisioni come quella del Consiglio di Stato solo per la loro fede religiosa. Di fronte alle pressioni dei mass media c’è, anzi, il rischio che il giudice si schieri su posizioni da loro apprezzate solo per poter ricevere il plauso pubblico.

Il giudice oggi fra applicazione ed estensione/creazione della norma 
Lumsa 2-12-2015 – AMDG
 
 Le relazioni che hanno preceduto questo mio intervento – in particolare, quella del pres. De Augustinis – hanno mostrato la piena conformità al quadro normativo vigente della sentenza con la quale la 3^ sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato ha negato la possibilità di trascrivere nei registri dello stato civile i matrimoni contratti all’estero da persone dello stesso. Il più alto consesso della giurisdizione amministrativa ha correttamente applicato la legge, nella comparazione fra le norme europee, la Costituzione italiana, e le norme ordinarie. Questa applicazione conforme all’ordinamento vi è anche nei passaggi della sentenza che richiamano dati pre-giuridici e meta-giuridici: quello, per es., nel quale si precisa che “la diversità di sesso dei nubendi (…si pone) in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna.” E ciò perché è la Costituzione a far riferimento per prima all’ordine naturale, all’articolo 29.
 
 Se così è, perché questa pronuncia è stata aggredita pesantemente dai media? Uso il termine “aggressione” e non il termine “critica” perché ogni decisione giudiziaria è soggetta a critica e a disamina; ma in questo caso l’attenzione è stata rivolta non al merito, quanto al presunto profilo ideologico o confessionale dell’estensore e del presidente del collegio, andando a cercare quali fossero le loro fedi religiose, ovvero la loro opinione sull’istituto familiare. Il quesito è allora: come mai l’applicazione coerente della lettera e dello spirito delle norme ha provocato reazioni così virulente? Affianchiamo a questo quesito un altro, in qualche modo complementare: perché sentenze o ordinanze che si susseguono negli ultimi anni, e in ordine alle quali è la deformazione del diritto è ammessa, se non rivendicata, ricevono invece accoglienza positiva?
 
 Gli esempi di questa seconda tipologia si sprecano. Uno dei più significativi è la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Roma, la n. 299 del 30 giugno 2014, il cui contenuto concettuale è stato riproposto qualche settimana fa dallo stesso Tribunale. I giudici erano stati chiamati a pronunciarsi su un caso di invocata stepchild adoption: in una coppia composta da due donne, una delle quali è madre biologica di un minore, l’altra chiedeva di diventarne il genitore adottivo. Il nocciolo della decisione ha ruotato attorno all’applicazione di una disposizione: l’articolo 44 della legge sulle adozioni, la n. 184 del 1983, e succ. modificazioni, che – come è noto – stabilisce le eccezioni alla regola secondo cui i bambini possono essere adottati solo da un uomo e da una donna uniti in matrimonio; in particolare, la lettera d) di tale articolo permette l’adozione “quando vi sia la constatata impossibilità di un affidamento preadottivo”. 
 
 La lettera della norma e la sua interpretazione giurisprudenziale, ricordate pure nella sentenza, hanno sempre riferito questa “impossibilità” a una condizione di fatto, alla circostanza cioè che per il minore non si sia trovato alcun aspirante all’affidamento. Il TM di Roma ha invece ritenuto che la “impossibilità” possa intendersi anche come “di diritto”: nel caso concreto era “impossibile” l’affidamento preadottivo della bambina perché la legge italiana lo permette solo a coppie coniugate, e quindi non alla convivente della madre biologica. Constatata l’“impossibilità” di diritto all’affidamento preadottivo, i giudici hanno poi ritenuto la “possibilità” dell’adozione da parte della donna. Non ha logica: se il nostro ordinamento preclude l’affidamento preadottivo a persone non unite in matrimonio, vuol dire che chi non è sposato non è ammesso a svolgere nemmeno un periodo che è solo preparatorio e funzionale all’adozione; come si fa poi a sostenere che quello stesso soggetto possa adottare senza problemi, proprio facendo leva sulla preclusione attinente al periodo antecedente?   
 
 Pure la giurisprudenza che il TM Roma ha liquidato come antiquata è invece recente e autorevole: basta ricordare per tutte una sentenza del 27 settembre 2013 della 1^ sezione civile della Cassazione, la quale ha confermato senza incertezze che la nozione di “impossibilità di affidamento preadottivo” “attiene solo all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante, e non a quella del contrasto con l’interesse del minore (che viene ampiamente richiamato nella pronuncia del TM Roma), essendo le fattispecie previste dalla norma tassative e di stretta interpretazione”. Eppure, nonostante il suo palese contrasto con la lettera della legge, la pronuncia del TM Roma ha avuto una sorte felice, al punto che nella discussione in corso al Senato relativa al ddl sulle unioni civili vi è una norma – l’art. 5, dedicato alla stepchild adoption – il cui inserimento è giustificato dai proponenti nei termini del recepimento per legge di un orientamento giurisprudenziale ritenuto “importante”. 
 
 Sulla medesima lunghezza d’onda, si potrebbero richiamare le decisioni – finora di merito – che hanno rinunciato a sanzionare penalmente, come pure imporrebbe il nostro codice penale, la pratica dell’utero in affitto, con conseguente assoluzione dalla contestazione di reati come l’alterazione di stato. O quelle che – pur nel quadro di una legge assai discutibile – quale è quella sul cambiamento del sesso, hanno ritenuto superfluo l’intervento chirurgico e perfino un trattamento medico non invasivo, fondando il mutamento di sesso su una sorta di mera e soggettiva autopercezione; un orientamento del genere ha conosciuto di recente una correzione di rotta, se pur parziale, da parte della Corte costituzionale. Si potrebbe ricordare pure, non volendo limitare la rassegna solo al merito, la pronuncia della Cassazione su Eluana Englaro, che è andata oltre il dato normativo nazionale e ha fatto riferimento ai precedenti giurisprudenziali esistenti in altri Stati, selezionando quelli favorevoli all’eutanasia. 
 
 Nella Relazione di apertura all’anno giudiziario tenuta a Roma il 23 gennaio 2015 il pres. Gianfranco Ciani, Procuratore generale della Cassazione, ha spiegato come “il terzo potere si trasforma sempre più in gigantismo della giurisdizione per le aspettative etiche e sociali che l’accompagnano, il che costituisce una grave distorsione dell’assetto sociale”. Questa valutazione viene subito dopo un’altra: “La magistratura (…) è da tempo uscita dal terreno del controllo, che è quello ad essa congeniale e proprio, per addentrarsi in quello della mediazione e della regolazione del conflitto sociale. Il diritto giurisprudenziale è preminente nella composizione delle più svariate problematiche sociali, assai più di quanto lo sia la stessa legislazione. (…)”. 

 Che ciò avvenga non è frutto del caso: in un suo recente saggio, intitolato significativamente Dai “Tribunali di Babele” alla Babele del diritto, il collega Domenico Airoma, che con il prof. Filippo Vari e con me condivide la vicepresidenza del Centro studi Livatino, ha centrato i termini essenziali della questione; e a esso rinvio per ogni approfondimento. Il titolo del saggio riprende il titolo di uno scritto del giudice costituzionale emerito Sabino Cassese; cito un passaggio di quest’ultima opera: “le corti stanno assumendo un ruolo importante nella definizione dei rapporti fra ordinamenti giuridici. Si parla di “judicial dialogue” o “judicial conversation”, di “inter-judicial coordination” e di una “community of judges[…] A questo punto, lentamente (molto lentamente), il diritto prende il posto della politica nell’arena globale. Se prima si era passati dalle spade alle feluche, ora si passa dalle feluche alle toghe».

 E allora, applicazione o estensione e creazione della norma? Non ha dubbi un altro importante giurista italiano, presidente emerito della Consulta, Gustavo Zagrebelsky: «La ragione della temuta “esplosione” soggettivistica dell’interpretazione è […] da rintracciare nel carattere pluralistico della società attuale e di quella società parziale che è la comunità dei giuristi e di coloro che operano attraverso il diritto […]. In presenza di diversi contesti di senso e valore, nemmeno la lettera è una certezza. […] Senza considerare che molte domande nuove poste al diritto dal progresso tecnologico (si pensi alla tecnologia genetica) forse più opportunamente possono trovare una prima risposta in una procedura giudiziaria in cui si mettano a confronto prudentemente i principi coinvolti, piuttosto che in assemblee politiche dove il richiamo ai principi è spesso uno strumento di militanza di parte» (Gustavo Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino 1992, pp. 201-203).
 
 Secondo questa, che oggi è l’impostazione egemone, l’individuazione dei “nuovi diritti” e le risposte in termini di configurazione giuridica a quello che viene definito il “progresso tecnologico”, vanno ben oltre l’area di ciò che è stato deciso dai Parlamenti, e di ciò che si trova scritto nelle Costituzioni: è teorizzato, e da tempo, che competa ai giudici. E che competa ai giudici con quel sistema integrato delle Corti in sede europea e in sede internazionale non è solo teorizzato, ma pure praticato: si pensi alla creazione del diritto da parte della Corte EDU ben al di là di quanto previsto dalla Convenzione. In un quadro così preoccupante, nel quale l’atteggiamento di sospetto per le decisioni delle assemblee democraticamente elette è accompagnato dal binario più rassicurante di una procedura giudiziaria, un giudice che applichi la legge, e non crei sulla base di presupposti ideologici, merita di essere censurato, di essere esposto alla gogna mediatica, e di essere abbandonato al proprio destino senza alcuna difesa corporativa. 
 
 Nel caso della sentenza del Consiglio di Stato di cui si è detto finora, non conta nulla la correttezza, completezza e logicità della motivazione, riconosciuta da chiunque l’abbia letta; né conta l’aggancio rigoroso e consequenziale al quadro normativo e alla giurisprudenza delle Corti europee e della Consulta. L’estensore della stessa, e in seconda battuta il presidente del collegio giudicante, hanno compiuto un crimine: quello di sottostare alla lettera della norma, addirittura con sconfinamenti nel diritto naturale, e di non aver ceduto allo stravolgimento della norma orientato dal “dialogo fra le Corti”.
 
 Qual è la sanzione per questo crimine? Intanto li si sottopone a una sorta di tac ideologica: esce fuori che l’estensore si è detto “giurista cattolico” e ha qualche mese prima ritweettato prima un apprezzamento per l’istituto familiare; esce fuori che il presidente del collegio fa parte di un movimento cattolico, e questo fa presumere che la domenica segua la pratica perversa di andare a Messa. L’imputazione mediatica loro rivolta è che, con questo profilo, non avrebbero dovuto trattare di sindaci e trascrizioni. Sarebbe interessante applicare il principio in casi analoghi: un giudice notoriamente vegetariano deve astenersi nel processo in cui l’imputato è un macellaio, o anche solo un amante della bistecca? chi è iscritto al WWF può occuparsi di giudizi per inquinamento? ai componenti della V sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato è permesso di andare a votare? nella loro competenza rientra il contenzioso elettorale! Chi ha scritto saggi sulla pubblica amministrazione ed è giudice costituzionale deve astenersi ogni qual volta la Consulta tratti di pubblica amministrazione? un presidente di tribunale sposato da 30 anni sempre con la stessa moglie può decidere cause di separazione e di divorzio (i fatti spesso sono più eloquenti dei tweet) ?
 
 In questa vicenda c’è poco da scherzare. Il “caso Deodato (e Romeo)”, se così vogliamo definirlo riprendendo i nomi del relatore e del presidente del collegio segnala due aspetti che non possono lasciarci indifferenti: da un lato una spinta pesante all’allontanamento dal dato normativo in favore della creazione giurisprudenziale, e quindi la sostituzione dell’arbitrio tecnocratico al confronto parlamentare e democratico (e questa non è una novità). Dall’altro, oltre il pur ampio terreno giuridico, il pericoloso superamento della linea di confine fra intolleranza e discriminazione. Aggredire mediaticamente in virtù della confessione religiosa un magistrato che decide in modo sgradito dal punto di vista ideologico, pur se la sentenza è da tutti riconosciuta come ineccepibile, isola e intimidisce quel giudice e funziona da deterrente per altri giudici, i quali – quand’anche ritengano una pronuncia che stanno per assumere conforme al diritto e siano pronti a motivarla nella forma più adeguata – sono tentati di tenere in considerazione le reazioni furibonde che potrebbe provocare. 
 
 Finora il sistema mediatico-culturale, film e fiction inclusi, ha manifestato crescente intolleranza per la famiglia fondata sul matrimonio e per i principi naturali: non c’è film di cassetta che – trattando di contesti parafamiliari – non contenga esplicita propaganda per le nozze gay, con parallelo dileggio per la famiglia vero nomine, descritta come la fonte di ogni sciagura. Il “caso Deodato (e Romeo)” mostra come dall’intolleranza si stia passando all’incipiente discriminazione: se sei cattolico non puoi occuparti di certe materie. E già va bene: in qualche altro luogo del civile Occidente un’impiegata statale è andata in carcere per aver rifiutato di celebrare le nozze fra persone dello stesso sesso.
 
 La deriva in corso da qualche decennio ha prodotto anche questi esiti. E’ importante avere la chiara consapevolezza della posta in gioco: se si stabilisce, al momento con una forte pressione mediatica, domani chissà, che i cattolici non possono svolgere funzioni pubbliche e se si ricorda che la libertà religiosa è il fondamento della libertà, il termine libertà ha ancora un senso compiuto?

 

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