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Fargo è un film del 1996 diretto dai fratelli Coen. Ambientato nel gelido paesaggio del Minnesota, la storia segue le vicende di Jerry Lundegaard, un venditore d’auto in difficoltà finanziarie che organizza un piano per rapire sua moglie e chiedere un riscatto al ricco suocero. Ma le cose prendono una piega inaspettata quando il rapimento va storto e una serie di omicidi si susseguono. In mezzo a questa trama criminale, Fargo esplora temi profondi e filosofici. Il film presenta una riflessione sulla natura umana e sulla moralità. I personaggi sono costantemente messi alla prova, rivelando le loro debolezze e le loro motivazioni più oscure. L’avidità, l’egoismo e la disperazione emergono come forze guida che spingono le azioni dei protagonisti, portandoli a commettere crimini e a infrangere le norme sociali.

Fargo è un film del 1996 scritto e diretto dai fratelli Joel ed Ethan Coen. Il film è ambientato nella città di Fargo, nel Dakota del Nord, ed è una commedia nera che mescola abilmente elementi di crime thriller e umorismo eccentrico. È diventato uno dei film più famosi e acclamati dei fratelli Coen, guadagnandosi numerosi riconoscimenti e un seguito di culto nel corso degli anni.

La trama di “Fargo” ruota attorno a Jerry Lundegaard (interpretato da William H. Macy), un venditore di automobili che decide di organizzare un piano per far rapire sua moglie, in modo da ottenere un riscatto dai suoi ricchi suoceri. Jerry assume due criminali inesperti, Carl Showalter (interpretato da Steve Buscemi) e Gaear Grimsrud (interpretato da Peter Stormare), per eseguire il rapimento.

Tuttavia, le cose prendono una brutta piega e una serie di eventi imprevedibili e violenti si sviluppano, coinvolgendo anche la determinata e incinta poliziotta locale Marge Gunderson (interpretata da Frances McDormand), che indaga sui crimini.

Causa prima di tutti i machiavellici sviluppi del plot è l’insoddisfazione di un solo uomo, per altro il più grigio che ci si possa immaginare. Quando Hannah Arendt parlava della banalità del male non si sbagliava, Jerry Lundegaard è l’uomo senza spina dorsale per eccellenza, marito di Jean e padre di Wade, bistrattato da tutti e vittima di un facoltoso quanto cinico suocero che lo considera, e forse a ragione, una nullità.

Per altro, il vecchio è anche il proprietario della concessionaria di Oldsmobile di Minneapolis per cui Jerry lavora in qualità di responsabile delle vendite.

Potete quindi facilmente immaginare l’astio che quest’ultimo nutre per il bisbetico, tirannico suocero, insieme alla voglia di rivalsa che ne fa, al di là dell’ordinarietà del personaggio, una mina vagante.

Quale migliore idea, dunque, se non quella di ingaggiare due stralunati sicari per rapire Jean, accordandosi con loro circa la spartizione del riscatto estorto al suocero? “Nessuno si farà male”, pensa Lundegaard, “andrà tutto liscio, riflette il novello Prometeo, Jean tornerà a casa e io finalmente sarò ricco…”

La nozione di banalità del male elaborata da Hannah Arendt[1] è un punto di riferimento essenziale per tentare di arrivare quanto meno a intuire, come diceva la Arendt, “Perché è successo, come è potuto succedere?”, rispetto alle tragedie del secolo scorso, ma anche rispetto al male di oggi.

Queste domande ricorrono nel pensiero di Hannah Arendt fin dalla prima introduzione del 1951 al suo libro Alle Origini del Totalitarismo[2] e sono state poi riformulate dalla pensatrice in molti altri contesti.

Il punto fondamentale della riflessione sulla banalità del male sta nella constatazione del fatto che il cosiddetto ‘malvagio’ non ha più nessuna somiglianza con i grandi malvagi della storia, della letteratura, della tragedia. È una figura che non ha più nulla a che vedere con un Riccardo III (spesso citato dalla Arendt), che non riesce più a guardarsi allo specchio perché solo uscendo dalla sua stanza e trovandosi in mezzo agli altri riesce a non essere tormentato dalla propria coscienza.

Il classico malvagio della letteratura e di una certa storia del pensiero è un disperato, un angelo decaduto, un lucifero, come tale è circondato da una certa aura e con una sua tragica grandezza. In Eichmann[3], quest’aura è totalmente assente. Nel suo caso non abbiamo più la coscienza ammonitrice che rende insonne Riccardo III: abbiamo una coscienza implosa.

Allora come possiamo prevenire la banalità del male dei nostri giorni, di cui la pellicola analizzata è un classico esempio?

Hannah Arendt ha scelto una soluzione apparentemente priva di connessioni con le questioni morali: la nozione di gusto; guidato dal gusto, l’uomo stabilisce se una cosa gli piace o meno, sceglie un oggetto da tenere nella sua casa, sceglie un bel libro per coltivare la sua mente, sceglie un amico. Per Hannah Arendt il gusto è un organo premorale, è un organo che predispone, addestra, allena alla distinzione fra bene e male ed è soprattutto un organo che, oltre a farci esprimere giudizi e scegliere cose e persone, ci fa creare affinità con gli altri esseri. In altre parole, il gusto produce un lavoro di relazione con gli altri esseri.

In relazione a questo, la Arendt, con un’espressione molto bella, parlava di rapporto attivo con la bellezza, con la bontà, con la giustizia, riferendosi- io credo- a quella misura che ciascuno di noi prende, individualmente, nel momento in cui si confronta con una cosa, con un avvenimento, con una norma, con un’istanza, con il futuro dell’umanità, con la verità e l’essere di Heidegger.

Il rapporto attivo è, per la Arendt, l’esatto contrario dell’obbedienza passiva, che costituisce un rapporto verticale con le cose (anche con cose mirabili come i grandi ideali di cui è piena la storia). Al posto di questa relazione verticale, la Arendt propone di costruirne una orizzontale- il rapporto attivo, appunto- ossia di prendere una misura personale e individuale rispetto a qualunque cosa, per quanto sublime, ci stia sopra la testa.

In questo rapporto attivo orizzontale si colloca il gusto dell’amicizia. Per quanto più specificamente interessa chi si occupa di diritto, che cosa vuol dire costruire un rapporto attivo orizzontale, un’amicizia nei confronti della giustizia? Credo che possa voler dire relazionarsi alla giustizia senza piegarla a fini ideologici, come è storicamente avvenuto, ad esempio, con la Rivoluzione Francese a quella Comunista in Russa.

Amicizia con la giustizia vuol dire fare in modo che la giustizia esista, e fare in modo che la giustizia esista vuol dire fare in modo che ci siano persone giuste, uomini e donne giusti, azioni giuste. Non una Giustizia disincarnata o peggio ancora ideologica.

Vuol dire abbandonare anche liberarsi dalla sindrome dell’imperfezione della continua inadeguatezza, che spesso provoca anche della frustrazione e complessi di colpa del tutto inutili.

La Arendt usava dire che “ogni cosa buona aggiunge qualcosa di buono al mondo, per quanto fatta con fini strampalati; ogni cosa cattiva, per quanto fatta con i migliori fini, produce una cosa più cattiva nel mondo”.

Questa logica, credo, può rimettere in movimento tante nostre categorie di pensiero, e ritengo che sia proprio questo il frutto che Hannah Arendt ci ha lasciato con la sua riflessione sulla banalità del male.

Daniele Onori


[1] Hannah Arendt (1906-1975), ebrea, nata nei pressi di Hannover, studentessa tra il 1924 e il 1929 all’Università di Marburgo e allieva di Heidegger, fu arrestata nel 1933 e fuggì a Parigi e infine, nel 1941, a New York. Nel 1960 seguì a Gerusalemme, come corrispondente del settimanale New Yorker, le 120 sedute del processo al criminale nazista Eichmann, che le apparve un uomo superficiale e mediocre “pressochè normale, né demoniaco né mostruoso”. Da qui trasse la conclusione della “banalità del male”, che diede il titolo al libro pubblicato dalla Arendt nel 1963 (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme). Fu attiva nella difesa dei diritti civili e delle minoranze.

[2] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino, 1999.

[3] Otto Adolf Eichmann (Solingen, 19 marzo 1906 – Ramla, 31 maggio 1962) è stato un militare, funzionario e criminale di guerra tedesco considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista.Col grado di SS-Obersturmbannführer era responsabile di una sezione del RSHA; esperto di questioni ebraiche, perseguendo la cosiddetta soluzione finale organizzò il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei ai vari campi di concentramento. Sfuggito al processo di Norimberga, si rifugiò in Argentina, dove venne catturato dal Mossad. Fu processato in Israele e condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità.

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