Primo di cinque articoli su filosofia e diritto che saranno pubblicati in cinque lunedì consecutivi.

«Una sua giovane schiava di Tracia, intelligente e graziosa, lo prese in giro, osservando che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno nel cielo, e, invece, non vedeva quelle che aveva davanti, tra i piedi. La medesima facezia si può riferire a tutti quelli che dedicano la loro vita alla filosofia»:[1] così Platone ricostruisce il celebre aneddoto riguardo a Talete il quale, mentre era intento a scrutare le cose del cielo, non poneva sufficiente attenzione a quelle della terra finendo rovinosamente all’interno di un pozzo e attirandosi tutto lo scherno della giovane schiava di Tracia che da lì transitava.

Dall’episodio della vita di Talete si possono trarre alcune considerazioni.

Esiste una profonda differenza tra come il filosofo vede il mondo e come il mondo vede il filosofo.

Per il filosofo ogni ambito della realtà è occasione di meraviglia e bisognoso di nuove domande, poiché soltanto scrutando al fondo delle cose, osservandole attentamente, si può cogliere la verità sul mondo e sull’uomo.

Non a caso Francesco Carnelutti amava ripetere che «l’uomo se guarda una cosa per davvero, non può non pensare».[2]

Prima di agire, dunque, occorre pensare e per pensare bisogna sviluppare un metodo del pensiero, metodo che proprio la filosofia sembra essere in grado di offrire.

Questa prospettiva agita il filosofo che non può mai considerare nulla come irrilevante, o per acquisito in modo definitivo, né tanto meno rinunciare all’investigazione di sé e di ciò che lo circonda sulla base del principio d’autorità; il filosofo, infatti, è tanto più tale quanto più si appella sempre e comunque al principio di ragione.

Per il mondo, almeno per quello odierno, invece, il filosofo è qualcuno che nella migliore delle ipotesi spreca il suo tempo e nella peggiore lo fa sprecare agli altri, cavillando su cose inconcludenti, occupandosi di realtà invisibili come il bene, il bello, l’essere, il nulla, proponendo domande sempre inquietanti e inopportune e, talvolta, perfino sobillando gli individui o le masse contro l’ordine costituito.

Il filosofo, insomma, o è inutile o, peggio, è pericoloso. Questa visione del filosofo sembra oggi la più diffusa, specialmente in considerazione del ruolo ormai sostanzialmente totalitario che la scienza, almeno dal XIX secolo, cioè dall’epoca del positivismo, ha assunto, occupando l’intero campo della conoscenza e lasciando fuori, ai margini del sapere, la filosofia come mero aggregato di opinioni, cioè come sapere non oggettivo e soprattutto non oggettivabile.

Ecco perché oggi il ruolo del filosofo appare sostanzialmente vacuo, etereo, boreale, disancorato dalla realtà e dai suoi concreti e incalzanti problemi.

Tanto più gravi e concreti sono i problemi quanto più repellente appare l’astrazione filosofica; tanto più le difficoltà sono tecniche quanto più snervante è l’interrogazione filosofica; tanto più acuta è la crisi quanto più si necessita di maggiore azione e di minore pensiero.

Quando una donna riceve minacce o violenza, che vale filosofare? Quando le guerre imperversano su tutto il pianeta, perché indugiare con interrogativi filosofici? Quando le emergenze, le urgenze, le scadenze, gli interessi privati e pubblici esigono prontezza di risposta perché ostinarsi a perder tempo con le cogitazioni filosofiche? Dinnanzi alla ferocia della criminalità organizzata che mina la vita, la pace, il benessere, perché cincischiare con le fantasticherie filosofiche?

Del resto, nonostante la propria pretesa di esaurire il vero, non si sono forse rivelate false tutte le filosofie? I primi ingannati dalle loro teorie non sono stati forse gli stessi filosofi che le hanno formulate? In un’epoca come quella attuale in cui ormai si sta transitando dall’intelligenza naturale a quella artificiale, raggiungendo potenza di calcolo e precisione decisionale,[3] la filosofia non è oramai qualcosa di obsoleto? Non sarebbe l’ora, finalmente, di dichiarare estinta per sempre la dannosa specie dei filosofi che tanta confusione e doloroso nocumento hanno causato nei secoli all’intero genere umano?

Risalire la china di tanta, diffusa e radicata diffidenza – che pur tuttavia è molto più comune di quanto possa apparire prima facie – è un’opera di estrema difficoltà, non già perché non vi siano argomenti in senso contrario, ma perché prima di ogni cosa bisognerebbe cogliere il paradosso per cui anche coloro che rifiutano il filosofare, nonostante la propria coriacea riluttanza e a loro stessa insaputa, stanno irrimediabilmente filosofando, poiché la negazione del pensiero è essa stesso una forma di pensiero.

Oltre a ciò, la faccenda si complica terribilmente se si rapporta tutto ciò al mondo del diritto.

Il diritto, infatti, richiede prontezza di intervento dinnanzi al pericolo, mentre il filosofo invece tergiversa limitandosi a osservare e pensare; il diritto pretende certezza, mentre il filosofo discute e interroga; il diritto esige la soddisfazione e il bilanciamento degli interessi in gioco, mentre il filosofo si occupa di principi e di altre questioni apparentemente iperuraniche.

Del resto, anche nell’alveo giuridico la filosofia ha sempre mostrato la propria inaffidabilità, con tutti i filosofi che si sono occupati del fenomeno legale senza mai riuscire ad essere univocamente concordi neanche sulla stessa definizione o natura del diritto, che per alcuni è volontà, per taluni è l’utile del più forte, per qualcuno è volontà divina, per altri ancora ragione e giustizia.

Perché, allora, ostinarsi ancora oggi a cercare un approccio filosofico al diritto posto che, sempre più spesso, gli stessi giuristi sono i primi ad ignorare o mal sopportare l’eventuale approccio filosofico alla loro disciplina la quale, come pensano i più, rischierebbe così di essere pregiudicata nella sua concretezza?

Le ragioni che giustificano un approccio filosofico al diritto sono numerosissime (e si tenterà di affrontarle, anche se in modo parziale, in questo presente e in successivi contributi) specialmente in un’epoca quale è quella attuale che più delle precedenti nutre e alimenta così forti perplessità nei suoi confronti, ma le principali sono tre e di ordine antropologico, ontologico e assiologico.

In primo luogo: dal punto di vista antropologico la comprensione filosofica del mondo, nonostante le imperfezioni della filosofia e soprattutto dei filosofi, è un portato costitutivo e imprescindibile della natura umana.

Proprio perché la natura umana è razionale, come già Severino Boezio aveva cristallinamente riconosciuto nel VI secolo d.C.,[4] non può fare a meno di porsi degli interrogativi fondamentali sulla realtà che trascendono la sua mera datità nonché la sua calcolabilità.

Ciò che esiste, infatti, è infinitamente più vasto di ciò che può essere compreso alla luce dei calcoli, delle formule e dei riduzionismi tecno-scientisti così di moda nell’odierna civiltà occidentale, e il diritto – essendo la dimensione della vita più adesiva alla natura umana – è esattamente uno di quegli ambiti che non si può sottoporre alla angusta logica del numero dovendosi soppesare, semmai, secondo la cifra del senso.

Di più, proprio perché il diritto richiede un approccio razionale – che cioè sia in grado di riconoscere i diritti, di individuare i doveri, di limitare i poteri, di garantire la libertà – esso, nonostante la differente visione della maggior parte degli odierni giuristi, non può rinunciare all’investigazione filosofica.

La filosofia, infatti, si può definire come il riflesso della natura razionale dell’essere umano che non riesce a dare per scontata la propria e l’altrui esistenza senza la sussistenza di una fondante sostanza.

Non si può pensare l’uomo senza la sua stessa capacità filosofica, come, del resto, non si può pensare il diritto come norma del retto vivere senza la guida della riflessione filosofica, secondo l’insegnamento di Cicerone per il quale, infatti, nelle sue “Tusculanae disputationes”, «il metodo e l’insegnamento di tutte le discipline che riguardano la retta norma del vivere rientrano nello studio della sapienza che viene detta filosofia».[5]

In secondo luogo, viene in rilievo la dimensione ontologica del diritto che in tanto può configurarsi come intermediazione coesistenziale in quanto può essere sottratto all’arbitrio dei singoli e munito di una sua specifica energia razionale.

Escludere l’investigazione filosofica dal settore giuridico comporta dunque una duplice speciosa conseguenza.

Da un lato, significa porsi nell’incapacità di scandagliare negli abissi della dimensione ontologica del diritto, dei suoi singoli istituti (proprietà, contratto, processo, sanzione, famiglia, prescrizione, ecc.), della sua ragion d’essere; dall’alto lato, significa porsi nell’impossibilità di fondare universalmente l’esperienza giuridica al di fuori del mero momento volitivo, o peggio, della sua mera onticità.

Sul sentiero della filosofia, infatti, il diritto percorre i passi sicuri per (ri)scoprire la propria natura razionale al fine di non essere sottomesso alla ragione della pura forza, rendendosi semmai capace di proporre giuridicamente la forza della ragione.

In questa direzione militano le riflessioni compiute nell’arco di quasi venticinque secoli dalla quasi totalità dei pensatori della civiltà occidentale i quali da Socrate in poi hanno tracciato la via da percorrere al fine di comprendere il come e il perché l’uomo debba assoggettarsi e ubbidire ad un altro uomo, come mai l’autorità si precostituisca la legittimità per emanare in modo esclusivo leggi e decreti che regolino la vita dei consociati, perché il giudice possa limitare l’altrui libertà personale, per di più in nome dell’intera comunità.

Il dato storico, infatti, suggerisce, pur dalla sua ristretta angolazione temporalistica, che non vi è stato alcun filosofo che non si sia ritrovato dinnanzi al problema del diritto, dello Stato, della giustizia in se stessa considerata.

Il dato filosofico, invece, conservando e superando il dato storico, rivela che il problema del lecito e del giusto è strutturalmente inseparabile dal problema del vero, per cui l’accesso pieno al campo del primo passa inevitabilmente attraverso l’unica e imprescindibile “servitù di passaggio” del secondo.

Il giurista che ignora, sottovaluta o perfino contrasta una tale realtà dimostra di muoversi soltanto lungo la tensione superficiale dell’esperienza giuridica senza riuscire a immergersi realmente nella sua sostanza e nella sua più autentica “fonte”.

In terzo luogo, infine, emerge la dimensione assiologica.

Se il diritto è un valore di per se stesso, come in effetti è, e come hanno insegnato in tal senso Aristotele,[6] S. Tommaso d’Aquino,[7] Immanuel Kant,[8] Francesco Gentile,[9] Enrico Opocher,[10] Giorgio Del Vecchio,[11] Giuseppe Capograssi,[12] Sergio Cotta,[13] Francesco D’Agostino,[14] Wolfgang Waldstein[15] – soltanto per citare alcune delle principali figure dell’incontro proficuo sviluppatosi tra la filosofia e il diritto – allora anche in tale prospettiva non si può realmente prescindere dall’approccio filosofico al diritto poiché il valore è qualcosa che non sussiste autonomamente nella sfera della giuridicità e che anzi – come testimoniano le derive volontaristiche, normativistiche, materialistiche, nichilistiche del diritto – può essere gravemente compromesso e perfino radicalmente negato ope legis aut ope iudicis.

Se il diritto, e con esso il giurista, pretende di servire la causa umana nella sua più autentica genuinità, se presume di garantire l’ordine, la pace, la sicurezza, la libertà e soprattutto la giustizia, non può davvero affrancarsi dalla struttura portante della filosofia, configurandosi così la filosofia del diritto come l’ossatura di supporto alla muscolatura rappresentata dal resto della giuridicità, poiché la domanda su cosa siano l’ordine, la libertà o la giustizia è sempre e comunque una domanda anteriore e come tale strettamente filosofica a cui il diritto non può rispondere con le proprie sole forze.

In conclusione, il giurista che disdegna aprioristicamente il sostrato filosofico del diritto, insomma, è un giurista dimidiato, ridotto a percepire soltanto una parte della realtà giuridica, come un daltonico dinnanzi ai colori della natura; è un giurista senza capacità di penetrazione della realtà giuridica nella sua premessa sostanziale di ordine razionale, ridotto a guardare il mondo giuridico come una ancestrale pittura parietale, cioè senza alcuna fuga prospettica; è un giurista che, in definitiva, si trova disarmato dinnanzi agli attacchi irrazionali che l’iper-razionalismo e l’anti-razionalismo odierni conducono contro il diritto, scoprendosi impotente come una lama smussata e per di più incapace di difendere razionalmente il diritto e soprattutto, peraltro non senza qualche imbarazzo proprio e altrui, incapace di giustificare fino in fondo il proprio stesso ruolo di giurista.

Aldo Rocco Vitale


[1] Platone, Teeteto, 174a-b.

[2] Francesco Carnelutti, Il canto del grillo, Edizioni Radio Italiana, Torino, 1955, pag. 41.

[3] Ex plurimis cfr.: AA.VV., Decisione robotica, a cura di Alessandra Carleo, Il Mulino, Bologna, 2019.

[4] «E’ la ragione che definisce nel modo seguente il carattere universale del suo comprendere: l’uomo è un animale con due piedi, razionale»: Severino Boezio, La consolazione della filosofia, Utet, Torino, 2006, pag. 335.

[5] Cicerone, Tuscolane, Bur, Milano, 1997, I, 1,1, pag. 55.

[6] Aristotele, Etica nicomachea, Bompiani, Milano, 2000.

[7] S. Tommaso d’Aquino, Commento all’etica nicomachea di Aristotele, ESD, Bologna, 1998; S. Tommaso d’Aquino, La politica dei principi cristiani, Cantagalli, Siena, 1997.

[8] Immanuel Kant, Metafisica dei costumi, Laterza, Bari, 1973.

[9] Francesco Gentile, Legalità, giustizia, giustificazione, ESI, Napoli, 2008.

[10] Enrico Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Cedam, Padova, 1993.

[11] Giorgio Del Vecchio, Lezioni di filosofia del diritto, Giuffrè, Milano, 1965.

[12] Giuseppe Capograssi, Incertezze sull’individuo, Giuffrè, Milano, 1969.

[13] Sergio Cotta, Il diritto come sistema di valori, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004.

[14] Francesco D’Agostino, Jus quia justum. Lezioni di filosofia del diritto e della religione, Giappichelli, Torino, 2012.

[15] Wolfgang Waldstein, Saggi sul diritto non scritto, Cedam, Padova, 2002.

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