Secondo di cinque articoli su filosofia e diritto che saranno pubblicati in cinque lunedì consecutivi. Leggi il primo articolo.
«Praticava le argomentazioni in un senso e nell’altro e sovvertiva tutte le altrui affermazioni»:[1] così Eusebio di Cesarea tratteggiava l’abilità dialettica di quel noto personaggio che fu Carneade, filosofo scettico del II secolo a.C.
Normalmente ci si focalizza soltanto sulle strabilianti capacità argomentative di Carneade, le stesse peraltro che sconcertavano Alessandro Manzoni, trascurando, tuttavia, il cuore del problema, cioè da un lato che Carneade poteva vantare tale destrezza in quanto era uno scettico, e, dall’altro lato, che proprio in quanto scettico riteneva che non esistesse in sé e per sé una verità fondativa della realtà, per cui tutto e tutto il contrario potesse essere affermato.
Se tutto e tutto il contrario può essere affermato, perfino in violazione formale e sostanziale del principio di non contraddizione, significa che pari sono il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto.
Un ponte teorico, non a caso, unisce lo scetticismo dialettico di Carneade e il nichilismo contemporaneo, quello per cui ogni posizione morale o giuridica è equivalente alla sua opposta poiché nessuna delle due è intrinsecamente vera, motivo per cui l’esponente di spicco del nichilismo europeo, Friedrich Nietzsche, ha avuto modo di precisare che «il nichilista non crede di dover essere per forza logico».[2]
Ed ecco allora il primo compito cui bisogna assolvere, cioè imparare a distinguere l’ideologia dalla filosofia del diritto.
Comincia a delinearsi, sebbene in fase embrionale, la morfologia dell’ideologia, come dimensione di negazione della realtà e di ricostituzione della stessa a propria immagine e somiglianza.
L’ideologia, infatti, per Karl Mannheim costituisce da un lato la totale sfiducia nei confronti del pensiero in quanto tale, non ritenuto idoneo a conoscere la realtà rispetto al principio d’azione, e per altro verso il disprezzo nei confronti del pensiero dell’avversario considerato astratto e nocivo.[3]
L’ideologia, dunque, è contrapposizione alla verità, è giustapposizione alla realtà, è ostentazione di una idea precostituita e imposta con la forza della propaganda e che il più delle volte è diretta a servire un sistema di irregimentazione e controllo delle masse, come accade costitutivamente nei sistemi totalitari secondo gli insegnamenti di Hannah Arendt,[4] e, più di recente, perfino in quelli democratici.[5]
Non a caso Carlo Galli ha chiosato scrivendo che «nell’ideologia non è in gioco la rivoluzione, né la verità, ma l’origine e il condizionamento del pensiero».[6]
L’ideologia, infatti, non consente spazi di dubbio, non permette di essere discussa, non tollera obiezioni di coscienza, ma sempre e soltanto adesione cieca e incondizionata, rivelandosi più simile al fideismo religioso che ad una dottrina razionale, come sottolineato da Raymond Boudon per il quale «le ideologie devono essere pensate sul modello delle dottrine religiose piuttosto che su quello delle dottrine scientifiche».[7]
La differenza tra ideologia e filosofia, dunque, è netta, poiché la prima vuole plasmare la realtà secondo le proprie finalità, mentre la filosofia si incarica di scoprire il reale senza recondite finalità; l’ideologia è modellante, la filosofia, invece, è strutturante; l’ideologia esprime se stessa, mentre la filosofia rivela ciò che è altro da sé; l’ideologia asservisce l’uomo, mentre la filosofia gli presta un servizio; l’ideologia scavalca, e spesso contrasta, l’umano, mentre la filosofia lo svela e lo incarna.
Posta tale inconciliabile diversità tra ideologia e filosofia, non può che discenderne una altrettanto divergente incompatibilità tra la figura dell’ideologo e quella del giurista.
Molto sul punto potrebbe scriversi, ma la principale differenza consiste nel fatto che l’ideologo difende la causa propria, essendo divenuto un tutt’uno con l’ideologia che professa, mentre il giurista, nel peggiore dei casi difende una causa altrui, nel migliore dei casi, invece, difende la causa del diritto in quanto tale considerato.
Da tutto ciò si può intendere la profonda differenza tra ideologia del diritto e filosofia del diritto.
L’ideologia del diritto ribalta e rovescia la natura e la funzione del diritto; la filosofia del diritto, invece, se non si prefigge lo scopo di tutelare la funzione del diritto, almeno tenta di indagarne la natura senza alterarlo; l’ideologia del diritto conduce al kaos dei sistemi giuridici; la filosofia del diritto spera di descrivere almeno l’ordine minimo interno del diritto.
L’ideologia del diritto, peraltro, è sempre differente, perché al mutare della finalità ideologica muta l’uso del diritto, anche se l’esito è quasi sempre lo stesso, cioè una violazione della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’essere umano.
Nell’ideologia del diritto, l’intera esperienza giuridica viene strumentalizzata al fine di servire l’ideologia che se ne è impossessata: l’apparato legale, formalmente valido e ossequioso della regolarità formale dello Stato, che nella Germania nazista veniva utilizzato per mettere a morte prima i disabili e poi gli ebrei, culminando nella atroce esperienza dei lager,[8] era lo stesso apparato legale che in Unione Sovietica veniva utilizzato con lo scopo di promettere la liberazione della classe oppressa e degli ultimi, confluendo poi nel tremendo sistema giudiziario-concentrazionario dei gulag.[9]
La filosofia del diritto non soltanto cerca di comprendere razionalmente quali siano i suddetti diritti fondamentali dell’essere umano e perché debbano trovare una adeguata protezione legale, ma per di più – se autenticamente intesa la sua funzione precipuamente filosofica – essa non può che svolgere sempre lo stesso immutabile compito: cioè la rivelazione razionale della verità intrinseca del fenomeno giuridico.
Tanto più si espande lo spazio dell’ideologia del diritto, quanto più si riduce quello della razionalità della filosofia del diritto; per converso, tanto più filosoficamente solido e genuino è l’approccio al diritto, quanto più contraffatto e innaturale appare qualsivoglia approccio ideologico allo stesso.
Oltre la tragica esperienza dei totalitarismi novecenteschi, tuttavia, ancora oggi – anche e soprattutto nell’Occidente opulento e democratico – è maggiormente diffuso l’approccio ideologico al diritto rispetto a quello filosofico.
Gli esempi potrebbero essere molteplici, ma appare più opportuno focalizzare l’attenzione su quelli che si configurano, in ragione della loro ampia condivisione generalizzata, come i tre più paradigmatici ai fini delle presenti riflessioni.
La prima forma odierna di ideologia del diritto è quella per cui tutti i desideri individuali devono trovare pubblico riconoscimento venendo legalizzati. Si tratta di quello che può essere definito come “edonismo giuridico”.
Secondo questa visione il diritto non avrebbe altra funzione che quella di recepire gli appetiti soggettivi e, in nome di una fraintesa concezione della libertà, il dovere di formalizzarli giuridicamente all’interno dell’ordinamento statale.
La presunta neutralità assiologica dell’ordinamento, frutto della sinergia tra le istanze del neo-positivismo e quelle di un sempre più radicato laicismo, peraltro, consentirebbe di poter e dover formalizzare istanze non soltanto diverse, ma tra loro anche radicalmente opposte, sebbene prodotto dell’unitaria e comune visione ideologica di fondo.
Così, per esempio, il desiderio di non diventare genitore si deve tradurre nel diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, mentre al contempo il desiderio contrario di diventare genitore nel diritto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e così via.
La seconda forma ideologica, oggi ampiamente metabolizzata dalla quasi totalità del mondo contemporaneo dei giuristi, si estrinseca nella convinzione per cui il diritto debba necessariamente adeguarsi al mutamento dei tempi, per cui non ci sono principi universalmente validi che possano essere invocati contro quella che viene concepita come la natura camaleontica del diritto nel corso della storia. Si tratta di ciò che può essere definito come “storicismo giuridico”.
Il diritto in quest’ottica non è più espressione della natura, ma comincia ad essere piegato alle forze culturali e sociali che nel tempo si vengono a determinare; il diritto, così inteso, non possiede più una sua sostanza ultima, razionalmente attingibile, poiché costantemente plasmato e modellato dal costante e fluido divenire storico.
Non è più il diritto a regolare le vicende storiche, ma è la storia che si incarica di determinare le vicende giuridiche, così che il diritto non è più misura universale di coesistenzialità alla luce della naturale relazionalità umana, ma è ridotto all’insieme, o perfino ad uno soltanto tra essi, dei fenomeni storici che si vengono a produrre nell’arco degli anni o dei secoli.
La terza forma ideologica oggi sperimentabile si può rintracciare nel fermo convincimento per cui il ruolo del giurista, e quindi sostanzialmente la funzione principale del diritto, in altro non consista se non nella continua opera alchemica di rintracciare il mero bilanciamento degli interessi individuali e sociali che di volta in volta gli si pongono innanzi. Si tratta di ciò che può essere definito come “utilitarismo giuridico”.
Il diritto, così concepito, diviene lo strumento con cui si ratifica legalmente un mero calcolo di ordine politico, o addirittura è ridotto ad essere il risultato del calcolo medesimo, cioè il calcolo dell’utilità/dannosità per il singolo o dei costi/benefici per la società o il gruppo di cui si intende porre tutela giuridica del relativo interesse in questione.
Con un superamento dell’utilitarismo classico, per intendersi quello ascrivibile ai canoni del pensiero di Jeremy Bentham,[10] di John Stuart Mill,[11] di Henry Sidgwick,[12] la nuova e pervasiva mentalità utilitarista, come quella cristallizzata pur con varie sfumature dalle opere di Richard Hare,[13] di Peter Singer,[14] o di Sam Harris,[15] sempre più recepita nell’habitat giuridico reputa sufficiente limitare il ruolo del diritto a questo genere di calcolabilità, poiché non è possibile né individuare principi giuridici universali, né concordare all’unanimità su cosa sia da considerare giusto e cosa invece no.
Tutte e tre le prospettive su esposte rivelano un approccio ideologico al diritto poiché invece di ricercare una sostanza razionale per il fenomeno giuridico, preferiscono modellare la giuridicità in base ai propri criteri aprioristicamente predeterminati.
In tutte e tre le prospettive si palesa una profonda sfiducia proprio nei confronti della ragione, ritenuta incapace e inidonea di scoprire con le proprie forze i principi universali come quello di giustizia, dovendo rinchiudere così l’intera esperienza giuridica negli angoli ristretti del desiderio, del tempo o dell’utile.
In conclusione, tutti e tre i suddetti indirizzi sono radicalmente dimentichi del fondamento aletico della realtà in genere e di quella giuridica in particolare, tralasciando tutti la circostanza per cui senza il vero non può esserci l’ente e sfociando tutti in un comune esito, come in ogni costruzione che rinneghi direttamente o indirettamente il vero, cioè quello inevitabilmente e paradossalmente nichilistico, poiché in tanto può esserci il giusto in quanto dev’esserci il vero dato che ens, verum, bonum, iustum et pulchrum convertuntur.[16]
Aldo Rocco Vitale
[1] Eusebio di Cesarea, Preparazione envagelica, XIV, 7-8, 736d.
[2] Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Milano, 2008, pag. 18, n. 24.
[3] Karl Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1957, pag. 80.
[4] Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni Di Comunità, Torino, 1999.
[5] Aldo Rocco Vitale, Elementi di critica della democrazia totalitaria, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 3/2024.
[6] Carlo Galli, Ideologia, Il Mulino, Bologna, 2022, pag. 40.
[7] Raymond Boudon, L’ideologia, Einaudi, Torino, 1991, pag. 39.
[8] «Il nazionalsocialismo vuole rimpiazzare lo Stato di diritto tradizionale con un sistema nel quale il diritto non possiede alcun valore autonomo»: Ernst Fraenkel, Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura, Einaudi, Torino, 1983, pag. 69.
[9] «Quando, poco tempo dopo, un commissario inquirente in una prigione di Mosca mi pose la domanda di rito:- Lei sa perché è stato arrestato?-, risposi di no, anche se, in cuor mio, ero assolutamente convinto che dipendeva dal fatto che non avevo denunciato la mia compagna… Comunque, ero sicuro che i compagni si sarebbero resi conto del loro errore, che mi avrebbero chiesto ben presto scusa… e, dall’altra parte, io non avrei serbato rancore. Dati i tempi, era inevitabile che tanti dei nostri validi compagni, impegnati a smascherare le perfide congiure contro la Causa, potessero sbagliare[…]. Il partito non riconobbe il suo errore. L’errore l’avevo commesso io, cosa che ho compreso poco a poco, scoprendo ciò che i comunisti hanno fatto subire a una moltitudine di persone e vedendo con i miei occhi quante esistenze erano state distrutte da questo regime. Nel corso dei miei 24 anni di Gulag ho parlato con migliaia di compagni di detenzione – Russi, Ucraini, Tatari, Buriati e via dicendo. Operai, contadini, militari, funzionari, apparatcik, professori… Ho ascoltato racconti ai quali era difficile credere. Queste migliaia di testimonianze, giunte da ogni angolo di quest’immenso impero, hanno finito per comporre davanti ai miei occhi un quadro terribile. Poco per volta, presi coscienza che le idee comuniste, così seducenti, erano di fatto illusioni irrealizzabili. E che coloro che si erano impegnati a realizzarle dovevano ricorrere inevitabilmente all’inganno, cosa che implicava obbligatoriamente la censura, in definitiva l’instaurazione di un terrore di Stato[…]. E dire che io avevo dedicato tutte le mie energie perché questo regime trionfasse, un regime non meno abietto di quello nazista, ma certamente più ipocrita, che è durato sei volte tanto, contaminando quasi l’intero pianeta[…]. Quando nel 1985, dopo innumerevoli peregrinazioni, ho fatto finalmente ritorno nel paese dei miei genitori, mi sono accorto con sorpresa che la mia testimonianza interessava ben poche persone. Addirittura, che dava fastidio. –Non è conveniente divulgare fatti imbarazzanti per l’URSS, che ha tanto sofferto per liberare l’Europa dal nazismo, aggiungevano altri, ostinandosi a ignorare ciò che le menti più critiche sospettavano già da lungo tempo, e cioè che se l’URSS aveva favorito la liberazione dell’Europa, era stato suo malgrado[…]. Sono passati 70 anni da quando mi sono dato anima e corpo al movimento comunista, sinceramente persuaso che avrei così difeso la causa della giustizia sociale, alla quale credo tuttora. Ed è mio dovere mettere in guardia le persone oneste: fate attenzione! Non mettetevi su questa via che porta fatalmente a una catastrofe economica, sociale, politica, culturale, ecologica. Probabilmente senza i miei anni di Gulag avrei avuto difficoltà a capirlo»: Jacques Rossi, Com’era bella questa utopia. Cronache dal Gulag, Marsilio, Venezia, 2003, pag. 255-257.
[10] Jeremy Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Primiceri Editore, Padova, 2020.
[11] John Stuart Mill, Utilitarismo, Biblioteca Cappelli, Bologna, 1981.
[12] Henry Sidgwick, I metodi dell’etica, Il Saggiatore, Milano, 1995.
[13] Richard Hare, Scegliere un’etica, Il Mulino, Bologna, 2006.
[14] Peter Singer, Scritti su una vita etica, Net, Milano, 2004.
[15] Sam Harris, Il paesaggio morale, Einaudi, Torino, 2012.
[16] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 1, a.1.