Terzo di cinque articoli su filosofia e diritto che saranno pubblicati in cinque lunedì consecutivi. Leggi il primo articolo e il secondo articolo.
«Non di rado si sente sostenere, con grande scandalo della filosofia, che ciò che essa può avere di esatto non ha valore per la pratica: e, con tono altamente sprezzante, si pretende di riformare la ragione mediante l’esperienza anche in ciò che della ragione forma il più alto titolo di gloria, con la presunzione di veder più lontano e più sicuramente con occhi di talpa fissi sull’esperienza, che non con gli occhi che furono dati ad un essere fatto per camminare in modo eretto e per guardare il cielo»:[1] così duramente e chiaramente Immanuel Kant, nella sua opera del 1793 dal significativo titolo “Sopra il detto comune: ‘Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica’”, evidenziava l’irrazionalità e l’irragionevolezza di quanti preferiscono come talpe fissare l’esperienza piuttosto che scrutare più lontano agendo alla luce dei superiore principi della ragione.
Dalla suddetta riflessione kantiana emerge un triplice dato: la maggior parte degli individui non concepisce nel modo reale i rapporti tra teoria e prassi; l’esperienza pratica non garantisce una maggiore o migliore conoscenza di quella teorica; soltanto una prassi correttamente rapportata alla teoria sarà una prassi a sua volta corretta.
Non a caso, infatti, Kant distingue due errori: quello radicale di chi, in quanto uomo pratico che non ha da perder tempo con le astrazioni, mostra totale spregio nei confronti della teoria in quanto tale, perfino quella della propria stessa scienza in cui si trova ad operare, tanto da dimostrare di essere soltanto «un ignorante nel suo ramo, in quanto crede, ricercando e sperimentando alla cieca, senza la guida di principi sicuri (che costituiscono propriamente quello che si chiama teoria) e senza ridurre la sua materia a un tutto unitario, di poter andare più in là di quanto può portarlo la teoria»;[2] quello ancor più grottesco di chi pur essendo dotto si rivela ancor più ignorante dell’ignorante di cui sopra, poiché «esalta la teoria e il suo valore per la scuola e, nello stesso tempo, afferma che le cose nella pratica vanno altrimenti».[3]
Alla luce dell’insegnamento kantiano, in sostanza, la teoria è l’insieme dei principi generali di una determinata parte del sapere umano, così come non si può definire prassi qualsiasi atto messo in essere dall’uomo, ma solo quello che attua uno scopo ed è pensato in rapporto ai predetti principi generali, per cui non può essere vero il detto comune secondo cui ciò che in teoria ci persuade come buono, non ha alcuna validità nella pratica, specialmente in certi specifici ambiti dell’esistenza.
Lo stesso Kant, del resto, chiarisce che «questa massima, divenuta così comune nei nostri tempi ricchi di parole e vuoti di fatti, quando sia applicata alle materie morali (ai doveri della morale o del diritto), prepara gravissimi danni, poiché qui si ha a che fare con il canone della ragion pratica, in cui il valore della prassi riposa interamente sulla sua conformità alla teoria che le sta a fondamento, e tutto va perduto quando le condizioni empiriche, e come tali, contingenti dell’esecuzione della legge siano elevate a condizioni della legge stessa».[4]
La lezione di Kant segna una demarcazione netta e incontestabile di ordine razionale tra i saperi in genere e quelli morali in particolare. Se già l’idea secondo la quale ciò che è valido in teoria, può non esserlo nella pratica non è idonea per essere adottata nell’alveo dei saperi comuni, a maggior ragione non può essere adottata nell’ambito morale e in quello giuridico, poiché in tali contesti la prassi non può essere ritenuta autolegittimante o autofondante in quanto non è in grado di autotrascendersi alla luce della ragione.[5]
Certo, nel diritto la prassi è un elemento spesso non secondario, poiché è spesso l’elemento primordiale ed embrionale di ciò che può trasformarsi, con il tempo e con la reiterazione, in una consuetudine, o anche perché in base alla prassi talvolta si regolano le relazioni commerciali, si equilibrano i rapporti tra le parti di un contratto, e perfino si esercitano, entro certi limiti, le competenze e i poteri spettanti a taluni organi costituzionali.[6]
Tuttavia, la prassi, a parte i precedenti ristretti casi, non è una dimensione aproblematica nell’ambito morale e giuridico, tanto più quanto viene estrapolata o contrapposta alla teoria.
Esempi quanto mai chiarificatori sono offerti dalle esondazioni giurisprudenziali con cui le toghe, specialmente in Italia e almeno nell’ultimo trentennio, o hanno avocato sempre più spesso competenze e facoltà che spettano ad altri organi costituzionali come il Governo (si pensi alle recenti vicende legate al fenomeno migratorio e alla sua relativa disciplina),[7] o hanno esercitato una crescente creatività ermeneutica giungendo ad emanare sentenze che di fatto aggirano i divieti posti per legge (si pensi alla legittimazione della trascrizione degli atti di nascita dei minori venuti alla luce all’estero tramite le procedure di maternità surrogata, o anche alla registrazione anagrafica come genitore intenzionale del partner del medesimo sesso del genitore biologico),[8] o hanno addirittura messo in mora il Parlamento intimandogli un presunto obbligo di esecuzione legislativa minacciando di sostituirlo in caso di una sua reiterata inerzia (si pensi alle vicende legate al tema del fine vita che hanno visto inaugurare quella che può essere definita come l’inedita “potestas legislationis ablativa” che la Consulta ha reclamato per sé, in frontale violazione della pienezza della potestà legislativa spettante alle Camere, con l’ordinanza n. 207/2018 della Corte Costituzionale poi evolutasi nella più celebre sentenza n. 242/2019 e in tutte le successive pronunce a cascata da quest’ultima dipendenti).[9]
Tutti questi casi, oltre a costituire un problema in riferimento all’integrità del principio di separazione dei poteri, del principio di legalità, del principio di certezza del diritto (non a caso tutti principi violati dalla pratica in evidente contrapposizione alle lezioni kantiane più sopra richiamate tanto sui principi generali quanto sulla teoria), costituiscono una difficoltà intrinseca esattamente in relazione al tema in discussione in questa sede, poiché più o meno direttamente o indirettamente ricercano la propria causa di (auto)legittimazione proprio sul piano della prassi.
Il profondo convincimento di fondo che anima oggi la gran parte dei giuristi, infatti, consiste nell’idea di dover recepire interamente e incondizionatamente ogni fatto che si viene a produrre nel campo sociale, poiché il fatto in sé – specialmente se ripetuto nel tempo e nello spazio – è di per se stesso sufficiente ad assurgere a pretesa giuridica necessitante del riconoscimento formale della legge.
Il giurista, in sostanza, non avrebbe altro compito che censire gli accadimenti sociali e tradurli normativamente per farli fuoriuscire dall’ombra dell’incertezza legale o perfino dell’illegalità. La distribuzione sociale della fattualità, infatti, godrebbe di una forza sufficiente per superare l’eventuale divieto normativo già in vigore che risulterebbe così superato o da superare proprio alla luce del mero dato sociale.
Senza dubbio ci si ritrova all’interno di quella coesistenza agonistica tra fatto e legge, tra legge e diritto, tra fatto e diritto che già Francesco Carnelutti aveva messo in luce diversi decenni or sono,[10] ma c’è una pulsione ulteriore nei tempi odierni, cioè quella per cui il diritto, e con esso il giurista, debba necessariamente e inevitabilmente rimanere passivo rispetto agli accadimenti sociali di cui deve subire gli influssi lasciandosi modellare all’occorrenza.
Detto altrimenti: secondo la più comune visione oggi rintracciabile, nelle norme, nei contratti, nelle sentenze, non è il diritto che deve disciplinare la società e i fatti sociali, ma sono la società e i fatti sociali a dover disciplinare il diritto.
Ecco estrinsecarsi in tutta la sua determinazione la prospettiva prassistica del diritto, quella per cui sono le prassi sociali a determinare le risultanze giuridiche, senza il bisogno o perfino contro gli eventuali principi generali, come quello di ragione o quello di giustizia.
Ovviamente senza fatto non esisterebbe la possibilità di iuris dicere, cioè proclamare il diritto sul quel fatto, come rivela la sapienza giuridica romanistica la quale ha avuto modo di condensare tale consapevolezza nel noto brocardo da mihi facta, dabo tibi ius, ma, una volta acquisita la suddetta cognizione occorre effettuare il passo logico ed etico ulteriore.
La maturazione di una una retta e profonda coscienza giuridica non può che indurre a comprendere che il diritto non può in alcun caso e per nessun motivo essere ridotto esclusivamente alla dimensione fattuale e prassistica (socialmente determinata): quest’ultima, infatti, in quanto tale si chiude non soltanto alla visione superiore e d’insieme – d’intellezione dei fondamenti, dei principi, delle cose prime e di quelle ultime dell’esperienza giuridica – che contraddistingue la teoria, quanto soprattutto alla integrazione dei fatti con la ragion d’essere del diritto, cioè la giustizia.
Il fatto disciplinato da un diritto non giusto, infatti, è soltanto un misfatto legalmente compiuto, come accade, per esempio, nei regimi totalitari secondo la sintesi proposta, per diretta esperienza autobiografica, da Aleksandr Zinov’ev il quale, avendo recepito la lezione impartita da S. Agostino per cui non è vera legge quella che fosse ingiusta,[11] ha avuto modo di osservare come «Non è detto che una normativa (o legalità) qualsiasi sia indice di una società basata sul diritto».[12]
In tal senso, non a caso, Antonio Rosmini, nelle sue lezioni di filosofia del diritto, ha precisato che «la giustizia è un’idea: vedere in questa idea della giustizia i fatti, è vedere nel generale i particolari; ecco l’umana sapienza che dicevamo: tale è lo scopo altresì della filosofia del diritto».[13]
Privare il diritto della riflessione filosofica e teorica per rinchiuderlo nell’angusto spazio del fatto o delle mere dinamiche sociali, significa da un lato ignorare la voce profonda della giustizia, e, dall’altro lato rinnegare più o meno apertamente la stessa dignità del diritto inciampando in almeno tre grotteschi paradossi.
Il primo paradosso è quello per cui proprio nell’epoca in cui maggiore è la pretesa di scientificità del diritto si decide di fondarlo non più sull’universalità della ragione, ma sulla più bruta fattualità sociale che nulla ha di scientifico né di razionale essendo sempre mutevole, contraddittoria, e spesso opposta alla ragione e alla stessa giustizia.
Il secondo paradosso è quello per cui non si comprende che l’opzione prassistica con cui viene inteso il diritto è essa stessa – alla fine – una opzione irrimediabilmente teorica, poiché è la semplice variazione teoreticamente destrutturata, ma noeticamente aggregata di elementi tratti da altre linee teoriche come, per esempio, il materialismo storico, lo storicismo, il relativismo etico, il nichilismo giuridico e così via.
Il terzo e ultimo paradosso, infine, è quello per cui con l’adozione dell’opzione prassistica si intende spesso sottrarre il diritto alla sua eventuale strumentalizzazione, senza, tuttavia, comprendere che è proprio tale opzione la via d’elezione per il suo più totale asservimento.
La mera prassi, infatti, sottomette il diritto – e con esso anche l’errabondo giurista che dovesse spendersi per tale opzione senza coglierne le conseguenze nefaste essendo educato al pensiero della norma, ma non alla norma del pensiero – ben più di qualsivoglia altra alternativa, consegnandolo all’arbitrio del singolo, del gruppo sociale, del giudice, della casualità dell’esistenza nel suo complesso.
La teoria, cioè l’approccio filosofico, dunque critico e razionale, al diritto, invece, evita la reificazione del diritto e di tutti i suoi istituti, per cui non soltanto la teoria non è meramente formativa, essendo piuttosto imprescindibilmente fondativa, ma soprattutto la teoria non può essere negata dalla prassi o in nome della prassi senza che la prassi si trasformi in abuso, e, soprattutto, la prassi non può che rispettare la teoria per proporsi come autenticamente legittima e concretamente razionale.
In conclusione, allora, si tornano alla mente le riflessioni di Christian Atias il quale ha specificato che «l’invocazione della teoria corrisponde sempre a una certa preoccupazione di conoscere di più, di conoscere meglio. Si tratta di comprendere, di andare al di là della semplice decisione legislativa o giurisprudenziale, di risalire a spiegazioni più ampie e fondamentali, forse più coerenti, di trovare le ragioni vere e migliori[…]. Non c’è riflessione teorica se la comunità dotta si richiude su se stessa e rifiuta sistematicamente gli apporti culturali esterni; la pratica e le sue esigenze non sono mai, di per sé, garanzie di realismo, di progresso e di apertura».[14]
Aldo Rocco Vitale
[1] Immanuel Kant, Sopra il detto comune:‘Questo può essere giusto in teoria, ma non vale nella pratica’, in Scritti politici, Utet, Torino, 2010, pag. 239.
[2] Immanuel Kant, op. cit., pag. 238.
[3] Immanuel Kant, op. cit., pag. 238.
[4] Immanuel Kant, op. cit., pag. 239.
[5] Per ulteriori approfondimenti su questo preciso profilo mi permetto di rinviare al mio Aldo Rocco Vitale, Orbite veloci intorno al diritto. Scorci di universo giuridico osservati da un rationauta, Giappichelli, Torino, 2024, pag. 80 e ss.
[6] Cfr. Temistocle Martines, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2011, pag. 46.
[7] Cfr. Renato Veneruso, Siamo sicuri che spetti al giudice stabilire i Paesi sicuri?, 5 settembre 2025, reperibile presso il seguente link: https://www.centrostudilivatino.it/siamo-sicuri-che-spetti-al-giudice-stabilire-i-paesi-sicuri/
[8] Cfr. Francesco Farri, La corte Costituzionale all’assalto della famiglia, 24 luglio 2025, reperibile presso il seguente link: https://www.centrostudilivatino.it/la-corte-costituzionale-allassalto-della-famiglia/
[9] Cfr. Aldo Rocco Vitale, La morte assistita e i trattamenti di sostegno vitale come problemi biogiuridici tra il nominalismo della Corte Costituzionale e l’ontologia della realtà (giuridica), in Consulta Online, n. III/2024 – 7 ottobre 2024; Aldo Rocco Vitale, La perimetrazione costituzionale della disciplina della morte assistita alla luce della sentenza n. 66/2025 come problema biogiuridico, in Consulta Online, n. II/2025 – 30 maggio 2025.
[10] «Così affiora la conversione del movimento in immobilità. E così si oppone il fatto alla legge. L’eterno contrasto tra l’essere e il muoversi si presenta anche al giurista sub specie della opposizione della legge al fatto. La legge sta; il fatto si muove. La legge è uno stato; il fatto è uno sviluppo. La legge è il presente; il fatto non può che essere passato o futuro. La legge è fuori dal tempo; il fatto è dentro il tempo. E così si comprendere non tanto che per il diritto si lotta, come ci ha insegnato uno dei più grandi giuristi della Germania, quanto che il diritto è lotta. Il diritto vive sotto il segno della contraddizione. Il segreto della sua vita è la lotta della legge e del fatto. La legge cerca di trattenere il fatto e il fatto cerca di sfuggire alla legge»: Francesco Carnelutti, Cosa è il fatto?, in Arte del diritto, Giappichelli, Torino, 2012, pag. 41.
[11] «Lex esse non videtur, quae iusta non fuerit»: S agostino, Il libero arbitrio, Città Nuova, Roma, 2000, I, 5, 11 pag.
[12] Alexandr Zinov’ev, Il comunismo. La struttura della società sovietica, Jaca Book, Milano, 1981, pag. 260.
[13] Antonio Rosmini, Filosofia del diritto, Giuffrè, Milano, 1961, pag. 48.
[14] Christian Atias, Teoria contro arbitrio, Giuffrè, Milano, 1990, pag. 50-189.