Quarto di cinque articoli su filosofia e diritto che saranno pubblicati in cinque lunedì consecutivi. Leggi il primo articolo, il secondo articolo e il terzo articolo.

«Niente è più sbagliato e infantile che considerare il filosofo come uno che vive fra le nuvole e che si occupa di problemi astrusi, come uno che ha perso ogni vivo contatto con la realtà. Questo è un tipico errore dell’atteggiamento pragmatico, miope e banale, che considera un contenuto come reale e importante per la vita solo nella misura in cui soddisfa un bisogno esterno, anche pratico e indispensabile. Questo errore è analogo a quello che rappresenta l’uomo religioso come uno che vive fra le nuvole e che diviene estraneo alla vita e alle sue realtà a causa della religione»:[1] così Dietrich von Hildebrand ha rimarcato l’errore più comune del modo di intendere chi si approccia alla realtà muovendo dalla prospettiva filosofica.

Le considerazioni di von Hildebrand suggeriscono almeno tre riflessioni sul punto.

In primo luogo: chi si limita ad osservare la realtà dal punto esclusivamente pratico è destinato a fraintendere il ruolo del filosofo e quindi della filosofia.

In secondo luogo: il punto di vista di ciò che si può definire, a questo punto, come “pragmatismo anti-filosofico”, cela, il più delle volte perfino inconsapevolmente per chi lo adotta, un secondo fine di ordine utilitaristico che, tuttavia, rientra pur sempre all’interno della prospettiva filosofica.

In terzo luogo: il pregiudizio anti-filosofico, nella sua sostanza, ricalca il pregiudizio anti-religioso nella misura in cui la visione pragmatista traduce e tradisce un sostrato inesorabilmente materialistico e quindi anti-metafisico.

La difesa della filosofia proposta da von Hildebrand, tuttavia, per quanto sensata, e perfino vera, sembra non essere in grado di reggere la forza dell’onda d’urto dell’odierno atteggiamento anti-filosofico – grandemente di moda anche e soprattutto tra gli stessi giuristi – che non si limita più a mettere in discussione il ruolo della filosofia secondo il canone della sua maggiore o minore utilità, pretendendo, invece, di affidare l’intera comprensione del reale agli strumenti offerti dalla scienza e dalla tecnica.

Si pensi in tal senso alla cruda censura che Edoardo Boncinelli ha mosso nei confronti della filosofia la quale si distinguerebbe, nella sua ottica, dalla matematica per l’ineludibile inaffidabilità e imprecisione da cui è contraddistinta la prima rispetto alla seconda.[2]

In questa prospettiva, dunque, la scienza assurge ad unica chiave ermeneutica del reale con una duplice conseguenza: da un lato, non esiste altro che la scienza come mezzo legittimo per esercitare le facoltà razionali dell’essere umano; dall’altro lato, tutto ciò che non è scientificamente comprensibile o non ha alcun valore, poiché opinabile, o semplicemente non esiste.

Alla filosofia, nell’ottica di un illimitato espansionismo della prospettiva positivistica, viene revocato o perfino radicalmente negato ogni diritto di esistenza nell’ambito del dibattitto culturale e pubblico, relegandola al più tra i passatempi privati.

Non a caso secondo Vittorio Mathieu con il positivismo la scienza viene «ad occupare l’intero campo del sapere valido, e a costituire il dato veramente positivo: donde il pericolo che la filosofia, in quanto diversa dalla scienza, non trovi più posto nell’ambito delle conoscenze oggettive».[3]

Per le paradossali dinamiche della storia, dunque, la scienza, intesa come sapere positivo, costringe oggi la filosofia allo stesso ruolo secondario, rectius ancillare, per cui gli stessi padri della scienza moderna hanno alzato la voce della loro protesta contro la teologia che per secoli avrebbe soggiogato il loro tipico sapere oggettivo sotto il maglio della fede soggettiva.[4]

La filosofia, insomma, oggi non avrebbe alcun compito che non sia quello meramente educativo o ricreativo, in quanto la scienza l’avrebbe privata definitivamente di tutte le sue potenzialità e specialmente della sua attendibilità nel conoscere la realtà, relegandola all’angolo del mero opinionismo.

Certamente la scienza è necessaria per la comprensione dei fenomeni della realtà e certamente la filosofia non spiega il mondo come il mondo è spiegato dalla scienza, ma la filosofia è l’unica in grado di spiegare la scienza, opera che la scienza non riuscirà mai a compiere davvero su se stessa.

Ecco perché Pavel Florenskij ha precisato che «se la filosofia non spiega, vien da chiedersi, allora che fa? E invece spiega, spiega eccome; anzi, se volete, è l’unica a spiegare, nel senso stretto del termine, poiché è la sola a tendere ad una conoscenza totalmente coerente e unitotale della realtà».[5]

Tuttavia, nonostante ogni ostinato tentativo in tal senso la filosofia non può essere depositata per sempre nella soffitta del sapere, sia perché storicamente non si è mai davvero riusciti in questa impresa come precisato da Etienne Gilson per il quale, infatti, «la filosofia seppellisce sempre i suoi becchini»,[6] con ciò ritenendo che non può considerarsi estinta, né mai estinguibile, sia perché vi sono ambiti della realtà – come l’arte, la morale, o il diritto – che non possono essere privati dell’apporto fecondo della filosofia senza trovarsi gravemente depauperati della loro umanità e della loro stessa razionalità.

E’ il caso di osservare, peraltro, che l’intera operazione con cui si intende marginalizzare il ruolo della filosofia facendo assurgere la scienza ad unico mezzo di conoscenza comporta proprio una vulnerazione della ragione in una doppia direzione: da un lato, dimidiando le risorse della razionalità costretta ad esprimersi soltanto secondo quanto possono garantire le cosiddette “scienze dure” (fisica, chimica, biologia et similia) invece che secondo la pienezza delle sue potenzialità di gran lunda più estese di quelle a disposizione di quelle stesse scienze, e, dall’altro lato, rendendo la scienza in se stessa considerata qualcosa di indiscutibile munendola di una innaturale dogmaticità di matrice quasi religiosa.

Esattamente su tale dogmatizzazione Karl Popper ha avuto modo di condensare le proprie critiche scrivendo contro il dogma principale della nuova religione della scienza che «è un dogma al quale sia gli scienziati sia i filosofi hanno aderito tenacemente fino ai giorni nostri, e solo negli ultimi anni alcuni scienziati si sono dimostrati propensi ad ascoltare coloro che criticano questo dogma ancora in vigore. Il dogma baconiano a cui intendo riferirmi può essere descritto come il dogma della suprema virtù dell’osservazione e del supremo vizio della speculazione teorizzante».[7]

La filosofia, diversamente dalla religione e dalla scienza che si autoglorifica, cerca i fondamenti e consacra i principi, ma senza mai ridursi né a dogma né a mero sapere strumentale, qualificandosi piuttosto come sapere essenziale. Come ha giustamente precisato Marino Gentile, infatti, «filosofia viene detta, dunque, giustamente l’attitudine a compiere qualunque atto di conoscenza autentica e genuina, cioè rivolto a capire le cose come sono, nella loro propria consistenza e non in rapporto all’uso che se ne voglia fare per altri scopi».[8]

Il pensiero filosofico, dunque, non è un pensiero secondario rispetto a quello scientifico, o meglio, il pensiero scientifico non garantisce una migliore o maggiore conoscibilità della realtà rispetto a quello filosofico.

Si può ritenere, quindi, con le parole di Herbert Marcuse, che «di per sé la scientificità non è mai una garanzia per la verità, e tanto meno in una situazione come quella odierna, in cui la verità è in stretta opposizione ai fatti e si trova anzi celata dietro i fatti».[9]

Alla filosofia, dunque, deve essere riconosciuto il più ampio diritto di esistere ancora oggi, anzi, di più, il più preciso dovere di resistere al fine di preservare il pensare dalle derive culturali e ideologiche del nostro tempo.

Gli strumenti critici offerti dalla filosofia garantiscono di evitare l’assoggettamento dell’uomo, e quindi della sua dignità e della sua libertà, alle correnti della storia e ai flussi sociali che nel tempo sono destinati a mutare e, spesso, a negare l’umanità in se stessa anche se frutto di questa.

La filosofia, dunque, non può essere considerata come la mera astrazione della registrazione passiva di quanto accade nel tempo, ma deve esprimere – per essere coerente con la propria natura e quindi autenticamente razionale – una energia critica in grado di opporsi alle ideologie, alle mode, alle visioni dominanti dell’epoca in cui si trova ad operare.

Non a caso Hugo von Hoffmannsthal ha avuto modo di precisare che «la filosofia è il giudice di un’epoca; brutto segno quando ne è invece l’espressione».[10]

Il diritto della filosofia di essere ancora oggi praticata consiste proprio nella sua naturale attitudine alla critica di ciò che è considerato acquisito nel mondo e che si è stratificato come pensiero consolidato nella maggioranza degli uomini.

Tanto più oggi si reputa la filosofia come qualcosa che deve essere estromesso dagli affari della vita, quanto più allora è necessario che essa venga a intromettersi nelle faccende del mondo; tanto più oggi si ritiene che la scienza sia l’unico sapere certo e affidabile, quanto più la filosofia deve tornare a criticare un tale assunto non rispondente al vero e irragionevolmente dogmatico; tanto più il mondo si dirige verso il monopolio del numero, quanto più è inevitabile la restaurazione del valore che solo la filosofia conduce con sé, poiché, in fondo, come ha osservato Henri Bergson «filosofare consiste nell’invertire la direzione abituale del lavoro del pensiero».[11]

Tutto ciò considerato fin qui, si consolida nel momento in cui si effettua il passaggio di specificazione dal diritto della filosofia a conoscere il mondo al dovere della filosofia di conoscere il diritto diventando filosofia del diritto.

Il diritto, infatti, quale che sia la sua definizione più o meno recente, non può mai essere considerato come una dimensione a-problematica, in grado di giustificare se stesso con la sua mera esistenza o con la sua funzione di regolazione dei rapporti economici e sociali.

Il diritto, proprio per la sua capacità di penetrare nelle relazioni umane, di esplicare effetti di coercibilità dell’azione garantendo o limitando la libertà, di tutelare o violare la dignità umana tramite la volontà di chi detiene il potere consacrata dall’autorità della legge, non può auto-legittimarsi se non fino ad un certo punto oltre il quale è necessario un passo ulteriore.

Tale passo è compiuto precisamente tramite lo sforzo della riflessione filosofica intorno al diritto, la quale per un verso è una forma di vera e propria gnoseologia, come ha evidenziato Giovanni Gentile,[12] e, per altro verso, esprime la triplice funzione di indagine logica, storica e giustificativa alla luce della ragione dell’interezza del fenomeno giuridico come insegnato da Giorgio Del Vecchio.[13]

Il diritto che non intende rinunciare alla propria fondazione razionale e che desidera legittimarsi al di fuori della pura volizione di chi lo pone, lo reclama, lo interpreta o lo esegue, allora, non può che essere un diritto che si lascia assistere e accompagnare dalla critica della riflessione filosofica.

L’esperienza giuridica, infatti, non può rinunciare alla concettualizzazione razionale che caratterizza il pensiero filosofico poiché proprio l’unione della relazionalità giuridica e della razionalità filosofica consente di penetrare nella profondità di quel grande mistero che è l’essere umano il quale non può che convivere con i suoi simili tramite la mediazione della giuridicità.

Non è un caso che già Aristotele avesse formulato la necessità di riconoscere la fecondità del rapporto tra filosofia e diritto, evidenziando, addirittura, la dimensione di senso di una tale unione al fine della pacifica coesistenza umana della vita pubblica come di quella privata, scrivendo per l’appunto che «dobbiamo diventare filosofi, se vogliamo attendere rettamente agli affari dello Stato e ordinare utilmente la nostra vita privata».[14]

Il diritto che intende pensare se stesso, allora, non può che lasciarsi guidare, come Dante da Virgilio, dalla filosofia del diritto che ne illumina e ne sorregge l’andatura nell’incedere del tempo, indicando al giurista di volta in volta i passi sicuri sostenuti dalla ragion giuridica o i passi falsi contro la stessa, potendosi così richiamare alla mente, in conclusione, le considerazioni di Robert Alexy per il quale «la riflessione sulla natura del diritto non può avere successo se si separa dalla filosofia generale».[15]

Aldo Rocco Vitale


[1] Dietrich von Hildebrand, Che cos’è la filosofia?, Bompiani, Milano, 2003, pag. 503.

[2] «Matematica e filosofia hanno in comune il fatto che tutto si svolge a livello teorico, nel senso che non appare necessario ricorrere a qualcosa di non mentale per trarre conclusioni e decidere che certe affermazioni sono vere oppure no. Ma la somiglianza fra queste due discipline finisce qui. È la struttura stessa delle affermazioni a essere diversa. Tutto comincia con una singola affermazione o con poche asserzioni. Le parole che queste contengono devono essere tutte definite, in maniera unica e non ambigua, e tutte le volte che si usa una data parola deve avere lo stesso significato e più precisamente quello iniziale. Ciò è proprio quello che fa la matematica, anche a costo di ripetizioni e di precisazioni, e che la filosofia non fa. Quest’ultima non definisce i suoi concetti in maniera chiara e univoca e, soprattutto, non associa lo stesso significato alla stessa parola, neanche all’interno della medesima argomentazione. Il risultato è che le affermazioni filosofiche non danno in genere alcun affidamento, mentre una dimostrazione matematica o geometrica offre subito un’impressione di limpidezza e affidabilità»: Edoardo Boncinelli, La farfalla e la crisalide. La nascita della scienza sperimentale, Cortina Raffaello Editore, Torino, 2018, pag. 39-40.

[3] Vittorio Mathieu, voce “Filosofia” in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, 2006, Vol. 5, pag. 4135.

[4] Ex plurimis cfr.: Bertrand Russell, Scienza e religione, Tea, Milano, 2014.

[5] Pavel Florenskij, Stupore e dialettica, Quodlibet, Macerata, 2011, pag. 37.

[6] Etienne Gilson, The unity of philosophical experience, New York, 1937, pag. 306.

[7] Karl Popper, Scienza e filosofia, Einaudi, Torino, 2000, pag. 125.

[8] Marino Gentile, Trattato di filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1987, pag. 195.

[9] Herbert Marcuse, Filosofia e teoria critica, Einaudi, Torino, 2003, pag. 86-87.

[10] Hugo von Hofmannsthal, Il libro degli amici, Adelphi, Milano, 2010, pag. 51.

[11] Henri Bergson, Introduzione alla metafisica, Orthotes, Napoli, 2012, pag. 61.

[12] «Il suo compito si potrebbe perciò definire gnoseologico; ma di una gnoseologia che non è propedeutica o un semplice organo o canone della filosofia; bensì la filosofia nel suo più sostanziale nucleo metafisico, come coscienza critica della legge profonda della realtà»: Giovanni Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Le Lettere, Firenze, 2012, pag. 46.

[13] «La Filosofia del diritto comprende dunque varie ricerche (logica, fenomenologica e deontologica), e si può definire: la disciplina che definisce il diritto nella sua universalità logica, ricerca le origini e i caratteri generali del suo svolgimento storico, e lo valuta secondo l’ideale della giustizia desunto dalla pura ragione»: Giorgio Del Vecchio, Lezioni di filosofia del diritto, Giuffrè, Milano, 1965, pag. 194.

[14] Aristotele, Protreptico, RBA, Milano, 2017, B8, pag. 7.

[15] Robert Alexy, La natura del diritto. Per una teoria non-positivistica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015, pag. 29.

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