Quinto di cinque articoli su filosofia e diritto che saranno pubblicati in cinque lunedì consecutivi. Leggi il primo articolo, il secondo articolo, il terzo articolo e il quarto articolo.
«Viviamo in un’epoca che vorrebbe annoverare la filosofia tra i relitti teologici di un passato ormai superato e che nulla considera più sospetto, più legato a interessi misteriosi e inconsci, dell’ideale della pura teoresi della conoscenza per la conoscenza»:[1] così Hans Georg Gadamer ha magistralmente sintetizzato il generalizzato atteggiamento scettico odierno nei confronti della filosofia, tanto che, a titolo esemplificativo, qualche anno or sono il Governo spagnolo decise di elidere del tutto dai programmi scolastici lo studio della filosofia.[2]
Tale visione è ampiamente diffusa anche e soprattutto nel mondo giuridico, per cui i giuristi di ogni ordine e grado, sempre più spesso, mal tollerano le intromissioni filosofiche nel campo della loro disciplina.
Del resto, se il diritto viene inteso sempre più come una scienza, sebbene scienza sociale, esso non può essere distratto né da istanze non giuridiche come la filosofia che per sua essenza è strutturalmente metafisica, almeno secondo la ricognizione sagacemente compiuta da Martin Heidegger,[3] né tanto meno da elementi eterogenei che, come la morale, la religione, la giustizia, rischiano di contaminare la sua funzione meramente tecnica di regolazione dei fenomeni sociali secondo l’indirizzo dottrinale delineato da Hans Kelsen,[4] e che di tanta fortuna e diffusione ha goduto e ancora in certa misura gode nell’universo giuridico occidentale odierno.
Nell’ottica predetta, cioè intendere il diritto come scienza della mera tecnica della regolazione sociale, la riflessione teoretica e filosofica viene ad essere grandemente ridimensionata o perfino esclusa, poiché la giuridicità viene ad essere concepita soprattutto nella sua accezione pratica.
Il giurista, in questa prospettiva, cessa di essere un cercatore di giustizia, e diventa qualcosa di profondamente diverso, definibile come “meccanico giuridico”.
Il giurista come meccanico non ha altro compito se non quello di curarsi della manutenzione, dell’integrità strutturale e dell’efficienza funzionale delle norme e dell’ordinamento giuridico nel suo complesso.
La meccanica giuridica impone di mettere a registro la volontà sociale o politica indipendentemente dalla giustizia o da altre eventuali astrazioni; la meccanica giuridica pretende di considerare le norme e la normatività come i soli strumenti utilizzabili per riparare, modellare, innovare l’ordinamento giuridico; la meccanica giuridica esige che il giurista, appunto in quanto meccanico del diritto, non risponda ad altra deontologia che non sia quella derivabile dalla stessa meccanica giuridica e che, dunque, cessi di scrutare i cieli della metafisica e dei presunti principi primi della giuridicità, per occuparsi della realtà e della concretezza delle dinamiche normative che, in definitiva, riflettono quelle sociali.
Come la meccanica celeste sottomette l’interezza della comprensione dei moti dei corpi celesti alle leggi necessitate della fisica, così la meccanica giuridica pretende di sottomettere l’interezza della fenomenologia giuridica alle leggi necessitate dei moti dell’evoluzione sociale.
Come l’astronomo osserva e registra le leggi indisponibili del cosmo che gli si para innanzi, così il meccanico giuridico si limita a prendere atto dei mutamenti sociali e a registrarli sotto la forma legale dell’ordinamento giuridico, senza proporsi ulteriori fini che non siano quelli di procurarsi una sufficiente dose di legittimità ufficiale per il proprio operare e di raggiungere una uniformità formale del proprio operato.
Il meccanico del diritto ripara le normative desuete innovandole secondo le nuove richieste della società, colma i vuoti nel tessuto dell’ordinamento con le toppe del cosiddetto “sentire sociale”, restaura gli istituti obsoleti attraverso l’azione rinnovatrice del cosiddetto “diritto vivente”, pratica un virtuosismo alchemico che gli consente di mantenere l’equilibrio ideale per il costante bilanciamento degli interessi di volta in volta considerati.
Il meccanico del diritto non crede ad una realtà giuridica ulteriore rispetto a quella esperibile all’interno dei confini della mera normatività socialmente determinata, non reputa essenziale che il diritto si occupi dell’essere umano come suo specifico orizzonte teleologico dovendo semmai preoccuparsi più che altro della propria regolarità formale, e, soprattutto, non trova altro scopo per se stesso che non sia quello di assicurare e manutenere il funzionamento dell’intero apparato giuridico dalla primordiale fase nomogenetica a quella finale di carattere esecutivo.
Il diritto in tal maniera inteso consiste nell’insieme delle norme che sono concepite come ingranaggi di un più complesso sistema, cioè quello sociale, che svolge il proprio lavoro in modo continuo, automatico e ripetuto, così da offrire la stabilità del sistema sociale medesimo e dei relativi scambi e interessi economici e commerciali che in esso vengono a svolgersi.
Ci si ritrova così all’interno dell’habitat teorico delineato dal funzionalismo giuridico di Niklas Luhmann per il quale, infatti, non soltanto il diritto svolge, non senza qualche conflitto di interessi, la funzione materiale ed empirica di procurare ai giuristi il loro pane quotidiano,[5] ma soprattutto in tale prospettiva, puntualizza Luhmann, «non delimitiamo il diritto attraverso un particolare genere di norme, quindi in ragione di un cosmo di essenza che si articola in specie e generi. Piuttosto osserviamo le norme come forma di una funzione di stabilizzazione generale che ottiene la specifica qualità di diritto soltanto per il fatto che è differenziata come sistema giuridico».[6]
Il funzionalismo rende il diritto un sistema di automatismi talmente ben congegnato da diventare auto-poietico, cioè non più espressione della razionalità umana o del bisogno di tutelare l’umana dignità, ma un circuito chiuso e auto-fondato che addirittura produce e risolve i suoi stessi temi e problemi.[7]
Pur dalla serietà della prospettiva luhmaniana, oggi largamente metabolizzata e interiorizzata dalla gran parte dei giuristi, spesso anche da coloro che vantano una formazione e una sensibilità non prettamente positivistiche, sembra comunque riecheggiare il noto e ironico aneddoto sull’inutilità del diritto per come emerge dal dialogo intercorso tra un vecchio saggio maestro e un giovane allievo.
Il giovane e inesperto allievo chiede:- Maestro, cosa è il diritto?-
Il maestro risponde:- Lo strumento con cui i giuristi risolvono le controversie?-
Il giovane incalza:- Maestro, quali controversie?-
Il maestro, laconicamente, risponde:- Quelle create dai giuristi…-
Se il diritto si condensa ad essere un sistema auto-referenziale, privo di una prospettiva metanormativa e di un fondamento più elevato rispetto alla mera fenomenicità socio-storica su cui viene ad adagiarsi, allora significa che esso si riduce a pura tecnica di regolamentazione e coazione del comportamento sociale, tecnica peraltro del tutto svincolata da ogni parametro di razionalità e muta e sorda alle ragioni della stretta giustizia, venendo a coincidere, in definitiva, con il momento volitivo-politico, come del resto evidenziato da Natalino Irti per il quale, infatti, «dire che il diritto è tecnica, cioè forma di volontà di potenza, è dire che esso è politica».[8]
Il diritto ristretto alla tecnica normativa, scardinate le fondazioni giusnaturalistiche e giusrazionalistiche che ne hanno sorretto fin qui l’essere e la ragion d’essere, si esprime adesso soltanto come mera proceduralità, diventando, insomma, pura espressione del volere politico così che, sempre con le parole di Irti si può ritenere che «il diritto positivo si è ripiegato per intero nelle procedure, che, come vuoti recipienti, sono capaci di accogliere qualsiasi contenuto[…]. Le procedure, come che funzionino, sono, a loro volta, poste: risultato di volontà, e non scoperta e applicazione di verità[…]. La norma ha una validità procedurale, e non una verità di contenuto[…]. L’unica e superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di norme».[9]
Il meccanico del diritto, in un simile panorama, non ha altro ufficio che quello di presiedere – nelle classi universitarie, negli studi professionali, nelle aule giudiziarie e in ogni altro luogo in cui sia richiesto il suo ministero così concepito – soltanto al controllo e alla gestione dell’efficienza della proceduralizzazione e della applicazione procedurale del diritto inesorabilmente ridotto a tecnica di se stesso.
Tuttavia, la sterilizzazione tecnicistica della vocazione alla giustizia che fagocita la natura del giurista e del diritto stesso, non può essere considerata idonea e sufficiente ad esprimere tutte le potenzialità e le profondità della fenomenologia giuridica.
Si consideri, a titolo esemplificativo, il mondo agonistico delle gare automobilistiche di Formula1.
Siamo abituati ad osservare i meccanici della Formula1 che in maniera sconcertante, sempre più velocemente, sempre più efficientemente montano e smontano l’intero apparato dei veicoli che si cimentano nelle gare in cui sono richieste prestazioni sempre più ottimali in termini di consumi, velocità, stabilità.
Non c’è nessuno di noi che non affiderebbe la propria autovettura quotidiana alle cure straordinarie di un meccanico di Formula1; e non c’è meccanico di Formula1 che non conosca a menadito – forse perfino ad occhi chiusi – l’intero apparato delle automobili di Formula1 su cui è chiamato ad operare o almeno di quella parte di sua stretta competenza e gestione.
In pochissime frazioni di secondo – per esempio in un normale pit stop – si rimpiazzano gli pneumatici consumati, si esegue il rifornimento completo di carburante, si sostituiscono eventuali componentistiche danneggiate della carrozzeria, si consente alla monoposto di riprendere la gara ripristinando lo status quo ante all’usura della corsa; quasi una magia; un lavoro di più uomini eseguito all’unisono alla perfezione e per di più nel modo più rapido possibile: cosa chiedere di meglio dal fondo del nostro stupore di incantati e tifosi spettatori?
I meccanici di Formula1 sono precisi, veloci e affidabili: chi non vorrebbe essere come loro o chi non desidererebbe che la propria macchina fosse da loro accudita? Chi non vorrebbe che simili caratteristiche fossero riscontrabili anche nel mondo del diritto? Chi non vorrebbe che i meccanici del diritto che si occupano della propria formazione o della propria causa non godessero delle analoghe caratteristiche che connotano quelli strabilianti di Formula1?
Tuttavia, a ben guardare, ci sono delle difficoltà, e non di poco conto.
Per quanto siano strepitosi i meccanici della Formula1, per quanto tecnicamente competenti e puntigliosi possano essere i loro interventi, per quanto siano tutti parte di una squadra che lavora al medesimo obiettivo, nessuno di loro è in grado di condurre la vettura alla vittoria, poiché nessuno di loro è il pilota. Soltanto possedendo i requisiti, l’esperienza, la visione d’insieme del pilota la vittoria può essere davvero sperata.
La conoscenza tecnica da sola non è in grado di tagliare il traguardo senza qualcosa di più e di diverso che è, appunto, l’apporto del pilota il quale contribuisce in modo meta-tecnico, ultra-tecnico, non particolaristico, o, in altri termini, olistico.
In questa prospettiva il giurista è il pilota che supera le capacità tecniche del mero meccanico del diritto; per converso, per quanto specialistica sia l’attività del meccanico del diritto, quest’ultimo non riuscirà mai ad essere realmente un giurista poiché privato dell’aspirazione di tagliare il traguardo del diritto, cioè, appunto, la giustizia.
Per evitare di auto-ridursi o essere da altri ridotto a meccanico del diritto, il giurista ha una sola via di fuga, cioè l’approccio critico alla fenomenologia giuridica che soltanto lo sguardo razionale della filosofia del diritto può consentirgli di ottenere.
La filosofia del diritto, se rettamente intesa, non può che evitare l’assoggettamento del diritto e dello stesso giurista alla visione dominante, spesso ideologica e irrazionale, che può essere – come di fatto sempre più spesso è – del tutto incompatibile con la dignità dell’uomo e del diritto in quanto tale considerato.
Per chi è aduso al confronto, infatti, si nota immediatamente la distinzione tra chi parla o scrive da meccanico del diritto e chi, invece, ragiona da giurista: il meccanico del diritto, per quanto febbrile e volenterosa e tecnicamente corretta sia la sua azione, mostra una accettazione passiva rispetto agli accadimenti che tentano di subordinare il diritto a logiche extra o perfino anti-giuridiche; il giurista, invece, rimane vigile rispetto alle eventuali distorsioni che quotidianamente ope legis aut ope iudicis rischiano di essere introdotte nel mondo del diritto.
Diversamente dal meccanico del diritto che si limita a registrare i cambiamenti sociali e a tradurli formalmente nel più ampio meccanismo dell’ordinamento legale, si potrebbe a questo punto compiere un passo ulteriore e rimarcare la differenza specificando come proprio nell’epoca dell’homo desiderans, quale è quella attuale, il giurista abbia invece un solo diverso e reale compito, cioè quello di dire no rispetto a tutte le eventuali sollecitazioni provenienti dai mutamenti storico-sociali.
In fondo, è la profonda distinzione già tracciata da Alessandro Passerin-D’Entreves,[10] il quale ha riproposto quella più risalente e acuta delineata da Alexis de Tocqueville, secondo cui occorre differenziare il leguleio dal giurista, poiché il primo, in quanto meccanico del diritto, si contenta di vivere all’ombra della normatività o della volontà politica che la normatività pone, mentre, invece, il giurista intende vivere alla luce della recta ratio.
Alla fine di questo ultimo quinto intervento sul tema dei rapporti tra filosofia e diritto, si può ritenere, allora, che l’approccio filosofico al diritto costituisca il viatico per attraversare l’esperienza giuridica evitando l’ideologizzazione del diritto e la disumanizzazione degli stessi giuristi i quali, loro malgrado, come ogni paziente rispetto all’amara medicina, devono imparare ad accettare ogni giorno il ruolo ortesico della critica filosofica della loro disciplina per preservare la salute del senso della propria stessa opera, come del resto, e in conclusione, ha insegnato Erasmo da Rotterdam per il quale, infatti, «convertirsi alla filosofia non significa andare attorno bardato di mantello o di bisaccia, non significa lasciarsi crescere la barba. Che significa allora? Significa prender distanza dai valori generalmente – ed erroneamente – perseguiti, significa farsi idee molto diverse dalla maggior parte degli uomini. Il primo requisito del principe è appunto dare una giusta valutazione delle cose; giacché, quando le idee sono distorte, è come se fossero inquinate le sorgenti dalle quali sgorgano tutti gli atti della vita».[11]
Aldo Rocco Vitale
[1] Hans Georg Gadamer, La ragione nell’età della scienza, Il Melangolo, Genova, 1982, pag. 91.
[2] https://www.elmundo.es/espana/2022/03/29/6242da77fc6c83d47c8b457f.html
[3] «L’albero della filosofia cresce dal terreno in cui affondano le radici della metafisica»: Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano, 2001, pag. 91.
[4] «Se una scienza spiega e descrive il comportamento umano in questo modo e se la si designa come scienza sociale perché ha per oggetto il reciproco comportamento umano, non si può attribuire a tale scienza sociale un valore fondamentalmente diverso da quello di una scienza della natura[…]. Soltanto nella misura in cui il diritto è un ordinamento normativo del reciproco comportamento umano lo si può distinguere dai fenomeni naturali come fenomeno sociale e la scienza giuridica può essere distinta dalle scienze naturali come scienza sociale»: Hans Kelsen, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 2021, pag. 108-109.
[5] «Il diritto ha in definitiva anche la funzione di procurare ai giuristi il loro pane quotidiano»: Niklas Luhmann, Il diritto della società, Giappichelli, Torino, 2012, pag. 118.
[6] Niklas Luhmann, op. cit., pag. 121.
[7] «Il risultato è che il diritto non soltanto dirime i conflitti, ma il produce anche»: Niklas Luhmann, op. cit., pag. 123.
[8] Natalino Irti, Il diritto nell’età della tecnica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007, pag. 17.
[9] Natalino Irti – Emanuele Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Bari, 2001, pag. 2.
[10] Alessandro Passerin-D’Entreves, Obbedienza e resistenza, Edizioni di Comunità, Roma, 2018, pag. 64-65.
[11] Erasmo da Rotterdam, Re o matti si nasce, in Adagia, Einaudi, Torino, 1980, pag. 11.