Intervista di Stefano Di Lullo a don Carmine Arice, pubblicata su “La voce e il tempo” del 26 ottobre 2025.
La scorsa settimana la Piccola Casa – Cottolengo di Torino ha promosso un affollato convegno sui temi del fine vita, con medici, bioeticisti, giuristi e pastoralisti, a cui hanno preso parte anche numerosi studenti del corso di Laurea in Scienze infermieristiche (Università Cattolica, sede Cottolengo). Il Padre generale don Carmine Arice ha tenuto la prolusione al convegno sul tema «Non c’è diritto senza limiti», citazione del costituzionalista Valerio Onida, in riferimento al dibattito in corso sulla legislazione nel fine vita in Italia e sull’accompagnamento delle persone malate nella fase terminale dell’esistenza. Padre Arice in queste settimane sta tenendo diversi dibattiti sia a Torino che in tutta Italia sulla tematica. Alcune settimane fa si è confrontato con Marco Cappato, dell’Associazione Luca Coscioni, alle Ogr di Torino. A margine del convegno abbiamo posto alcune domande a Padre Arice.
Le leggi in vigore sull’accesso alle cure palliative e sui trattamenti nel fine vita sono sufficienti a normare un accompagnamento delle persone morenti?
Le leggi di riferimento sono la 38 del 2010 «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore» e la 219 del 2017 sul consenso informato e le «Disposizioni anticipate di trattamento (Dat)». La prima viene applicata sul territorio nazionale a macchia di leopardo, alcune regioni ne sono sprovviste, ma quello che mi preme sottolineare è che i dati e l’esperienza diretta (la Piccola Casa nel 2022 ha aperto un hospice a Chieri) ci dicono che quando è presente un’adeguata terapia del dolore, insieme ad una vicinanza ai malati e alle loro famiglie, la domanda di suicidio assistito e di eutanasia si abbassa notevolmente fino quasi a scomparire. Allora richiamo subito la prima questione: più che organizzarsi per dare risposte di morte, non avrebbe più senso investire, applicando la legge in modo adeguato, per dare risposte alle domande di vita? Per esempio, mi chiedo: nelle regioni che hanno legiferato sul suicidio assistito qual è l’applicazione reale della legge del 2010? In quali percentuali coloro che chiedono o necessitano di cure palliative in struttura o a domicilio possono accedervi? Arrivando alla legge del 2017, sulle Dat, in primo luogo è importante tenere presente, come ha evidenziato un recente studio, che il 95% dei medici non la conosce in modo adeguato e sarebbe bene una formazione sulla legge. La norma ha certamente l’aspetto positivo di insistere sull’importanza di attuare insieme al paziente un progetto di cura. Prevede, poi, che nessun trattamento sanitario possa essere iniziato o proseguito se privo del consenso informato della persona interessata, aspetto che di per sé è un’attuazione dell’articolo 32 della Costituzione. Soprattutto insiste sull’importanza della relazione medico paziente e questo mi sembra estremamente importante. Al di là di questi aspetti, a mio parere, la legge ha un vulnus: è difficile avere la certezza che la volontà espressa dalla persona quando firma la dichiarazione anticipata di trattamento, magari in pieno stato di salute, corrisponda alla medesima di quando si viene poi a trovare nella situazione di doverla applicare. E questo lo dico alla luce dell’esperienza diretta nella Piccola Casa, perché è già avvenuto che alcuni pazienti abbiano cambiato idea, richiedendo o accettando trattamenti ai quali, in stato di salute, avevano dichiarato di non volersi sottoporre. Il problema si pone, e questo non è risolto dalla normativa, quando si chiede a un medico di interrompere delle cure che lui in scienza e coscienza ritiene siano proporzionate; ma questo lo esprimemmo in modo chiaro già nel 2017 quando sostenemmo, alla pubblicazione della legge, l’importanza dell’obiezione di coscienza.
Alla luce di ciò esiste un vuoto normativo?
A proposito ho qualche perplessità. L’opportunità di una nuova normativa nasce dalla sollecitazione della Corte costituzionale, che però non chiede una legge sul suicidio assistito ma la depenalizzazione, in alcuni casi, rari e a condizioni determinate, di chi aiuta ad attuare la drammatica scelta. Dobbiamo vigilare su norme che puntano all’autodeterminazione assoluta della persona. Questo perché la dignità del paziente va custodita anche quanto la sua vita diventa fragile. Cito, a questo proposito, le parole che Maria Letizia Russo, affetta da patologia irreversibile, ha detto lo scorso marzo in audizione alla Corte costituzionale: «Mi piacerebbe uno Stato che dicesse che la mia vita è importante e la difende da tutti, anche da me». Il mio timore è che per dare risposte ad alcuni casi particolari, in realtà si apra poi una porta verso una mentalità eutanasica, come infatti è avvenuto in altri Stati che hanno legiferato per il suicidio assistito o l’eutanasia.
A cosa si riferisce?
Penso al Canada, dove nel 2016 è stata emanata la legge sulla depenalizzazione del suicidio assistito e nel 2021 è nata l’Assistenza medica a morire (per chi soffre di gravi condizioni di salute ma che non sono in pericolo di vita), nel 2023 si sono registrati 60.300 suicidi legali, pari al 5% delle morti del Canada (il 7% in Quebec). La rivista laica «The Atlantic» ha titolato un articolo di 15 pagine: «Il Canada si sta uccidendo».
Alla luce dell’esperienza nella Piccola Casa, anche con il Cottolengo Hospice, quali risposte dare dunque?
Il primo auspicio è un’adeguata applicazione di quanto previsto dalle leggi 38/2010 e 219/2017, pur con le sue criticità. Per esempio richiamo l’urgenza di adeguare tutte le aree del territorio italiano all’accesso alla terapia del dolore sia a domicilio che negli hospice. Fondamentale è il sostegno agli hospice. La diaria giornaliera della nostra Regione di 258 euro (tutto compreso) è decisamente insufficiente a fronte di altre Regioni dove il contributo arriva fino a quasi 400 euro. Confido in un adeguamento delle tariffe. In generale non percepisco tutto questo interesse a sostenere chi si prende cura della vita fragile nella fase terminale dell’esistenza. Allo stesso tempo è fondamentale il supporto economico e previdenziale per le famiglie che si fanno carico dell’assistenza del proprio congiunto. C’è poi un altro aspetto importante nel prendersi cura e cioè l’attenzione della domanda di senso, della dimensione spirituale di pazienti, famiglie e operatori, del «dolore spirituale», e questo fin da quando si è in salute. E, da ultimo, mi preme sottolineare l’importanza per la comunità cristiana dell’accompagnamento della persona in un percorso di fede in cui si gioca tutto il senso della vita, della morte e dell’eternità. Concludo con le parole di Cicely Saunders, medico e infermiera britannica straordinaria, che diede inizio alle cure palliative e agli hospice: «Dobbiamo uccidere il dolore, non il nostro paziente, affinché la vita possa emergere di nuovo e possa continuare fino alla fine».