L’Unità Locale Socio Sanitaria 3 Serenissima in Veneto sdogana in via amministrativa il suicidio assistito come “pratica medica”.
L’Ulss 3 Serenissima in Veneto ha predisposto un protocollo operativo per le richieste di suicidio assistito, dalla denominazione “Istruzione operativa per la gestione delle richieste di suicidio medicalmente assistito (ai sensi della sentenza n. 242 del 2019 e della sentenza n. 135 del 2024)”, destinato a tutti gli operatori sanitari “che possono essere coinvolti nel percorso di SMA”. Nel testo si afferma che il suicidio assistito sarebbe una pratica consentita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019: “il suicidio assistito è prima di tutto una pratica medica” si afferma, una pratica (si ripete ancora) “per porre fine alle proprie sofferenze”, quando si è affetti “da una malattia a prognosi infausta o da una condizione irreversibile e insopportabile”.
In estrema sintesi, l’Istruzione indica le modalità operative di verifica e risposta alle richieste di suicidio assistito e il “Percorso Attuazione della procedura di SMA”, che comprende anche la fornitura del materiale tecnico e farmacologico, nonché l’assistenza sanitaria, che devono essere assicurate dalla struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale.
Come riferimenti per la valutazione delle richieste nel documento si richiamano le due sentenze della Consulta (la n. 242 del 2019 e la n. 135 del 2024) e la lettera di giugno 2022 dell’allora Ministro della salute, citandone il suo contenuto: “è da garantirsi che siano a carico del Servizio Sanitario Nazionale le spese mediche necessarie, al termine della procedura di verifica affidata alle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, il ricorso al suicidio assistito ai pazienti che ne facciano richiesta”. Una lettera che si afferma essere strumento e parametro di valutazione delle richieste di suicidio assistito nel par. 1 di “Premessa”, ma non più menzionata, poi, al par. 10, che elenca i “Documenti di riferimento”.
Rispetto a tale Istruzione operativa si intendono evidenziare solamente tre profili critici, che – a ben vedere – non riguardano strettamente il solo documento ma che incidono sull’intero dibattito sul tema.
1. Il primo elemento problematico riguarda la definizione del suicidio assistito come pratica medica, alla quale corrisponde una specifica procedura. Il tema è stato ampiamente trattato e nel suo contenuto minimo riporta alla questione di fondo: si può parlare di suicidio assistito in termini di diritto e nella pretesa di ricevere prestazioni suicidiarie?
Chi ritiene sussistente un diritto alla morte, con relativo obbligo di prestazione da parte del Servizio sanitario nazionale, dimentica forse che l’assistenza al suicidio è, ancora oggi, nel nostro ordinamento un reato e che la Corte costituzionale ne ha individuato una circoscritta area di non conformità costituzionale e non un diritto[1]. Sui poteri pubblici non gravano obblighi positivi di erogazione di prestazioni di suicidio quanto piuttosto un vero e proprio dovere di tutela della vita umana che discende dall’art. 2 Cost.[2].
La Corte stessa nella sent. n. 132 del 2025, tuttavia, non senza contraddizioni, sembra confondere il compito di verifica sulle modalità attuative del suicidio cui fa riferimento la sent. n. 242 del 2019 con il diritto di essere accompagnati dal Servizio sanitario nazionale, che includerebbe il reperimento dei dispositivi idonei e l’ausilio nel relativo impiego.
Non può, invero, ritenersi il suicidio assistito una pratica o un atto medico, per almeno due ordini di ragioni, alle quali si accenna soltanto. Innanzitutto, è fuori dubbio che il suicidio assistito possa rientrare nei canoni riconosciuti dalla scienza medica: una procedura è definita medica quando risponde a requisiti di sostenibilità scientifica, in questo caso assenti.
Appare, poi, dirimente anche il riferimento alla nozione di salute oggetto di protezione costituzionale: come ha affermato D. Morana “per quanto possa estendersi questa nozione, fino a comprendere i profili non solo biologici ma anche sociali, relazionali, ambientali, e per quanto possa accogliersi una concezione dinamica della stessa salute, che considera quest’ultima non come una condizione ma come un processo, un equilibrio psico-fisico in divenire, che si atteggia diversamente nello spazio e nel tempo e che si sostanzia anche della percezione soggettiva: per quanto, insomma, ci si allontani, e condivisibilmente, dalla nozione di salute come mera sanità o integrità, non v’è spazio per comprendere in essa anche la nozione di morte”: gli interventi di tutela della salute, per quanto comprensivi anche dei trattamenti volti alla riduzione delle sofferenze e del dolore, “non possono spingersi fino a comprendere qualcosa di significativamente diverso e cioè la produzione della morte”[3].
Il suicidio assistito, pertanto, non è una pratica medica e il suo scopo non è ridurre le sofferenze: è un atto che provoca la morte del paziente. Il tema non è la disponibilità della salute o il rifiuto di trattamenti sanitari, ma la disponibilità della vita umana: il singolo individuo potrebbe, di fatto, suicidarsi “ma questa libertà non può diventare oggetto di un diritto a cui corrisponda un dovere di altre persone”[4].
2. La seconda considerazione critica riguarda l’ambiguità del linguaggio utilizzato e l’interpretazione sempre più espansiva della sentenza n. 242 del 2019 (l’unica, tra le tante, di accoglimento, seppur parziale). Si intende, infatti, dare “esecuzione” in vario modo alla pronuncia ma, poi, in concerto, si va ben oltre ai confini indicati dalla Consulta nel 2019. Il problema non è meramente interpretativo ma sostanziale, dal momento che proprio la sentenza n. 242 del 2019 diviene il presupposto giuridico degli interventi successivi, in un ambito – si ricorda – pur sempre presidiato dall’ordinamento penale.
Un esempio è fornito in questo caso dall’espansione delle note condizioni individuate dalla Corte costituzionale per ricostruire la circoscritta area di non conformità costituzionale e, in particolare, quella indicata con la lettera a), che richiede che “l’aspirante suicida si identifichi… in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile”[5]. Nella Istruzione operativa, nel par. 1. Premessa, si descrive la condizione per accedere alla “pratica” di suicidio l’essere affetto da “una malattia a prognosi infausta o da una condizione irreversibile e insopportabile”: il riferimento alla condizione irreversibile potrebbe aprire le porte del suicidio alle menomazioni permanenti non connesse a un decorso patologico che evolve verso la morte, e, pertanto, anche alla disabilità (fisica o psichica).
3. Appare, infine, francamente singolare che per la valutazione delle richieste di suicidio assistito si faccia esplicito riferimento, non solo alle sentt. n. 242 del 2019 e n. 135 del 2024, ma anche alla lettera del 20 giugno 2022 inviata dall’allora Ministro a tutti i Presidenti di Regione, con la quale si invitava a garantire la “prestazione” di suicidio, considerata come un obbligo per il Servizio sanitario nazionale. Tale missiva, che ha contribuito alla corsa in avanti nel tentare la strada della legge regionale (ed espressamente citata inizialmente nelle stesse proposte di legge regionale)[6], sembra ancora oggi essere considerata un presupposto giuridico ed un canone interpretativo della sentenza del 2019. Ma quale valore giuridico-vincolante può avere quella lettera? Poca attenzione forse si è posta alla valenza politica della stessa.
Questo breve contributo intende, allora, evidenziare come ancora oggi siano tante le contraddizioni e le ambiguità che aleggiano sul tema del cd. fine-vita, che condizionano purtroppo anche il dibattito in sede parlamentare. In tale contesto sembra emergere un rovesciamento di prospettiva: si intende esercitare pressione sul legislatore affinché dia “esecuzione” alla sentenza n. 242 del 2019, sotto la spinta dei casi di fuga in avanti, con il rischio di perdere di vista alcune contraddizioni insite nella stessa decisione e finendo, di fatto, per limitare lo stesso potere di intervento del Parlamento (riconosciuto, peraltro, anche dalla Consulta). Al contempo, si trascura che dovrebbero essere proprio gli atti che si definiscono esecutivi della sentenza e di mera organizzazione a collocarsi rigorosamente quanto meno nel solco tracciato dalla sentenza n. 242 del 2019, e non divenire essi stessi aperture in avanti, in un ambito tanto delicato quanto rilevante sotto il profilo etico-sociale.
Di certo l’ultima sentenza della Corte costituzionale, la n. 132 del 2025, ha alimentato dubbi e perplessità rispetto alla giurisprudenza precedente, come messo in luce nell’articolo del Centro studi Livatino del 13 agosto scorso[7]. Servirebbe, allora, una inversione di prospettiva, in grado di riconoscere i ruoli e i poteri degli organi costituzionali.
Oggi è in gioco non solo una mera modifica dell’art. 580 c.p. o della legge n. 219 del 2017, quanto piuttosto, come evidenziava già L. Eusebi, “l’ipotesi di un congedo dal principio di fondo secondo cui sussiste un limite strutturale del diritto, in quanto strumento implicante impegno di risorse umane e materiali in favore delle condizioni di precarietà esistenziale”[8]: un limite che consiste nella “non ammissibilità della cooperazione alla morte di un altro individuo”.
Ritenere la morte un diritto del paziente e il dare la morte un obbligo per il Servizio sanitario nazionale è un passaggio non ancora compiuto, né dovuto. Se intrapreso, però, è in grado di espandersi, con effetti in altri ambiti dell’ordinamento, dai quali difficilmente si potrà tornare indietro.
Francesca Piergentili
[1] Sul punto cfr. Infatti, la sent. n. 242 del 2019 affermava che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”. Nella sent. n. 66 del 2025 si ribadiva che “il cosiddetto ‘diritto di morire’ rivendicato in alcune circostanze potrebbe essere paradossalmente percepito dal malato come un ‘dovere di morire’ per non ‘essere di peso’, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, ‘invisibili’”.
[2] V. Corte cost., sent. n. 66 del 2025, par. 7 del Considerato in diritto. Sulla stessa linea, Corte cost., sent. n. 135 del 2024, par. 7.3. del Considerato in diritto.
[3] D. Morana, L’ordinanza n. 207 /2018 sul “caso Cappato” dal punto di vista del diritto alla salute: brevi note sul rifiuto di trattamenti sanitari, in F. S. MARINI-C. CUPELLI (a cura di), Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2019, p. 239-240.
[4] M. Ronco, La dignità della vita, in AA.VV., Il diritto di essere uccisi: verso la morte del diritto?, a cura di Mauro Ronco, Giappichelli, Torino, 2019, 326.
[5] Cfr. Corte cost., sent. n. 242 del 2019, par. 2.3 del Considerato in diritto.
[6] Sul punto v. M.G. NACCI, Il contributo delle Regioni alla garanzia di una morte dignitosa. Note a margine di due
iniziative legislative regionali in tema di suicidio medicalmente assistito, in Rivista Gruppo di Pisa, n. 1, 2023, 103.
[7] F. Farri, D. Airoma, Fine vita: la Corte costituzionale smentisce sé stessa?, 13 agosto 2025, sul sito del Centro studi Livatino.
[8] L. Eusebi, Regole di fine vita e poteri dello Stato, in F. S. MARINI-C. CUPELLI (a cura di), Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, cit., 140.