Crisi della dignità nella cultura post-metafisica e giuridica moderna: è urgente riscoprire il personalismo ontologico per rifondare etica e diritto sul finalismo naturale. Prima di due parti.

L’impossibilità, nella temperie culturale odierna, di addivenire ad una concezione univoca della nozione di dignità personale che, ontologicamente ancorata a valori metatetici e metastorici, sfugga ai processi di relativizzazione a-veritativa in corso ad ogni latitudine, richiama l’urgenza di una riflessione che, muovendo proprio da una consapevolezza siffatta, riproponga la centralità di un modello antropologico essenzialmente non immanentista, aperto alla dimensione propriamente trascendente dell’essere umano.

Il tentativo trans-culturale oggi in atto di immanentizzare questa dimensione trascendente[1], immateriale, spirituale dell’essere umano, riflette, in buona sostanza, il risalente bisogno umano di conseguire una fondata e fondante conoscenza di essa, che proceda da una base altra rispetto a quella implicata da un mero atto di fede. In fondo, è proprio nella trasparenza di questa tensione che prende forma lo sviluppo storico dell’Occidente, in campo culturale, morale e politico, dal Medioevo all’Umanesimo, dal Rinascimento all’Illuminismo. L’impulso che ha spinto a delineare una ermeneutica del razionale puro nel terreno dell’empiricamente inaccessibile ha alla sua base l’entusiasmo prometeico di una società che, nel percepirsi ormai adulta, cerca affannosamente il senso di sé, nella convinzione di non poter più accogliere l’interpretazione tradizionale, epistemologicamente eteronoma del suo esistere nel mondo. Così, alla gnosi cosmologica tipica della civiltà antica se ne è progressivamente sostituita una nuova, propriamente antropologica, ispirata ad un’ideologia solipsista, edonista, eudemonista, del tutto refrattaria ad ogni elaborazione che attinga alla semantica propria del teleologismo teoretico ed etico, oltre che dell’escatologia[2].

E tuttavia una siffatta cultura, giustamente definita moderna e post-metafisica, che ha congedato per sempre l’ontologia e, con essa, i concetti di essere, verità ed essenza che le erano propri, continua a vivere nell’illusione di poter dominare in qualche modo, o finanche di poter convertire a scopi più umani, l’incedere autoalimentantesi della tecnica, senza mai rimettere in discussione, come invece parrebbe necessario, l’uomo e il ruolo, di mero fruitore e non di creatore, che gli spetta nel dinamismo cosmico[3]. L’uomo, che col dubbio iperbolico cartesiano, agli albori della modernità filosofica, ha rinunciato per sempre a cercare l’essere delle cose, deve necessariamente mettersi ricreare il mondo, a riscrivere quasi un’altra Genesi: “L’uomo, rimasto povero di essere e solo, non appena si è staccato dall’es sere e dalla storia, deve pur avere il suo mondo, che gestisce di persona, governando con le proprie leggi. Egli è costretto a fare il Dio. Non può non farlo. Ed è così che egli si crea il suo mondo, come Dio, e sul quale governerà come re assoluto. Ed è necessario che egli sia assoluto, sciolto da qualsiasi vincolo metafisico e morale, perché se i vincoli o gli obblighi derivano dall’essere, egli, avendo rinunciato all’essere, ha rinunciato a rispettare i diritti dell’essere. Perciò egli non ha nessun dovere verso nessun altro essere[4]. Siamo inavvertitamente scivolati versi una fase storico-culturale contraddistinta da un vero e proprio contingentismo gnoseologico, oltre che da un non-cognitivismo teoretico ed etico, che danno la cifra epistemologica propria dell’epoca postmoderna.

In tale temperie, subisce una rivisitazione lo stesso concetto di libertà, che si riduce a soggettivismo insindacabile, ad autonomia individualistica, in cui l’optabilità, la decidibilità in se stessa è il valore primo e assoluto di ogni esistenza che ambisca a dirsi tale. Il carattere di questa nuova soggettività, scrive Romano Guardini, è quello dell’autonomia, in quanto questo nuovo soggetto “è fondato in se stesso e stabilisce la vita dello spirito[5]. In questa prospettiva, la nozione stessa di soggetto è completamente ribaltata: prima il soggetto era definito nei termini di ciò-che-permane identico a se stesso, nello spazio e nel tempo, ora, invece, nei termini di ciò-che-diviene, ovvero, di un eterno ed ininterrotto fluire, storicamente definito dal solo contigente esercizio, autonomo, incondizionato, sostanzialmente arbitrario, della propria libertà, appunto.

Siffatta concezione libertaria della libertà diviene allora il precipuo supporto argomentativo per legittimare ogni pratica, non essendo più importante porsi domande sul contenuto o sul fine ultimo del singolo atto di libertà, purché lo stesso sia stato compiuto, appunto, “in libertà”. Da qui il predominio di un puro formalismo etico che ha smarrito l’idea della libertà come “adesione incondizionata ad un bene oggettivo”, quale ordine esistente al di fuori del soggetto pensante. Al di sopra dell’essere delle cose e del loro modo di essere (esistenza), c’è solo il pensiero dell’uomo, che ha deciso che esse siano e che siano così come egli ha deciso che siano e sono quello che sono finché l’uomo vuole che siano ciò che sono.

L’etica diviene così senza verità e l’atto morale dell’uomo rimane in balia dell’autoreferenzialità della coscienza individuale, senza che si possano muovere dubbi sull’accettabilità di ogni singola e soggettiva visione assiologica, o sulla sua possibile conflittualità contenutistica, o, infine, sulla necessità di racchiuderne le relative narrazioni all’interno di una cornice ordinamentale, normativa, ultimamente giuridica, che ne garantisca la compresenza operativa: “Quest’uomo, che ha perso l’essere delle cose, ha perso nello stesso tempo anche la morale, poiché la morale è intimamente legata all’essere delle cose. Quando, infatti, le cose ricevono l’essere da Dio, ricevono da Dio altresì le leggi e i diritti inerenti all’essere stesso. La morale è eteronoma, perché è fon data sull’esse receptus. L’uomo del cogito ha preteso di fondare la sua morale sulla propria ragione ed è quanto ha fatto Kant nella Critica della Ragion pratica, cercando i fondamenti di quella morale, che, non provenendo dall’es sere delle cose, era necessariamente una morale slegata dall’essere, una morale autonoma[6].

L’esigenza di sfuggire al dramma, tutto moderno, di morali puramente autoreferenziali e tutte potenzialmente in conflitto, suggerisce, quasi impone, di chiedersi se possa pensarsi un modello teorico che fungendo da cornice di legittimazione formale, assicuri la validità universale a norme che disciplinano tanto le questioni di natura morale, quanto quelle di natura biomorale. La riflessione biogiuridica, di ispirazione personalista ed onto-fenomenologica che qui si conduce, mira ad offrire una risposta a tale interrogativo, muovendo dalla consapevolezza della necessità di una operazione previa di riconnessione duplice e sistematica, della morale alla natura prima e del diritto alla morale poi.

Il primo passo da compiere in questo senso è quello di liberare la concezione della natura da ogni sovrastruttura culturale che la vorrebbe asservita ad una logica di puro funzionalismo organicistico, meccanicistico, deterministico, vitalistico. La natura non è mai riducibile ai meccanismi empiricamente verificabili e scientificamente misurabili che pure la costituiscono, rinviando piuttosto ad un ordine cosmico, eminentemente finalistico, che orienta teleologicamente il corso esistenziale di ogni ente vivente, uomo in primis. Se, cioè, nella natura di ogni cosa esiste una tendenza innata a portarsi verso un determinato fine, in cui risiede la perfezione del suo essere, allora sarà bene tutto ciò che favorisce, asseconda tale tendenza in sé. Su tale tendenza di ogni cosa verso il bene Aristotele baserà sia l’etica che la politica, mentre S. Tommaso dirà che come l’ente in quanto vero è il principio della vita teoretica, così l’ente in quanto bene è il principio della vita morale[7].

Ordunque, tale concezione finalistica della natura è in effetti in diretta connessione con una prospettiva gnoseologica detta di cognitivismo etico, contraddistinta dal fatto che la ragione umana è vista come capace non solo di una conoscenza descrittiva, osservativa, empirica dei fenomeni, ma anche di una valutazione meta-fattuale che attiene al fondamento, al senso e al significato degli stessi. Alla conoscenza logica, dunque, la ragione umana affianca quella ontologica, che assume ad oggetto l’essenza, il fine stesso dell’ente. In questo orizzonte, anche la teorizzazione morale può allora aprirsi alla verità oggettiva, dal momento che i fini naturalmente propri dell’ente si impongono con la dignità di valori oggettivi alla coscienza individuale, che sarà dunque condotta a cercarne la pratica attuazione per mezzo di un agire che li assuma come fini intenzionali.

Questo è esattamente ciò che giustifica l’assoluta eccezionalità dell’uomo rispetto ad ogni altro vivente, in quanto unico essere in grado di riconoscere il valore morale del suo finalismo intrinseco, ontologico e di perseguirlo intenzionalmente, muovendo dalla consapevolezza di un agire che in quanto libero e responsabile può pienamente definirsi morale. In altri termini, l’uomo, per mezzo dell’intelletto speculativo, è il solo essere vivente che può realmente giungere a conoscere la natura delle cose, ovvero, le cose in ciò che esse sono in se stesse e in ciò verso cui esse tendono. Se, invece, passando dal piano ideale dell’essenza al piano reale dell’esistenza, egli vuole agire sulle cose dovrà considerarle dal punto di vista del loro fine, astraendolo dalla loro natura. Poiché, poi, secondo Aristotele, l’arte imita la natura[8], e la politica è essa stessa arte, non c’è modo migliore di seguire la natura se non imitandone direttamente i processi, mediante i quali giunge, dappertutto e nel maggior numero dei casi, a ciò che per essa è il meglio. Infine, l’imitazione operata dal diritto, che ha il compito di dirigere l’azione umana verso il fine giusto, in quanto conforme a natura, deve consistere nella formulazione di leggi mediante cui il legislatore orienta i consociati a partire da quei fini verso i quali naturalmente essi tendono, orizzonte finalistico necessario ed immanente ad ogni esistenza, principio trascendente di unificazione e di permanenza individuale.

Antonio Casciano


[1] Cfr. VOEGHELIN, E., La nuova scienza politica, traduzione di R. Pavetto, Borla, Roma, 1968.

[2] Whitehead, A. N., La funzione della ragione (1929)La Nuova Italia, Firenze, 1978. L’autore osserva come gli scienziati abbiano deliberatamente negato ogni teleologismo nella natura e siano stati capaci di fare “pazientemente a bella posta esperimenti con lo scopo di confermare la loro convinzione che le operazioni animali non sono motivate da alcuno scopo” (ivi, pp. 19 e s.; il cor sivo è nell’originale). Ebbene, quegli stessi “scienziati, animati dallo scopo di dimostrare che essi sono senza scopi, costituiscono un interessante argomento di studio” (ivi, p. 20). D’altra parte, se per ammissione degli stessi scienziati il teleologismo sarebbe al di fuori del campo della scienza e se essi avessero davvero competenza solo su ciò che è al di dentro della scienza, bisognerebbe allora pensare che le loro argomentazioni anti-teleologiche siano null’altro che argomentazioni di incompetenti.

[3] Cfr. Cotta. S., L’uomo tolemaico, Rizzoli, Milano, 1975.

[4] Fiorentino, F., Temi di filosofia aristotelico-tomista Vol. I. Verità, bellezza e scienza, EDI, Napoli, 2008, p. 39.

[5] GUARDINI, R., La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia, 1960, p. 50.

[6] Fiorentino, F., Temi di filosofia aristotelico-tomista, cit., p. 39.

[7] S. TOMMASO, Summa theologiae, I-IIae, q. 94, a. 2.

[8] ARISTOTELE, Physica, II, 2, 194a, 21 s.

Share