Crisi della dignità nella cultura post-metafisica e giuridica moderna: è urgente riscoprire il personalismo ontologico per rifondare etica e diritto sul finalismo naturale. Seconda di due parti: leggi la prima parte.

Il riferimento all’orizzonte dell’essenziale è esattamente ciò che ci consente di approdare alla nozione di persona, la cui perimetrazione semantica è preliminare alla definizione di ciò che ontologicamente le è proprio e che, dunque, delinea la sua dignità, per tornare a ciòda cui ha preso abbrivio la presente riflessione. Quando, cioè, si afferma che un soggetto è una persona, non si sta ricorrendo solo ad un predicato morale, ma ad uno propriamente ontologico. Le persone in quanto sostanze prime non solo esistono, ma sussistono, ossia esistendo si appropriano in una maniera specifica, originale, irripetibile, biografica dell’esistenza, dotate come sono tanto di interiorità essenziale quanto di immanenza esistenziale, a differenza delle pure sostanze materiali. Così ogni vita umana sottende una contingenza storico-individuale che è essa stessa principio di un’unica e irripetibile vicenda biografica, intrinsecamente razionale, libera, responsabile.

E tuttavia una disamina esaustiva della nozione di persona, impone un riferimento al carattere non solo sostanziale, ma anche relazionale della stessa: la persona è per sua natura in relazione con l’essere: “Conviene dire dunque che il nome persona non significa né meramente una sostanza, né meramente una relazione, ma una relazione sostanziale, cioè una relazione che si trova nell’intrinseco ordine dell’essere di una sostanza[1].

Dunque, se la prospettiva ontologica ha lasciato emergere lo statuto essenziale dell’essere personale, uno sguardo fenomenologico all’esserci dell’essere, alla declinazione esistenziale e storica dell’ente, rivela una sua “seconda” natura, che gli è propria al pari della prima e che esattamente come quella lo qualifica identitariamente: si tratta appunto della natura relazionale della persona umana.

Fin dagli albori della sua vita, l’agire intenzionale del soggetto si scontra con la resistenza opposta da altri “uguali”, che parimenti agiscono, all’interno di un unico spazio vitale, come altrettanti soggetti attivi. Il riferimento a ciò che l’uomo deve fare rispetto agli altri, e non rispetto a se stesso, chiama in causa la nozione di giustizia: “La giustizia propriamente detta richiede una diversità di soggetti; quindi, non esi ste se non nel rapporto di un uomo a un altro[2]. Ebbene, nella descritta situazione di altrui com-presenza, all’interno di un medesimo spazio-tempo vitale, il “tendere a” si trasforma in un “pretendere da”, nella pretesa di non essere impedito nella realizzazione di ciò che ci si è prefissi come scopo dell’azione; nella pretesa di ricevere dall’altro assistenza; nella pretesa di accaparrarsi i beni scarsi presenti in natura e stimati come necessari.

Una simile operazione di riduzione fenomenologica, di husserliana memoria, operata a partire dalle “condizioni esistenzialmente proprie dell’uomo”, rivela, a ben vedere, due dati essenziali sull’essere umano: 1) la sua strutturale difettività, che lo spinge ad un agire ininterrotto all’interno dello spazio-ambiente che abita, ponendolo in relazione con i suoi simili; 2) la presa di coscienza di un con-esserci nel mondo, della necessaria condivisione degli ambienti spazio-temporali vitali con soggetti aventi la medesima natura, i medesimi bisogni. La compresenza di pretese tutte soggettivamente vere e legittime, allora, pone il soggetto dinanzi ad un bivio: fermarsi alla pura constatazione di un simile stato di cose e lasciare che le dinamiche intersoggettive siano disciplinate, in ultima analisi, dalla legge del più forte; oppure ricercare, sperimentare, attuare forme per una possibile coesistenza di tali pretese, muovendo da una dimensione veritativa che funga da criterio guida.

Le condizioni di com-presenza reclamano l’adesione a modelli di condotta che rispondano ad un “dover essere”, o meglio ad un “dover di essere”, il dovere di uniformare le esistenze dei singoli alla verità dell’essere dell’uomo, che “esige da” e nel contempo è “tenuto a”. E in questa struttura ontologico-relazionale dell’umano già si scorge e si comprende il senso e il fondamento tanto della eticità, come della giuridicità: la normatività appare cioè iscritta nella “ontologica coesistenzialità relazionale” dell’essere umano che, aprendosi dapprima all’alterità giunge ad una auto-comprensione riflessiva del sé e, poi, trascendendo la propria onticità fattuale e concependo la propria esistenza come com-possibilità, accetta la normatività come condizione di esercizio eteronomo della libertà[3]. Detto altrimenti, la verità del con-esserci in un contesto limitato quanto alle risorse e agli spazi vitali, esige che si dia a ciascuno il suo, nell’atto stesso in cui ne definiamo la natura, identica alla nostra, per mezzo di un giudizio teoretico. La giustizia del co-agire, invece, esige che si dia a ciascuno il suo nell’atto con cui ci rapportiamo materialmente all’altro, per mezzo di una qualsiasi azione esteriore, all’interno dei medesimi spazi vitali, per mezzo di un giudizio morale.

È in questo senso che si può affermare che ogni essere umano è un essere onto-fenomenologicamente relazionale, giacché nella verità di questa relazionalità co-esistenziale necessaria sta scritto il suo “dover essere”: un essere costitutivamente relazionale, dunque, è un “essere” che simultaneamente è un “dover essere”, un’ontologia relazionale appunto: “II neonato umano viene alla vita senza parola, pensiero, giudizio, fantasia. Viene con la sola dote del desiderio della vita-come-relazione, per esprimere il quale si è affermato il termine latino libido (desiderio-brama). Il desiderio della vita-come-relazione è inizialmente mediato dal desiderio del seno della mamma, del corpo della mamma, della presenza (abbraccio, affetto, tenerezza) della mamma. Progressivamente viene mediato da ogni chiamata alla relazione, che crea in chi riceve la chiamata il desiderio intenso di una stabile e totale unione (co-essenza) con l’evento che esercita la chiamata[4].

In breve, tra le persone non c’è solo un rapporto di comparazione, ma di co-implicazione tra identità e alterità. Questo significa anche che la persona non è un oggetto predefinito a prescindere da tutto, ma un evento, un farsi ininterrotto, un aprirsi all’essere. La persona non è qualcosa di statico, una pienezza già data, definibile da qualcuno aprioristicamente, ma un movimento verso qualcosa di non ancora dato. Si definisce la persona a partire da ciò cui essa incessantemente, naturalmente, integralmente tende.

La solitudine e la disperazione dell’uomo moderno è allora quella di chi perso il senso dell’essere come apertura, il senso dello stupore per la presenza e il mistero dell’altro che gli è dinanzi. L’altro, nella sua dimensione di unicità e di non-intercambiabilità, è la protesta silenziosa e continua nei confronti di qualsiasi progetto di predominio dell’uomo sull’uomo. È soltanto nel contesto della relazione, dell’essere voluto, desiderato, amato nell’altro che si realizza, si personalizza l’essere umano. Negando l’altro, l’uomo nega se stesso come persona, scegliendo la separazione nega la sua stessa libertà e si avvia alla morte. Detto altrimenti, negare l’altro significa che nella persona umana la libertà è senza legge, senza una ragione immanente e costitutiva e ciò è esattamente la premessa per riconoscere, nichilisticamente, che “la libertà comincia dal nulla: il nulla della libertà. È un puro inizio nel vuoto di tutto[5].

Dalla natura dell’essere umano come sostanza auto-sussistente, cui ci ha introdotti la prospettiva ontologica, e come esistenza essenzialmente relazionale, cui ci ha condotto l’approccio fenomenologico, scaturiscono anche i principi antropologici ed etici del personalismo, le cui implicazioni, nel campo specifico della biogiuridica, possono essere molteplici e decisive. Volendo accennare, in via di principio, a qualcuna di queste, si potrebbe pensare al fatto che la persona come soggetto sussistente tende a dei beni che ineriscono alla propria natura e la cui realizzazione richiede la mediazione co-operativa degli altri soggetti che abitano il medesimo spazio vitale. Detto altrimenti, tutte le leggi devono mirare a far sì che l’uomo, considerato integralmente (come corpo e come anima, come individuo e come persona), raggiunga la pienezza della sua umanità.

Il criterio unico per giustificare la legittimità di ogni legge è data dal suo essere strutturalmente funzionale alla realizzazione dell’essenza del singolo in un contesto di coesistenza associata: se la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo, la legge giusta riconosce e tutela tutto ciò che è il suo, a cui appartiene non solo ciò che l’uomo possiede in atto, ma anche ciò che è presente in potenza, in forza della sua stessa natura o essenza. Qui c’è l’elemento originario che sta a fondamento del diritto: “Non il diritto, ma il suo diritto sta al l’inizio”, scrive il Rommen[6]. Disobbedire ad un precetto così strutturalmente e funzionalmente orientato, significa in ultima analisi negare la compossibilità co-esistenziale di realizzazione e piena fioritura del singolo, condizioni del sussistere dell’umanità stessa.

Fare di tale funzionalizzazione il criterio per la giustificabilità, sul piano legislativo, di ogni precetto normativo significa reinterpretare in chiave essenzialmente dinamica il giusnaturalismo, adeguandolo alla complessità delle odierne società multietniche e plurali ed operando, a partire da esse, la difficile conciliazione tra la stabilità onto-normativa della natura ed i mutevoli assetti sociali in cui si svolge la co-esistenzialità parimenti normativa dell’uomo: “E come la retta ragione comanda e proibisce, così anche la legge, nella misura in cui è conforme alla retta ragione, si può legittimamente arrogare l’autorità di comandare e di proibire, svolgendo a livello collettivo ciò che la retta ragione svolge a livello del singolo individuo, ossia dirigendo verso il bene comune così come la retta ragione dirige verso il bene privato[7].

La biogiuridica è allora chiamata ad un’assunzione di responsabilità dinanzi al diritto vivente, dovendosi interrogare costantemente sulla sua effettiva conformità al diritto naturale, in uno sforzo ininterrotto di adeguamento positivo delle spettanze essenziali e relazionali dell’umano alle istanze di senso della legge naturale. Questo non significa che compito della biogiuridica è quello negare il pluralismo, imponendo dogmaticamente una particolare visione morale, ma piuttosto quello di cercare il minimo comune denominatore fondante l’assetto eticamente plurale della società, quell’insieme di valori e norme condivisi e comuni che assurgano a limiti invalicabili posti a tutela dell’umano, contro ogni tentativo di asservire il più debole all’imperio del più forte, alla volontà arbitraria della politica, piuttosto che alle dinamiche impersonali della ragione tecno-scientifica. E la legge naturale (o il diritto naturale) è la migliore garanzia per la promozione e la difesa di tale giustizia sia nell’uomo sia nello stato.

Dunque, mentre la bioetica deve tradurre principi generali in norme operative da applicare al caso concreto, il diritto giusto deve invece tendere alla formulazione di norme capaci di positivizzare le esigenze ontologicamente proprie della natura umana. Questo è il compito che pertiene al diritto, chiamato a disciplinare e a garantire le condizioni di com-possibilità delle azioni esteriori individuali, laddove la promozione delle condizioni per il perfezionamento morale del singolo, per il vaglio delle intenzioni maturate nel segreto della sua coscienza, dovrebbe invece spettare alla riflessione etica e teologica. Il diritto è cioè chiamato a custodire, per mezzo della coattività dei cuoi precetti, la morale minima della coesistenza interindividuale rispettosa delle prerogative naturalmente proprie dell’uomo, lasciando alla discrezionalità operativa di ciascuno il compito di realizzare l’esigenza etica massima, ovvero quel cammino di purificazione interiore e di perfezionamento della coscienza in vista della realizzazione del bene oggettivo.

La biogiuridica e la bioetica, appaiono dunque come discipline che sebbene basate su statuti epistemologici distinti, risultano accomunate da un’intima connessione funzionale, co-implicandosi e completandosi vicendevolmente, dovendo la prima porsi alla costante di ricerca di fonti normative capaci di offrire una forma socialmente accettabile a contenuti oggettivamente legittimi posti dalla seconda. Il diritto in bioetica assume il compito di approntare le forme per una continua esplicitazione della normatività della natura, inserendo i cosiddetti diritti bioetici nel novero dei diritti umani, che sono tali perché finalizzati a garantire a ogni uomo le condizioni per la piena attuazione tanto della propria umanità, per mezzo del perseguimento libero e responsabile dei beni naturali fondamentali cui inclina la persona, quanto della propria identità relazionale.

La direzione che indica la legge positiva, però, non può mai essere diversa o addirittura opposta a quella che indica la legge naturale. Poiché, infatti, l’obbligo della legge positiva si innesta sull’obbligo della legge naturale, quando la direzione indicata dalla legge positiva è divergente o contraria a quella indicata dalla legge naturale, essa non obbliga più e il governo che volesse farla rispettare eserciterebbe di fatto una violenza sui suoi governati. In tale ultimo caso, il contrasto,  a bene vedere, non sarebbe “tra legge e natura, ma tra legge ingiusta e natura […]. E quando la legge è ingiusta non obbliga la coscienza. I singoli individui possono anche ripagarla con la stessa moneta. Se [infatti] il legislatore non si sente obbligato dalla legge naturale ad approvare leggi che rispettino l’uomo, neppure l’uomo, in virtù della stessa legge naturale, si può non sentire obbligato a rispettare la legge fatta contro di lui dal legislatore[8].

Antonio Casciano


[1]  Rosmini, A., Antropologia in servigio della scienza morale, Città Nuova, Roma, 1981, p. 516.

[2] S. TOMMASO, Summa theologiae, II-II, q. 58, a. 2.

[3] Cfr. Cotta, S., Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffrè, Milano, 1991.

[4] Yannaras, C., Ontologia della relazione, a cura di B. Petrà, Città Aperta Edizioni, Troina, 2008, pp. 70-72.

[5] Pareyson, L., Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino, 2000, p. 31.

[6] ROMMEN, H., L’eterno ritorno del diritto naturale, traduzione e prefazione di G. Ambrosetti, Studium, Roma, 1965, p. 194.

[7] Fiorentino, F., Temi di filosofia aristotelico-tomista. Vol. II. Etica, bioetica e politica, EDI, Napoli, 2009, p. 280.

[8] Ibidem.

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