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Luigi Taparelli D’Azeglio, fratello di Massimo e Roberto, senatori del Regno d’Italia e sostenitori della causa nazionale risorgimentale, fu un gesuita, intellettuale e pubblicista, autore di una delle più importanti riflessioni filosofiche, in ambito cattolico, sullo Stato e il diritto durante l’Ottocento.

Fu uno strenuo propugnatore della restaurazione degli studi tomisti nell’ambito della formazione accademica e quale strumento di decostruzione dei fondamenti teorici dello Stato moderno, liberale e socialista. Fu un anticipatore dei concetti di sussidiarietà, solidarietà e giustizia sociale, poi divenuti centrali nel lessico della Dottrina sociale della Chiesa.

1. Quarto degli otto figli di Cesare e della contessa Cristina Morozzo di Bianzé, Prospero Taparelli D’Azeglio nasce a Torino il 24 novembre 1793. Dopo aver preso parte ad un corso di esercizi spirituali ignaziani, abbandona gli studi all’École spéciale militaire de Saint-Cyr di Parigi ed entra nel Seminario torinese, per poi approdare a Roma nel noviziato dei Gesuiti, a Sant’Andrea del Quirinale. Ordinato sacerdote il 25 marzo 1820 dallo zio, cardinale Giuseppe Morozzo della Rocca, vescovo di Novara, si dedica allo studio di Tommaso d’Aquino e ottiene a Palermo la cattedra di Diritto naturale. Per diversi anni è rettore dell’Università Gregoriana, dove avvia la rinascita curriculare della filosofia scolastica.

Accesa la sua critica al liberalismo filosofico-politico, si schiera contro lo Stato moderno, che sembra subordinare sistematicamente la vita sociale alla legge civile, in ossequio ai dettami propri del protestantesimo e del positivismo. Sarà l’unico dei D’Azeglio (i fratelli Massimo e Roberto saranno senatori del Regno d’Italia) a contrapporsi instancabilmente alla causa nazionale risorgimentale. A scatenare la prima frizione in famiglia sarà, nel 1846, la dura condanna da parte di Luigi di un opuscolo a firma di Massimo, Gli ultimi casi di Romagna, inneggiante all’insurrezione contro il potere costituito. Le divergenze si acuiranno l’anno dopo, con la pubblicazione da parte del gesuita dello scritto Nazionalità, letto come un contributo inneggiante alla presenza dell’Austria sul suolo della Penisola. 

Saranno i moti del 1848 a riavvicinare, almeno temporaneamente, i tre fratelli D’Azeglio: Luigi si troverà assieme ai confratelli gesuiti nel gennaio di quell’anno a Palermo a solidarizzare con gli insorti contro il potere borbonico. Ma la fondazione, per volere di Pio IX, della rivista della Compagnia, La Civiltà Cattolica, segnerà il vero spartiacque tra i fratelli D’Azeglio. Dalle colonne del prestigioso quindicinale, di cui era diventato direttore, Taparelli si scaglierà, con circa 200 articoli scritti nell’arco di 20 anni, contro gli eccessi del liberalismo e non esiterà a condannare pubblicamente il fratello Massimo, allora Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna, per aver sostenuto le leggi Siccardi, che, come noto, abolivano il foro ecclesiastico e procuravano l’incameramento dei beni ecclesiastici. Muore a Roma il 21 settembre 1862. Il suo pensiero influenzerà le encicliche Aeterni Patris (1879) e Rerum novarum (1891) di Leone XIII. La sua opera principale è il Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto (1843).

2. Va dato atto in primis del ruolo cruciale che ebbe la “conversione” del Taparelli al tomismo, avvenuta a partire dal 1825 e motivata alla luce della ormai inarginabile confusione metafisica in atto, pericolosa tanto per la teologia, quanto per la morale[1]. Taparelli sosteneva che l’abbandono dell’ilemorfismo aristotelico iniziato con la riflessione cartesiana aveva avuto un costo culturale altissimo. A differenza delle scienze naturali, dove la diversità di opinioni non ha alcun effetto sulle leggi regolanti il corso della natura, assunti metafisici erronei avevano invece generato un’influenza diretta sulla direzione delle volontà dei singoli, portando a un disordine capace di investire e traviare l’intera società.

Da qui le sue proposte per il curriculum studiorum del Collegio di Palermo che dirigeva, presentate all’inizio dell’anno accademico 1827-1828 e volte a sostenere un ritorno alla metafisica della Scolastica, come antidoto all’influenza corrosiva del dubbio iperbolico cartesiano sul sano ragionamento. Fu proprio la complessità e l’urgenza di queste situazioni critiche che portarono Taparelli già nel 1847 ad implorare il lancio di quel tipo di rivista che la Civiltà Cattolica sarebbe divenuta nel 1850, una organo che potesse propiziare il ritorno delle questioni inerenti al fondamento della legge naturale al centro dei dibattitti tra gli ideologi dello spirito eterodosso-liberale e socialista[2].

3. L’opera principale di Taparelli, il “Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto”[3], risultò dalle sue responsabilità al Collegio Massimo di Palermo. In qualità di titolare dell’insegnamento di Diritto naturale, si trovò ben presto dinanzi alla difficoltà di trovare un testo che non contenesse dottrine fuorvianti e pericolose. Dopo aver trascorso il primo anno a confutare le opere di Pufendorf, Grozio, Hobbes, Locke e Rousseau, si sentì obbligato a raccogliere le riflessioni critiche fin lì svolte in un trattato sistematico che fu realizzato tra il 1840 e il 1843. Taparelli si imbarcò in questo progetto, forte della convinzione che l’idealismo tedesco e l’eclettismo francese fossero riusciti a minare alla base l’empirismo lockiano e avevano con ciò reso possibile la ricostruzione della metafisica e del diritto naturale.

Taparelli considerò all’uopo l’opera dell’Aquinate e della successiva Scolastica come il riferimento teoretico obbligato per la sua speculazione, mirante nel complesso a superare definitivamente la frattura tra ragionamento teorico e pratico, che secondo lui aveva macchiato la teoria sociale e politica del XVIII secolo. La scienza del diritto naturale aveva bisogno di una ristrutturazione ab imis, dacché lo sviluppo storico della sua teorizzazione aveva portato a dividere l’aspetto etico o morale del diritto dal dato giuridico strettamente positivo. Il problema era sorto da quello che lui chiamava lo “spirito eterodosso” che, attribuendo piena libertà alla coscienza individuale, minava l’unità del diritto nella società[4]. Come conseguenza di questa scissione tra etica e diritto, sosteneva Taparelli, i governanti non si preoccupavano più di questioni di filosofia morale, né di questioni di virtù pubblica o privata. Il popolo poi, da parte sua, aveva finito col seguire siffatta impostazione, giungendo a considerare prioritari gli interessi privati rispetto alla moralità pubblica. In questo modo, il discorso sui diritti e i doveri si era ridotto al mero esercizio della volontà sovrana ordinatrice e al calcolo degli interessi personali.

4. La sua intenzione profondamente tomista era quella di fondere un approccio teorico deduttivo con un approccio storico-sociologico induttivo in un metodo dialettico che avrebbe costituito la base di una moderna scienza della società e della politica. Il suo metodo non implicava affatto un rifiuto della scienza positiva, né dell’empirismo o del ragionamento induttivo, ma riconosceva piuttosto che tanto il metodo scientifico quanto lo sviluppo del diritto naturale scolastico dipendevano necessariamente dalla “scienza prima”, quella dell’Essere considerato in sé, o Metafisica. Quando Taparelli dichiarava, un decennio dopo il Saggio, che «ogni buona teoria deve, non solo nella sua applicazione, accordarsi con i fatti, ma soprattutto partire dai fatti e poggiare saldamente su di essi», egli stava in realtà definendo il suo assunto filosofico centrale, secondo cui esiste una posizione scientifica e filosofica che può conciliare le riduzioni materialiste e idealiste della realtà in un modello di che si ispira tanto ad Aristotele quanto alla Scolastica, in particolare a San Tommaso. Taparelli credeva cioè di trovare nella Scolastica un metodo scientifico che potesse integrare i progressi delle scienze sociali e aiutare a risolvere le crisi sociali e politiche del suo tempo.

5. Quanto all’analisi dei fondamenti della sua teoria politica, va detto che Taparelli inizia dal considerare le relazioni naturali tra la miriade di associazioni che gli esseri umani tendono a formare spontaneamente e che vanno dalla famiglia allo Stato e oltre. Egli raggruppa le relazioni normate tra tali enti sotto il titolo di “diritto ipotattico”. Le società relativamente più piccole sono chiamate “deutarchie” o “secondarie”, mentre le società relativamente più grandi, relativamente più perfette e autonome, incarnate dagli Stati nazionali, sono “protarchie” o società “primarie”. Al di là dello Stato nazionale, vi è poi l’associazione, o fratellanza, di popoli indipendenti, chiamata “etnarchia”. I termini protarca, deutarca e etnarca designavano il detentore dell’autorità, il “superiore” o governo, in queste diverse società. La scelta della parola ipotattico, è presa in prestito dalle regole della grammatica greca, dove l’ipotassi sta a normare, appunto, le modalità di coordinazione delle diverse proposizioni all’interno del periodo. Da qui l’idea del diritto ipotattico, ovvero, di quegli ordinamenti idonei a disciplinare le prerogative proprie dei differenti gruppi sociali nelle loro giuste relazioni, in vista del conseguimento del bene comune.

6. I concetti che egli elabora a questo proposito hanno trovato il loro posto, anche se indirettamente e imperfettamente, nella Dottrina sociale della Chiesa, che ha all’uopo messo a punto il noto principio di “sussidiarietà”, usato per la prima volta esplicitamente da Pio XI nell’enciclica sociale Quadragesimo Anno. Il greco hypo taxis può essere reso direttamente in latino come sub sedeo. L’espressione latina subsidia si usava per indicare le truppe ausiliarie operanti all’interno della legione romana, in quanto “sedevano in basso”, pronte in riserva per sostenere le avanguardie militari durante la battaglia. Mentre Taparelli usa la legione come analogia per la società in vari contesti, i diritti e i doveri che derivano dalle leggi della sussidiarietà variano secondo una serie di considerazioni storiche, oltre che di diritti e obblighi concorrenti. Così, per Taparelli, il dritto ipotattico è il corpo di principi per valutare, in circostanze concrete e particolari, il giusto rapporto tra autorità e sudditi, tra ordine normativo e libertà agente a livello sociale, ed è alla base della sua definizione di giustizia sociale nell’organizzazione e nel perfezionamento della società civile, della società politica e della società internazionale.

7. Ogni associazione all’interno della gerarchia sociale ha i suoi propri fini, la sua propria autorità (relativa alle condizioni concrete della formazione sociale), i propri principi d’azione e quindi un proprio essere e diritti propri[5]. La necessità e il diritto culminano nel dovere morale di associarsi con gli altri per la realizzazione del bene umano comune. Nel descrivere questo dovere morale, egli accetta la rubrica della socialità, presa da Pufendorf attraverso Burlamacchi, ma non la radica nell’egoismo animale istintivo, piuttosto in una corretta comprensione del bene comune, che, sia nella sua dimensione materiale che in quella soprannaturale, ci obbliga a cercare il bene degli altri.

La definizione di socialità di Taparelli è dunque un’anticipazione del principio di “solidarietà” nella successiva dottrina sociale cattolica. Una corretta sfera di libertà delle autorità sussidiarie poi, anche nel loro orientamento verso il perseguimento del bene comune, è la conditio sine qua non per la salute dell’intero corpo sociale, poiché le autorità inferiori sono i mezzi indispensabili per il perseguimento di tale bene da parte dell’autorità superiore. I diritti delle società inferiori sono fondati dunque non solo su considerazioni astratte di diritto naturale, ma anche su considerazioni concrete di utilità o efficienza, così apprestando un ulteriore metodo di valutazione pratica per questioni di giustizia sociale e di prudenza[6]. Anche la libertà dei singoli è accresciuta dalle giuste protezioni dei loro diritti naturali da parte della società più grande e perfetta (ST, 709).

8. Seguendo i principi della socialità – o solidarietà – e dell’ipotattica – o sussidiarietà, la libertà e la perfezione degli individui è proporzionalmente migliorata, nella visione di Taparelli, con l’integrazione in comunità umane sempre più grandi, anzi fino all’eventuale società globale dei popoli, la democratica etnarchia, (ST, 714; CE, 120, II) che egli prevedeva come il compimento delle leggi immutabili della natura. Per la straordinaria modernità del suo pensiero, in tema di diritto tra le nazioni, Taparelli è stato a ragione, sul finire degli anni Venti, considerato come il «precursore della Società delle Nazioni» – se pur non con le modalità deludenti nelle quali essa ha trovato realizzazione -, proprio in ragion della sua idea di un’autorità universale che avesse il ruolo di tribunale e di arbitrio supremo e che potesse proteggere ogni nazione dalle ingiuste minacce esterne.

Antonio Casciano


[1] «La Filosofia nello assegnarci le cause dell’essere ed operazioni dell’Uomo, dee necessariamente attribuirle o all’anima sola o al corpo solo, o ad entrambi in quanto congiunte. La filosofia cartesiana attribuisce tutta l’azione corporea al corpo solo, l’azione animata all’anima», così Taparelli, oggi in Archivio della Civiltà cattolica, T. sc. 8, n3.

[2] La Civiltà Cattolica» esce per la prima volta a Napoli il 6 aprile 1850. Primo direttore è padre Carlo Maria Curci, ma a volerla è soprattutto Pio IX, in quel momento esule nella fortezza di Gaeta nel Regno delle due Sicilie dei Borboni. I gesuiti, accusati storicamente di intrighi politici, erano stati riluttanti a entrare apertamente nella combutta tra il liberalismo e il socialismo in difesa dei valori cattolici, ma i traumatici eventi del 1848 convinsero Pio IX ad appoggiare la rivista. Taparelli, già a quel tempo un esperto affermato di diritto naturale, era una scelta ovvia per dirigere, insieme a Carlo Maria Curci, il progetto. I superiori dei gesuiti – con il preposito generale Joannes Philippe Roothaan – avrebbero voluto una rivista in latino, ma Curci si batté per l’italiano. L’idea che spinse alla fondazione era quella di difendere «la civiltà cattolica» minacciata dai nemici della Chiesa, in particolare i liberali e i massoni, che ispiravano il Risorgimento italiano. Curci scriverà sul primo numero: «Condurre l’idea e il movimento della civiltà a quel concetto cattolico da cui sembra da tre secoli avere fatto divorzio».

[3] Il Saggio fu ben accolto dai superiori della Compagnia e fu attivamente promosso, ottenendo una diffusione e un’influenza relativamente ampia in un breve tempo. Subì diverse edizioni e fu tradotto in tedesco, francese, e spagnolo (in quest’ordine) entro il 1860.

[4] «Livellare e cancellare ogni antica memoria delle province, delle città, degli Stati: ecco qual fu la smania dello spirito rivoluzionario ovunque allignò», così Taparelli, ST, 695.

[5] «Ogni consorzio deve conservare la propria unità in modo da non perdere la unità del tutto; ed ogni società maggiore provvede alla unità del tutto senza distruggere l’unità dei consorzi», così Taparelli, ST, 694.

[6] Georges Minois, La Chiesa e la guerra. Dalla Bibbia all’èra atomica, Bari, Dedalo, 2003, p. 493.

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