Il film “Gli Spiriti dell’Isola” racconta la rottura dell’amicizia tra Colm e Pádraic, che sconvolge l’equilibrio dell’isola di Inisherin e diventa un’allegoria della guerra civile irlandese del primo Novecento. Il conflitto, che opponeva coloro che sostenevano il trattato con la Gran Bretagna a quelli che volevano l’indipendenza completa dell’Irlanda, aveva diviso persino gli amici che avevano combattuto insieme. Il film si interroga sulla follia della guerra e sulla possibilità di ricostruire i legami fraterni spezzati dalla violenza. In questo contesto, l’immagine poetica delle dita tagliate diventa un simbolo potente della frattura tra Colm e Pádraic, ma anche dell’umanità che viene mutilata dalle guerre. Il film, pur ambientato in un’epoca storica precisa, ha una straordinaria attualità perché ci parla di un problema universale: la violenza che divide e distrugge le comunità.
Siamo nel 1923, sull’immaginaria isola di Inisherin (letteralmente «isola irlandese») al largo della costa occidentale dell’Irlanda.
Il mansueto allevatore Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell) rimane sconvolto quando scopre che il suo migliore amico, l’inquieto Colm Doherty (Brendan Gleeson), ha deciso, di punto in bianco, di non volerne più sapere di lui. La motivazione: perché lo reputa noioso.
Pádraic, confuso e devastato, tenta goffamente di ricucire un rapporto intorno al quale gira praticamente tutta la sua vita, ma Colm è irremovibile perché vuole dedicare la sua vita ad altro rispetto alle loro chiacchierate.
In particolare, alla musica, sua grande passione che coltiva suonando (e insegnando) violino. A nulla servono i tentativi di rappacificazione da parte di Siobhan (KerryCondon), sorella di Pádraic, e di Dominic (Barry Keoghan), ragazzo semplice e figlio del poliziotto del villaggio.
La decisione, apparentemente insignificante, propaga in realtà il caos nella piccola comunità, in particolare quando Colm decide di minacciare Pádraic con uno scioccante ultimatum: ogni volta che lo infastidirà o proverà anche solo a parlargli, si taglierà un dito dalla mano con la quale suona il violino.
Naturalmente Gli Spiriti dell’Isola è molto di più di un dramma sul senso dell’amicizia tradita. Piuttosto, è una metafora sulla genesi del conflitto, dove La guerra civile irlandese è infatti lo sfondo, è ben visibile, si vede e si sente dall’isola, eppure non spaventa i concittadini del piccolo villaggio che proseguono nelle loro vite normalmente. Però non può sfuggire il parallelismo tra la lotta sfrenata e totalmente autodistruttiva dei due amici e il conflitto tra popoli della stessa nazione che combattono una guerra di altri.
«Perché sta succedendo? Non era meglio quando combattevamo insieme?» si chiedono due astanti del pub di Inisherin mentre leggono un quotidiano con le ultime notizie dall’Irlanda trucidata dal conflitto.
La rottura tra Colm e Pádraic, tanto improvvisa quanto irrazionale, mette in scena proprio questa insensatezza che divide chi aveva un legame apparentemente insolubile.
Dagli inizi il pensiero umano riflette sul significato della violenza collettiva, in particolare della sua forma estrema, la guerra. La Bibbia scopre il problema della violenza fisica già nella famiglia di Adamo, quasi a far toccare con mano l’immediato risultato del Peccato. Caino che ruota nei meandri del mondo con il “segno” indelebile della sua colpa è seme generatore di ripetuta violenza e distruzione.
La riflessione sulla cosa pubblica, e sulla violenza dello stato, come fatti diversi dalla semplice espressione personale di violenza, appartiene ad epoca successiva.
Eraclito (580 – 480 a.C. circa) riconosce alla guerra valore cosmico e funzione dominante nell’economia dell’universo, definendola “madre e regina di tutte le cose”. Sembra la constatazione di quanto prepotenza e aggressività potessero in un mondo ancora svincolato dalla morsa dei trattati internazionali, consegnato quasi soltanto al rispetto o alla violazione della legge naturale, tanto che in altro frammento il filosofo di Efeso grida come non sempre forza e giustizia coincidano: tra “guerra e giustizia è contrasto”. [1]
Per la protocristianità “bellare semper illicitum est”, talmente distante è la carneficina tra umani dal messaggio evangelico di amore universale.
Sarà Agostino di Ippona a riportare la guerra dentro le categorie della necessità immanente, riconoscendole la possibilità di inserirsi nell’ordine provvidenziale fissato da Dio, e ipotizzando la liceità dell’azione bellica.
Il completamento di quest’impostazione di metodo appartiene a Tommaso d’Aquino, che elabora la dottrina della “guerra giusta”, discriminando tra guerre lecite e illecite.
Nel giusnaturalismo secentesco la questione della guerra trova la massima collocazione all’interno del pensiero di Huig van Groot, in particolare con il fondamentale “De iure pacis ac belli” (1625).
È da Hugo Grotius e dal suo richiamo al diritto naturale, che molte teorie sulla guerra troveranno alimento. Ampliando la lezione dell’Aquinate, il piglio giuridico di Grotius incasella una per una le “giuste cause” di guerra, ma sopratutto evidenzia come questa non sia che l’ultimo strumento adottabile per trovare risposta a problemi “naturali” irrisolti a causa dell’incapacità all’autoregolazione da parte della società internazionale.
Figlio dello stesso secolo, Hobbes porta all’estremo il raffronto tra società di natura e società costituita, attribuendo alla prima lo stato di guerra permanente, alla seconda la civilizzazione e la “pacificazione” derivate dalle leggi e regole adottate nel percorso di uscita dallo stato di natura.
Con la società contemporanea, lo Stato diventa detentore esclusivo della violenza legittima nella sfera degli affari interni. Strumento privilegiato dell’esercizio della violenza legittima interna sono le polizie, di quella esterna le forze armate. Gli eserciti si trasformano, con le bandiere e l’inno nazionale, in elemento identificativo degli stati nazione dei secoli XIX e XX.
Dopo l’orrore dei due conflitti mondiali si diffusero in Europa e in America una cultura di massa pacifista dovuta anche al terrore di una guerra nucleare difficile da legittimare e che relegarono il concetto di guerra giusta ai conflitti di resistenza contro le rivolte nei residui imperi coloniali.
L’ondata pacifista fu sostenuta dall’appello e dallo schieramento di molti intellettuali e filosofi a favore della pace e contro il pericolo atomico, come fece Bertrand Russel nel 1959 col suo saggio Il senso comune e la guerra atomica. La sua protesta e il suo impegno civile contro la guerra fu la causa del suo arresto nel 1961 all’età di 88 anni a Londra durante una manifestazione contro la guerra atomica. Anche Norberto Bobbio prese posizione in un saggio del 1966, Il problema della guerra e le vie della pace, contro ogni giustificazione della guerra attraverso la ricerca ad oltranza di alternative alla guerra e per un pacifismo attivo che potesse fondare le sue prospettive sui principi della non-violenza positiva, simile a quella di Ghandi oltre che nei principi fondamentali della democrazia.
Dopo la fine della guerra fredda e il tramonto dell’equilibrio bipolare USA-URSS nel mondo, la nascita del terrorismo e l’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, ridiede un nuovo impulso alla rinascita della teoria della guerra giusta. In questo contesto ripresero quota la tesi di un esponente del realismo politico e intellettuale americano come Michael Walzer che già nel 1977 scrisse un saggio, Guerre giuste e ingiuste, che prendeva spunto dalla sua riflessione sulla guerra del Vietnam.
In questo saggio Walzer sosteneva il concetto della guerra giusta che avrebbe dovuto essere combattuta solo per propria autodifesa o in difesa di altri stati, con un principio centrale che i civili non avrebbero mai dovuto essere oggetto di attacchi militari ed essere preservati dagli effetti dei combattimenti.
Una logica di principio sempre negata dai terroristi le cui azioni, al contrario, tuttora prendono di mira principalmente obiettivi civili. Riprendendo la sua teoria critica della guerra giusta, Walzer entra nel merito dei conflitti a lui contemporanei per sostenere il principio dell’emergenza suprema che fa i conti con la giustizia e il superamento dei limiti oltre cui intervenire.
Egli inoltre pone un forte richiamo ai diritti umani per cui è lecito intervenire quando vi è una aperta violazione della legalità come nella Guerra del Golfo del 1991, in Kosovo nel 1999, o in Iraq nel 2003, ribadendo anche la posizione sul doppio effetto di una guerra giusta che può giustificare i “danni collaterali” ai civili quando questi non sono voluti e non sono sproporzionati rispetto al valore dell’obiettivo.
La morale che Walzer vuole sostenere è, nella sua forma filosofica, una dottrina dei diritti umani che arriva a giustificare con l’etica dell’emergenza anche gli interventi e la guerra preventiva contro il terrorismo (contro il principio della carta dell’ONU che non giustifica gli interventi preventivi).
Questa posizione di Walzer porta a un rinnovato concetto della guerra giusta al terrorismo, in cui l’uso intenzionale della forza militare diventa non solo moralmente giustificabile ma addirittura un dovere etico e giuridico che va oltre le ipotesi previste dalla Carta delle Nazioni Unite e che vedrà dare legittimità al conflitto afghano contro i talebani nell’ottobre del 2001 e in Siria, Iraq nel 2014 contro lo stato islamico jiadhista dell’ISIS (Islamic State of Iraq and al-Shām).
Anche il filosofo americano John Rawls, teorico del neo-contrattualismo politico, diede il suo contributo al sostegno della guerra giusta col suo saggio del 1999, Il diritto dei popoli, che si fonda su un’idea liberale di giustizia ideale in un mondo in cui i cittadini e i popoli potrebbero vivere in pace.
Rawls, infatti, sostiene una concezione della giustizia a fondamento delle norme e dei principi della politica internazionale che si pone contro uno stato che viola i diritti umani e il diritto naturale e giuridico dei popoli democratici. Secondo Rawls, infatti, i popoli liberali sono tenuti a non tollerare gli stati “fuorilegge” e ad intervenire con la forza quando questi rappresentino una minaccia per le istituzioni e per gli individui nelle loro libertà fondamentali di popoli liberali, anche nei casi di quando le sanzioni nei loro confronti non si dimostrino sufficienti al ripristino di tali diritti.
La suprema emergenza o l’eccezionalità del male diventa quindi un criterio morale decisivo per l’intervento militare per ripristinare il bene e il diritto violato e per rappresentare anche un motivo di dissuasione e punizione dei criminali. Tuttavia, nel mondo contemporaneo, il ricorso ai principi della guerra giusta ha spesso dato l’illusione di poter combattere contro quei regimi che negano i più elementari diritti umani come il fondamentalismo islamico o altre dittature come quella libica di Gheddafi, senza però risolverli alla radice.
Gli interventi per affermare il potere della superiorità culturale dei valori dell’occidente e per ripristinare le libertà delle popolazioni oppresse, anziché portare a una pace duratura hanno spesso innescato un processo di guerra permanente e condotto a una stagione politica fondata sull’odio e sulla rappresaglia. Il discusso principio ideologico e morale della guerra giusta sembra ancora lontano dalla sua teoria di una applicazione efficace nella risoluzione dei conflitti.[2]
Daniele Onori
[1] N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, Utet, 1971, p. 446,
[2] cfr C. Mariani, Alcune teorie della guerra giusta e ingiusta, in losbuffo.com