1. Col provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate del 10 giugno 2020, dallo scorso 15 giugno gli aventi diritto possono chiedere il contributo a fondo perduto previsto dall’art. 25 del decreto legge 19 maggio 2020 n. 34 (c.d. “decreto rilancio”) a favore delle imprese e delle partite Iva colpite dalle conseguenze economiche del lockdown. Come è noto, il beneficio consiste nella possibilità di ricevere una somma di denaro, pari a una percentuale calcolata sulla differenza fra il fatturato ed i corrispettivi del mese di aprile 2020 e il valore corrispondente del mese di aprile 2019. Per beneficiare del contributo devono essere soddisfatti due requisiti: il primo consiste nell’aver conseguito nel 2019 ricavi o compensi non superiori a 5 milioni di euro; il secondo è che l’ammontare del fatturato e dei corrispettivi del mese di aprile 2020 sia inferiore ai due terzi dell’analogo ammontare del mese di aprile 2019. Con due eccezioni: il primo relativo al soggetto interessato che abbia avviato la propria attività a partire dal 1° gennaio 2019 (il contributo spetta a prescindere dal calo del fatturato); il secondo relativo ai soggetti con domicilio fiscale o sede operativa situati nel territorio di Comuni colpiti da eventi calamitosi (sisma, alluvione, crollo strutturale), ancora in emergenza al 31 gennaio 2020 (dichiarazione dello stato di emergenza da Coronavirus).
Diversamente da quanto era parso di capire nella conferenza stampa di presentazione di un provvedimento che in quel momento in realtà era ancora da completare, dal novero dei possibili beneficiari, l’art. 25 del D.L. ha escluso, a sorpresa, i professionisti iscritti agli enti di diritto privato di previdenza obbligatoria. Chiesto della motivazione di questa esclusione, il ministro dell’Economia e delle Finanze ha affermato che “i professionisti non sono imprese”. La risposta ha provocato proteste da parte degli esclusi e creato non poche polemiche: oltre a non trovare fondamento nel sistema delle norme disciplinanti le attività economiche, l’esclusione appare iniqua e discriminatoria.
2. Il ministro dell’Economia non ignorerà che dal 2003 (Raccomandazione 6 maggio 2003, n. 2003/361/CE) la Commissione Europea ha equiparato dal punto di vista della normativa economico/tributaria i liberi professionisti alle imprese (Si considera impresa ogni entità, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, che eserciti un’attività economica. In particolare sono considerate tali le entità che esercitano un’attività artigianale o altre attività a titolo individuale o familiare, le società di persone o le associazioni che esercitino un’attività economica). Non ignorerà che i liberi professionisti nel nostro paese sono sostanzialmente assoggettati alla normativa fiscale prevista per le PMI, in conseguenza della quale, tra le altre cose e solo per fare un esempio, sono soggetti a un’imposta, l’IRAP-imposta regionale sulle attività produttive, che non avrebbe ragion d’essere se fossero qualcosa di diverso. Noti a tutti, inoltre, sono i numerosi provvedimenti legislativi che, soprattutto nel corso degli ultimi 15 anni, nell’ottica di un astratto ed utopico concetto di libera concorrenza e di sfrenato liberismo all’interno del processo di globalizzazione, hanno introdotto nel nostro ordinamento, senza alcun disegno organico, istituti tipici dei sistemi di common law, cercando di assimilare il più possibile libera professione e impresa, ed eliminando prerogative e tutele da sempre poste a presidio dell’interesse collettivo: con la conseguenza di dar vita ad un sistema contorto nel quale, solo per fare un esempio, i professionisti sono soggetti al controllo del proprio ordine professionale, e al tempo stesso dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
3. Oltre ad essere priva di fondamento e smentita dalla legislazione vigente, l’affermazione del ministro (e a monte di questa la relativa norma del D.L. Rilancio) risulta discriminatoria e addirittura offensiva nei confronti di una categoria di operatori su cui lo Stato, abusando del principio di sussidiarietà e nello stesso momento in cui ne riduce le prerogative e le peculiarità, continua a riversare incombenze e responsabilità che sarebbero proprie della Pubblica Amministrazione e dei suoi uffici, ricordandosene solo al momento delle scadenze fiscali, quando deve riscuotere.
I liberi professionisti in Italia sono circa 2 milioni, rappresentano più del 6% degli occupati, danno lavoro a quasi 500.000 persone e producono oltre il 12% del PIL. A fronte di questo, del concreto contributo fornito giornalmente rispondendo in proprio, la considerazione che ricevono è nulla, come conferma che non siano nemmeno compresi tra le “parti sociali” che periodicamente il governo convoca quando sta per adottare provvedimenti in campo economico, sociale e tributario.
4. Eppure, nonostante tutto, i liberi professionisti il loro contributo al Paese continuano a darlo e lo hanno dato con coscienza e responsabilità anche durante la fase dell’emergenza e del lockdown. Molti sono rimasti forzatamente chiusi, con le conseguenti negative ricadute economiche, e nei confronti di questi non si capisce pertanto perché non dovrebbero essere previsti gli stessi aiuti destinati agli altri operatori economici che si sono trovati nella medesima condizione. Altri sono stati considerati (in quel momento evidentemente servivano) servizi essenziali, e hanno dovuto continuare a fornire, con tutte le difficoltà, le preoccupazioni e le incombenze del caso, la propria prestazione, offrendo un servizio prezioso a favore dei cittadini e delle imprese. Potremmo citare, tra gli altri, gli operatori del settore sanitario (molti hanno perso la vita), gli avvocati, che si sono dovuti destreggiare nella tutela dei propri clienti in una situazione di totale paralisi della giustizia, i commercialisti e consulenti del lavoro (senza i quali sarebbe stato impossibile destreggiarsi nella intricata marea di disposizioni di carattere fiscale, contributivo, previdenziale che hanno caratterizzato questo periodo), i notai (obbligati per legge in quanto pubblici ufficiali ad essere reperibili presso la sede per prestare il proprio ufficio quando richiesto dai cittadini), ed insieme a questi molti altri uomini e donne che con spirito di sacrificio hanno risposto “presente” alla richiesta pervenuta dallo Stato. Uno Stato che, ancora una volta, ha poi confermato di considerarli soltanto pecore da tosare.
Angelo Sergio Vianello
notaio