fbpx

La patente europea di genitore vanifica la giurisdizione nazionale e travolge l’interesse del minore.
Audizione del prof. Emanuele Bilotti, dell’Università Europea di Roma, innanzi alla Quarta Commissione permanente “Politiche dell’Unione Europea”, in data 20 febbraio 2023 COM (2022) 695. Titolo e sottotitolo sono redazionali.

PREMESSA

1. – La proposta di regolamento in esame, come risulta con chiarezza anche dalla sua intitolazione, presenta due contenuti distinti.

Anzitutto, nelle norme contenute nei capi I-V, è articolata una proposta di armonizzazione del diritto internazionale privato e processuale in materia di filiazione. Si tratta, più precisamente, (a) di norme che delimitano la giurisdizione dei giudici degli Stati membri sulle questioni inerenti alla filiazione, individuando i titoli di giurisdizione; (b) di regole sui conflitti di leggi, e dunque di regole che designano la legge applicabile all’accertamento della filiazione secondo la tradizionale tecnica dell’individuazione di criteri di collegamento tra il rapporto giuridico considerato e l’ordinamento giuridico di uno Stato; (c) infine, di regole volte ad agevolare il riconoscimento delle decisioni giudiziarie in materia di filiazione e degli atti pubblici di accertamento della filiazione aventi effetti giuridici vincolanti, nonché l’accettazione degli atti pubblici privi di effetti giuridici vincolanti, ma che consentono comunque di provare la filiazione.

Il testo in esame prevede poi, con le regole contenute nel capo VI, l’istituzione di un certificato europeo di filiazione. Come risulta chiaramente dalla lettura del considerando n. 46, si tratta di un documento pubblico che dovrà servire a far sì che «il riconoscimento della filiazione accertata in uno Stato membro sia rapido, agevole ed efficace», in particolare consentendo ai figli o ai genitori «di dimostrare con facilità lo status proprio o dei figli rispettivamente, in un altro Stato membro».

I. LA PROPOSTA DI ARMONIZZAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO E PROCESSUALE IN MATERIA DI FILIAZIONE

2. – La proposta di armonizzazione del diritto internazionale privato e processuale in materia di filiazione sembra trovare una base giuridica adeguata nell’art. 81 TFUE.

In effetti, dalla lettura di questa norma si ricava con chiarezza che la competenza riconosciuta all’Unione in vista dello sviluppo della cooperazione giudiziaria in materia civile si realizza anche attraverso l’armonizzazione del diritto internazionale privato e processuale dei diversi Stati membri (oltre che attraverso il regolamento comune di attività strumentali allo svolgimento dei processi civili nelle fattispecie con implicazioni internazionali – notificazioni, comunicazioni di atti, assunzione di mezzi di prova… – e la previsione di misure comuni volte a garantire un “accesso effettivo alla giustizia”, “l’eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili” e “lo sviluppo di metodi alternativi per la risoluzione delle controversie”).

L’art. 81 TFUE condiziona espressamente l’adozione delle misure indicate al presupposto che siano necessarie al buon funzionamento del mercato interno. Ciò non vuol dire tuttavia che non sia possibile istituire una cooperazione giudiziaria anche nella materia del diritto di famiglia. Anzi, l’art. 81 cit. contempla espressamente una simile possibilità, con l’unica particolarità che le misure in questione devono essere deliberate dal Consiglio secondo una procedura legislativa speciale.

In effetti, anche le misure relative al diritto di famiglia, non diversamente da quelle relative al diritto delle persone e al diritto delle successioni, sono considerate idonee a favorire la libera circolazione delle persone. E ciò perché certe misure accrescono la certezza del diritto nei rapporti transfrontalieri e consentono agli individui di confidare nel riconoscimento dei diritti e degli status acquisiti in uno Stato membro anche negli altri Stati membri.

3. – Le regole uniformi di diritto internazionale privato e processuale contenute nel testo in esame non escludono l’operatività del limite dell’ordine pubblico. E ciò sia con riferimento alla legge applicabile (art. 22) sia con riferimento al riconoscimento delle decisioni giudiziarie (art. 31, par. 1, lett. a) e degli atti pubblici di accertamento della filiazione con effetti giuridici vincolanti (art. 39, par. 1, lett. a) sia, infine, con riferimento all’accettazione degli atti pubblici privi di effetti giuridici vincolanti, ma aventi comunque efficacia probatoria della filiazione (art. 45, par. 1).

Non sembra peraltro che la formulazione di certe regole possa incidere in maniera determinante sul modo in cui il limite dell’ordine pubblico è utilizzato dalla giurisprudenza italiana in particolare al fine di escludere il riconoscimento in Italia dell’accertamento estero di una “genitorialità” puramente intenzionale in caso di ricorso alla pratica degradante della maternità surrogata.

In effetti, non sembra anzitutto destare preoccupazione l’espressa precisazione secondo cui, nel valutare la manifesta contrarietà all’ordine pubblico di una sentenza o di un atto estero, si deve tener conto dell’interesse dei figli (art. 31 e art. 39 citt.).

Anche la Suprema Corte, infatti, nel ribadire che il divieto di maternità surrogata costituisce un principio di ordine pubblico e che l’accertamento estero della “genitorialità” puramente intenzionale di uno dei committenti non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento, ha chiarito che il “principio del preminente interesse del minore” costituisce uno dei “limiti non oltrepassabili” rispetto ai quali valutare la compatibilità degli effetti prodotti dall’atto estero di cui si chiede il riconoscimento in Italia (Cass. S.U., n. 38126/2022, motivi della decisione, par. 15). Anche per la nostra giurisprudenza, in altri termini, il principio del preminente interesse del minore non è affatto estraneo alla valutazione di compatibilità dell’atto straniero con l’ordine pubblico.

Considerazione analoghe valgono poi anche per la precisazione secondo cui, nell’applicazione di una legge straniera (che può essere anche la legge di uno Stato terzo), il limite della manifesta incompatibilità con l’ordine pubblico del foro deve pur sempre operare «nel rispetto dei diritti fondamentali e dei principi riconosciuti dalla Carta, in particolare l’articoli 21 sul principio di non discriminazione» (art. 22, par. 2).

Sempre la Suprema Corte, infatti, ha ritenuto senz’altro la contrarietà all’ordine pubblico dell’accertamento estero di una “genitorialità” puramente intenzionale rispetto al nato da madre surrogata, pur contemplando espressamente tra i “limiti non oltrepassabili” che danno corpo alla valutazione di compatibilità con l’ordine pubblico anche il “principio di non discriminazione” («rivolto – dice la Suprema Corte – sia a non determinare ingiustificate disparità di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all’identità ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonché relazionale, sia a non limitare la genitorialità esclusivamente sulla base dell’orientamento sessuale della coppia richiedente»; cfr. Cass., S.U., n. 38126/2022, loc. cit.).

4. – La proposta di un’armonizzazione del diritto internazionale privato e processuale in materia di filiazione non sembra dunque problematica sotto il profilo del rispetto del principio di attribuzione. Quanto invece al rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità sembra opportuno rinviare alle esposizioni degli studiosi del diritto internazionale privato e del diritto dell’Unione Europea, limitandosi ad osservare che appare meritevole di attenta considerazione la compatibilità con quei principi di una selezione molto ampia di criteri di collegamento ai fini dell’individuazione della giurisdizione.

II. LA PROPOSTA DI ISTITUZIONE DI UN CERTIFICATO EUROPEO DI FILIAZIONE

5. – La proposta di istituzione di un certificato europeo di filiazione appare invece più problematica.

Infatti, laddove nel certificato europeo dovesse effettivamente riconoscersi una certificazione pubblica con funzione (anche extraprocessuale) di accertamento dello stato di filiazione (quello che gli studiosi del diritto di famiglia chiamano un “titolo dello stato”), allora le norme della proposta di regolamento che lo istituiscono difficilmente potrebbero trovare una base giuridica adeguata nell’art. 81 cit. E ciò perché non si tratterebbe né di norme uniformi di diritto internazionale privato né di regole riconducibili a uno degli altri ambiti di competenza dell’Unione nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile, già indicati supra, n. 2. Si tratterebbe piuttosto, a tutti gli effetti, di regole di diritto sostanziale.

Per valutare, dunque, se la proposta in esame sia rispettosa del principio di attribuzione anche sotto il profilo ora in esame – e cioè anche con riferimento all’istituzione di un certificato europeo di filiazione – bisogna allora chiedersi cosa sia e a cosa serva il certificato europeo di filiazione, e segnatamente se si tratti di una pubblica certificazione con funzione (anche extraprocessuale) di accertamento dello stato di figlio.

6. – Per maggior chiarezza si consideri il seguente caso.

Tizio e Caia, entrambi con cittadinanza europea, si recano in Canada per avvalersi della prestazione di una madre surrogata e realizzare così il desiderio di diventare genitori. A causa di una grave patologia Caia non potrebbe infatti portare avanti una gravidanza. È noto che in Canada è consentito il ricorso alla maternità surrogata nel rispetto di condizioni precise. In quel Paese, nel rispetto della legge del luogo, sarebbe allora possibile anche l’accertamento di una “maternità” puramente intenzionale in capo a Caia. Ebbene, si ipotizzi che, ottenuto l’accertamento della filiazione in base alla legge canadese, la coppia e il bambino si trasferiscano in Germania. Qui, come pure è noto, benché la pratica della surrogazione di maternità sia vietata, la giurisprudenza ritiene però che la disciplina interna di diritto internazionale privato – e dunque il limite dell’ordine pubblico – non impedisca il riconoscimento dell’accertamento estero di una genitorialità puramente intenzionale, sempre che la surrogazione di maternità si sia realizzata nel rispetto di determinate condizioni. Ove la proposta in questione fosse diritto dell’Unione, quindi, Tizio e Caia, una volta conseguito in Germania il riconoscimento dell’accertamento canadese, potrebbero anche ottenere dalla competente autorità tedesca il certificato europeo di filiazione. E tale certificato documenterebbe anche la “maternità” di Caia.

È da chiedersi allora quale valore avrebbe questo certificato in un ordinamento come quello italiano, che proibisce la surrogazione di maternità e che, in caso di violazione del divieto, non permette il riconoscimento dell’accertamento estero di una “genitorialità” puramente intenzionale, ma consente la formalizzazione di un simile rapporto solo a seguito di una concreta valutazione giudiziale della sua conformità al superiore interesse del minore: il certificato europeo ottenuto in Germania potrebbe forse essere utilizzato in Italia al fine di far valere o di provare lo stato di figlio del nato da madre surrogata rispetto a una donna che è “madre” solo in senso intenzionale?

7. – La risposta ad un simile interrogativo non può che fondarsi su una lettura attenta del testo della proposta. In tal senso appaiono significativi soprattutto i dati indicati di seguito.

A. L’art. 47, sotto la rubrica “scopo del certificato”, dispone che «il certificato è destinato a essere utilizzato da un figlio o da un rappresentante legale che in un altro Stato membro ha la necessità di far valere lo status di filiazione proprio o di detto figlio». A quanto pare, dunque, il certificato serve a “far valere” lo stato.

B. L’art. 53, rubricato “effetti del certificato”, dispone, al par. 1, che «il certificato produce i suoi effetti in tutti gli Stati membri senza che sia necessario ricorrere a procedimenti particolari». Al par. 2 si precisa poi che «si presume che il certificato dimostri con esattezza gli elementi accertati in base alla legge applicabile all’accertamento della filiazione» e che «si presume che la persona indicata nel certificato come figlio di uno o più genitori specifici possiede lo status indicato nel certificato». In base a questa norma l’effetto del certificato europeo sembrerebbe dunque essere quello di una presunzione di filiazione. Al par. 3 si aggiunge infine che «il certificato costituisce titolo idoneo per l’iscrizione della filiazione nel pertinente registro di uno Stato membro»; rimane comunque fermo che i requisiti legali per l’iscrizione e gli effetti della stessa devono essere quelli previsti dalla legge nazionale.

C. Merita, infine, di essere menzionato anche il considerando n. 78, secondo cui «nessuna autorità o persona davanti alla quale sia stato presentato un certificato europeo di filiazione rilasciato in un altro Stato membro dovrebbe poter chiedere la presentazione di una decisione giudiziaria o un atto pubblico al posto del certificato». Il certificato europeo sarebbe dunque sufficiente a documentare lo stato di filiazione anche in uno Stato membro diverso da quello che lo ha emesso.

8. – Si tratta di disposizioni e di affermazioni che, nel loro complesso, appaiono caratterizzate da un notevole grado di ambiguità.

A quanto pare, infatti, il certificato europeo, una volta conseguito, sembra poter essere utilizzato per far valere lo stato di filiazione in uno Stato membro diverso da quello che lo ha emesso anche a prescindere dall’iscrizione nei registri dello stato civile di quello Stato, e dunque a prescindere dal suo riconoscimento come atto straniero. Si tratta infatti di un certificato europeo e non di un atto straniero.

In tal modo il rischio di una violazione del principio di attribuzione appare però alto. È vero, infatti, che la proposta ribadisce che i requisiti legali per l’iscrizione e gli effetti della stessa sono pur sempre quelli previsti dalla legge nazionale. Ma se il certificato, in quanto certificato europeo, è destinato ad essere efficace a prescindere dall’iscrizione, davvero non si vede come il difetto di quei requisiti possa farsi valere al fine di paralizzarne l’efficacia ove il certificato sia utilizzato senza che ne sia stata chiesta l’iscrizione.

Almeno in tal caso il certificato europeo rischia allora di atteggiarsi come una certificazione pubblica con funzione di accertamento dello stato, e dunque come un vero e proprio titolo dello stato. O quanto meno come un atto avente efficacia probatoria dello stato. Tanto più che, come pure si è visto, «nessuna autorità o persona davanti alla quale sia stato presentato un certificato europeo di filiazione rilasciato in un altro Stato membro dovrebbe poter chiedere la presentazione di una decisione giudiziaria o un atto pubblico al posto del certificato».

Si comprende a questo punto quanto sia alto il rischio che, in un caso come quello ipotizzato supra, n. 6, in virtù dell’impiego del certificato europeo emesso in Germania, Caia finisca per dover essere considerata “madre” anche nell’ordinamento italiano. E ciò a prescindere da qualsiasi verifica giudiziale della concreta conformità al superiore interesse del minore della formalizzazione di un simile rapporto genitoriale, come richiede invece la Suprema Corte con orientamento ormai consolidato (cfr. Cass. S.U., n. 38126/2022).

9. – Si potrebbe invero osservare – anche se ciò non risulta con chiarezza né dal testo della proposta né dalla relazione che lo precede – che il certificato europeo di filiazione dovrebbe servire a far valere lo stato di figlio all’unico fine di permettere l’esercizio dei diritti di libera circolazione e soggiorno garantiti a tutti i cittadini europei dagli artt. 20 e 21 TFUE.

È noto, in effetti, che la Corte di Lussemburgo ritiene contrario ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta di Nizza – e segnatamente agli artt. 7 e 24 CDFUE, relativi, rispettivamente, al diritto al rispetto della vita privata e familiare e ai diritti del minore – «privare un minore del rapporto con uno dei suoi genitori nell’ambito dell’esercizio del suo diritto di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri e rendergli de facto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di tale diritto per il fatto che i suoi genitori sono dello stesso sesso» ovvero, più in generale (e più correttamente), per il fatto che la nascita sia avvenuta a seguito del ricorso a pratiche vietate dalle leggi nazionali (cfr. CGUE, 14.12.2021 e 24.6.2022, ord.).

La garanzia delle libertà riconosciute dai Trattati, che sempre deve realizzarsi nel rispetto dei diritti fondamentali enunciati nella Carta di Nizza, richiede dunque che i cittadini europei minori di età dispongano di una certificazione che consenta loro di esercitare i diritti di circolazione e soggiorno nel territorio di tutti gli Stati membri con entrambi i soggetti riconosciuti come loro genitori nello Stato membro di provenienza.

Potrebbe allora ritenersi conforme al principio di attribuzione un’iniziativa dell’Unione volta a dotare i cittadini europei minori di età di una certificazione pubblica funzionale allo scopo indicato. In effetti, una simile iniziativa troverebbe una base giuridica adeguata anche negli artt. 20 e 21 TFUE, trattandosi di un’azione necessaria ad assicurare l’esercizio dei diritti di libera circolazione e soggiorno nel territorio dell’Unione.

10. – Ora, anche nella prospettiva appena indicata, l’istituzione del certificato europeo di filiazione ad opera della proposta in esame appare comunque problematica sotto il profilo del rispetto del principio di proporzionalità.

A ben vedere, infatti, l’istituzione di un certificato europeo di filiazione va ben al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo di consentire ai cittadini europei minori di età di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione con entrambi i soggetti riconosciuti come loro genitori nello Stato di provenienza. A tal fine sarebbe infatti sufficiente un certificato europeo di libera circolazione e soggiorno riservato ai cittadini minori d’età, privo di una funzione generalizzata di accertamento o di prova dello stato di filiazione.

La stessa Corte di Lussemburgo, del resto, nelle due decisioni citate non ha imposto agli Stati membri la certificazione di uno stato di filiazione non conforme alle leggi nazionali previo riconoscimento dell’accertamento proveniente da altro Stato membro. La Corte ha imposto solo il rilascio di una carta di identità o di un passaporto ovvero di un documento emesso da altro Stato membro. E ciò appunto al fine di consentire al cittadino europeo minore di età di esercitare il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione senza impedimenti, con entrambi i soggetti riconosciuti come genitori nello Stato di provenienza.

CONCLUSIONE

11. – Sembra dunque potersi affermare in conclusione che mentre la proposta di armonizzazione del diritto internazionale privato e processuale in materia di filiazione trova senz’altro una base giuridica adeguata nell’art. 81 TFUE e non presenta pertanto problemi sotto il profilo del rispetto del principio di attribuzione, la pretesa riconducibilità anche della proposta di istituzione di un certificato europeo di filiazione alla medesima base giuridica appare invece più problematica.

D’altra parte, anche a voler ritenere che l’istituzione di un certificato europeo di filiazione trovi una base giuridica adeguata anche negli artt. 20 e 21 TFUE, essendo funzionale a garantire il pieno esercizio da parte dei minori del diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione, una simile iniziativa appare comunque eccedente rispetto alla finalità indicata, e perciò indubbiamente problematica sotto il profilo del rispetto del principio di proporzionalità.

Share