L’altro ieri abbiamo celebrato la ricorrenza dei 40 anni dalla pubblicazione del nuovo Codice di Diritto canonico riprendendo una riflessione sul tema del Beato Rosario Livatino, il quale evidenziava l’importanza del diritto per la vita della Chiesa. A tale riflessione si affianca oggi quella del prof. Paolo Cavana, ordinario di Diritto ecclesiastico nella Libera Università Maria Santissima Assunta (LUMSA) di Roma, sull’importanza del nuovo Codice e sulle prospettive di aggiornamento.
1. Il 25 gennaio 1983 il pontefice Giovanni Paolo II promulgava il nuovo Codice di diritto canonico per la Chiesa latina con la cost. ap. Sacrae disciplinae leges, portando a compimento l’opera di rinnovamento dell’ordinamento ecclesiale annunciata per la prima volta da Giovanni XXIII nel 1959, contestualmente all’annuncio della convocazione del Concilio Vaticano II.
Alla sua preparazione lavorò un’apposita Commissione pontificia formata dai più esperti canonisti dell’epoca, sulla base di una serie di principi di riforma del vecchio Codice approvati dal primo Sinodo dei Vescovi convocato da Paolo VI nel 1967, dopo appena due anni dalla chiusura del Concilio, e attraverso una fitta e costante consultazione dell’episcopato mondiale e delle Università ecclesiastiche mediante l’invio periodico dei vari schemi elaborati in seno alla Commissione e la considerazione delle migliaia di osservazioni pervenute. Sicché, come opportunamente precisò Giovanni Paolo II nel documento di promulgazione, per quanto si tratti formalmente di un atto primaziale, espressione del primato pontifico, esso può ben dirsi frutto di un’opera collegiale che ha concretamente coinvolto nella sua formazione l’intero episcopato.
Salutato come l’ultimo atto del Concilio, il Codice del 1983 traduce in effetti in linguaggio canonistico la visione ecclesiologica emergente dai documenti conciliari, in particolare la cost. dogm. Lumen gentium sulla Chiesa, di cui recepisce, anche letteralmente in alcuni suoi canoni, i fondamentali concetti, primo fra tutti quello, di origine biblica, di Popolo di Dio, cui è dedicato l’intero libro II del Codice, e il suo peculiare dinamismo missionario mediante una strutturazione interna che, abbandonando l’assetto statico del vecchio Codice del 1917, pone in evidenza e valorizza le funzioni proprie della Chiesa, ossia i tria munera Ecclesiae: regendi, docendi e sanctificandi, corrispondenti alle tre funzioni sacerdotale, profetica e regale di Cristo.
In questo modo il Codice del 1983 si distaccava decisamente dal precedente Codex iuris canonici del 1917 che, recependo il modello della codificazione, affermatosi nelle legislazioni civili, ne aveva in qualche modo accolto anche l’impostazione secolarizzante culminante nei due libri centrali “De personis” (clero, religiosi e laici) e “De rebus” (i sacramenti e il magistero), di chiara derivazione romanistica, nei quali emergeva l’ecclesiologia gerarcologica-societaria di matrice tridentina che tendeva ad assimilare la Chiesa ad una società temporale.
Il Codice giovanneo-paolino, invece, facendo propria l’immagine conciliare della Chiesa come mistero di comunione, ne sottolinea il carattere del tutto peculiare, irriducibile agli schemi tipici delle società secolari, partendo proprio dalle sue caratteristiche intrinseche e dal suo fondamento, ossia la Parola di Dio e i Sacramenti, il cui annuncio e amministrazione costituiscono la missione propria della Chiesa affidatagli dal suo Fondatore e, in qualche modo, il fondamento epistemologico del suo diritto, sempre orientato alla salus animarum (can. 1752).
2. In poche righe non è certo possibile richiamare, anche solo per sommi capi, tutta la ricchezza di contenuti del Codice, nel quale la visione conciliare della Chiesa, corrispondente alla sua attuale autocomprensione, si fonde con la sua bimillenaria tradizione giuridica, testimone ineffabile, per il credente, del perenne incontro tra il divino e la storia degli uomini.
Tra le principali novità del Codice del 1983 mi limito a segnalarne solo alcune. Innanzitutto la nozione di Popolo di Dio, già richiamata, con tutta la ricchezza di contenuti biblici e teologici e la pari dignità ed eguaglianza dei fedeli che essa implica, in quanti tutti partecipi – sia pure con funzioni diverse – dell’unica missione della Chiesa e chiamati alla santità, vero culmine della vita cristiana. Da cui la formalizzazione di una serie di diritti fondamentali del fedele, fondati sul battesimo, che gli conferiscono un inedito protagonismo, superando definitivamente quella condizione passiva alla quale per secoli soprattutto i laici, uomini e donne, erano stati relegati, in un contesto storico e sociale peraltro assai diverso dall’attuale. Un rinnovato rapporto tra collegialità e primato, frutto della riscoperta della collegialità e sacramentalità dell’episcopato operata dal Concilio ma che nel Codice trova poi una sua prima e compiuta sistemazione anche mediante la formale introduzione del Sinodo dei Vescovi, istituito da Paolo VI, nell’ambito degli organismi del governo centrale della Chiesa. La forte valorizzazione delle Chiese particolari, prima fra tutte le diocesi, frutto anch’essa del Concilio e della sua dottrina sull’episcopato, per il quale la Chiesa è una comunione di Chiese (“communio ecclesiarum”), ma che trovano poi nel nuovo Codice, in base all’affermazione del principio di sussidiarietà, il riconoscimento di ampi spazi di autonomia per il compimento della loro missione pastorale e di evangelizzazione. In questo ambito grande importanza assume poi, tra i raggruppamenti di Chiese particolari, la consacrazione del ruolo delle Conferenze episcopali, destinate a diventare protagoniste del dialogo con la società e le autorità civili nelle varie nazioni, alle quali il Codice dedica per la prima volta una disciplina sistematica di carattere universale, conferendo loro autonomia statutaria e potestà legislativa entro i limiti dettati dal diritto universale e dalla necessaria recognitio della Santa Sede. Altrettanto significativo è stato il rinnovamento apportato nella materia matrimoniale, ove la concezione personalista affermata dal Concilio si è tradotta nella valorizzazione dell’amore coniugale tra le finalità del matrimonio e posta alla base di una più organica disciplina dei vizi del consenso del matrimonio canonico.
3. Nel corso dei quarant’anni trascorsi dalla promulgazione del Codice l’evoluzione dell’ordinamento canonico è proseguita in modo incessante, con una forte accelerazione nell’attuale pontificato, sviluppandosi però per lo più attraverso riforme extracodiciali, come per esempio quelle riguardanti la Curia Romana, e la moltiplicazione delle fonti di diritto particolare, tra cui i Concordati e accordi con gli Stati e le organizzazioni internazionali. Del resto il Codice del 1983, a differenza di quello del 1917, non ha mai avuto la pretesa di esaurire in sé la dimensione giuridica della Chiesa. Tutt’al contrario esso ha fortemente valorizzato, in sintonia con la progressiva apertura della Chiesa conciliare al mondo contemporaneo, il ruolo dei legislatori particolari, a partire dai Vescovi diocesani, cui ha riconosciuto anche un potere generale di dispensa dalle leggi universali della Chiesa (non tutte), e delle Conferenze episcopali, divenute negli ultimi decenni tra le principali fonti di diritto particolare, cui spetta in particolare l’arduo compito dell’inculturazione della fede e di curare anche i rapporti con le autorità civili dei singoli paesi, un tempo prerogativa esclusiva della Santa Sede. Sicché il Codice attuale è stato anche lo strumento di una forte devolution o decentramento normativo nell’ambito dell’ordinamento canonico.
Sono naturalmente emerse esigenze di aggiornamento anche di alcune parti del Codice, in particolare nella materia del processo di nullità matrimoniale e in quella penale (libro VI), messa a dura prova dallo scandalo degli abusi sessuali del clero sui minori e di recente oggetto di una complessiva riforma. Altre proposte di riforma sono da tempo discusse in dottrina, senza contare la diffusa incidenza che potrebbe avere sulle istituzioni ecclesiastiche una più ampia recezione del principio di sinodalità, tanto caro all’attuale pontefice ma ad oggi applicato, e solo in parte, al Sinodo dei Vescovi. Nel complesso, tuttavia, le riforme attuate hanno mantenuto sostanzialmente integro l’impianto complessivo e anche la gran parte dei contenuti del Codice del 1983, custode delle fondamentali e comune regole di organizzazione e di vita valide per tutte le comunità cattoliche sparse nel mondo, a conferma della sua persistente validità e rispondenza alle esigenze della missione della Chiesa. Una missione che ha assunto negli ultimi decenni carattere davvero universale, come mai prima nella storia della Chiesa, mettendola in dialogo con culture e mondi rimasti sempre “periferici” se non estranei ad essa, e per il cui compimento appare tanto più necessario il riferimento ad un codice di diritto universale, il solo nell’esperienza giuridica della modernità, testimone di un modo diverso di intendere e di praticare la globalizzazione: quella della carità come vera e possibile legge universale.
Paolo Cavana