Ecco la memoria di costituzione
Martedì 8 febbraio 2022, il Comitato per il No alla droga legale, presieduto dal prof. Angelo Vescovi, ha inoltrato alla Corte Costituzionale una memoria di costituzione nel giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo di talune disposizioni del d.P.R. n. 309/1990, la cui udienza è fissata per il prossimo 15 febbraio. Le ragioni di inammissibilità del quesito referendario sono individuate:
1. nella subordinazione del legislatore in tema di disciplina degli stupefacenti a Convenzioni internazionali, e quindi nel limite costituito dall’art. 75 Cost. Poiché i promotori dell’attuale referendum pretendono: (i) di legalizzare la coltivazione di tutte le sostanze stupefacenti, (ii) di eliminare la reclusione per tutte le condotte (diverse dalla coltivazione, che si vorrebbe del tutto lecita) riferibili alla canapa indiana, ciò confligge con la Convenzione unica sugli stupefacenti”, adottata a New York il 30 marzo 1961, e col Protocollo di emendamento della Convenzione medesima, adottato a Ginevra il 25 marzo 1972;
2) nella mancanza di chiarezza del quesito, essendo imprevedibili e incerti gli effetti derivanti dalla parziale abrogazione proposta, in contrasto con la trasparenza che dovrebbe orientare la volontà dell’elettore. I contenuti veicolati dal quesito sono plurimi, ampli e non omogenei, poiché riguardando: α) se si voglia liberalizzare la coltivazione della cannabis (art. 73, commi 1 e 4); β) se si voglia liberalizzare la coltivazione della cannabis, del papavero da oppio e/o della pianta della coca (art. 73, comma 1); γ) se si ritenga di escludere la relazione per il trasporto, lo spaccio, la vendita, la consegna di piccole quantità di cannabis (art. 73, comma 4); δ) se si sia d’accordo nell’escludere la reclusione per il commercio e lo spaccio anche e persino di ingenti quantità di marjuana e hashish (art. 73, comma 4); ε) se si voglia (come si vedrà meglio infra) consentire di “fabbricare, raffinare, produrre” “le preparazioni contenenti” cannabis o derivati anche in difformità dalle “modalità indicate nella tabella dei medicinali” (art. 73, comma 4 con tinvia alla Tabella II); ζ) se si voglia consentire a fronte di una sola multa di “fabbricare, raffinare, produrre” “le preparazioni contenenti” sostanze delle droghe leggere della Tabella IV anche in difformità dalle “modalità indicate nella tabella dei medicinali” e ciò anche a scopo medicinale al di fuori delle regole farmaceutiche (art. 73, comma 4 con rinvio alla Tabella IV); η) se si voglia eliminare la possibilità che sia sospesa la patente di guida a chi “importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene” qualsiasi sostanza stupefacente compresa nelle Tabelle da I a IV (quali, ad esempio, oppio, eroina, cocaina, marjuana, hashish, ecc.) per uso personale.
3) sul carattere manipolato più che abrogativo che – in contrasto con la natura del referendum – ha questo quesito, poiché se venisse approvato il proposto referendum sarebbe legalizzata qualsiasi attività di coltivazione, non soltanto, cioè, quella in forma domestica, poiché l’abrogazione tranchant della parola ‘coltiva’ dall’art. 73, comma 1, DPR 209/1990, prescinde dall’estensione della stessa attività, il che significa che si potranno, lecitamente, attrezzare a coltivazione di coca, oppio e canapa indiana grandi e vasti fondi agricoli! Così l’evidente maggiore remuneratività derivante dal dedicare un appezzamento di terreno alle piante di cannabis, di papavero da oppio e di coca invece che alle colture della tradizionale ortofrutta incentiverà agricoltori più o meno professionali a dedicarsi a questo nuovo mercato, spinti dall’esclusivo intento di profitti maggiori e più facili, con possibilità di spaziare all’oppio e alla coca.
Nella memoria che si allega le ragioni della inammissibilità sono esposte in modo articolato, e costituiscono in larga parte esito della riflessione sui temi della droga da tempo maturata da parte del Centro studi Rosario Livatino. Essa è stata predisposta dal Collegio difensivo comporto dagli Avv.ti Prof. Mauro Ronco, del Foro di Torino, Prof. Mario Esposito del Foro di Roma, Domenico Menorello, del Foro di Padova, Francesco Cavallo, del Foro di Lecce.
ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE
MEMORIA DI COSTITUZIONE
PER L’INTERVENTO AD OPPONENDUM
in vista dell’udienza del 15 febbraio 2022
del COMITATO PER IL NO ALLA DROGA LEGALE, costituito con atto ai rogiti del notaio Francesco Belletti in Roma rep. n. 10993 del 21 dicembre 2021, con sede in Roma, via Cavour, n. 285, Codice Fiscale 96514740586, in persona del presidente pro tempore, Prof. Angelo Vescovi, nato a Romano di Lombardia (BG), il 24 aprile 1962, Codice Fiscale VSC NLL 62D24 H509H, rappresentato e difeso, come da procura in atti, dall’Avv. Prof. Mauro Ronco del foro di Torino, emerito di diritto penale dell’Università di Padova (C.F.: RNC MRA 46B19 L219R; pec mauroronco@pec.ordineavvocatitorino.it, fax 011.535938), dall’Avv. Prof. Mario Esposito del foro di Roma, ordinario di diritto costituzionale dell’Università del Salento (C.F.: SPS MRA 71C01D 612C, pec marioesposito@ordineavvocatiroma.org, fax 06.39737585) dall’avv. Francesco Cavallo del Foro di Lecce (C.F.: CVL FNC 81B07 H793E; pec cavallo.francesco@ordavvle.legalmail.it; fax 0836.569164), dall’avv. Domenico Menorello del foro di Padova (C.F.: MNR DNC 67L28 G224D, fax 049.8789840, pec: domenico.menorello@ordineavvocatipadova.it), elettivamente domiciliato presso lo studio in Roma di quest’ultimo, via Cavour, n. 285,
nel giudizio n. 180 del ruolo delle richieste referendarie
promosso dai promotori dell’iniziativa di referendum popolare ai sensi dell’art. 75 della Costituzione, nonché del Titolo II della legge 25 maggio 1970, n. 352, di cui al verbale della Cancelleria della Corte di cassazione del 7 settembre 2021, annunciata nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 215 dell’8 settembre 2021 (n. 21A05375), rispetto alla quale l’Ufficio centrale per il referendum della Corte Suprema di Cassazione ha accertato la presenza dei requisiti formali esposti all’art. 32, comma 2, della legge n. 352/1970 con ordinanza del 10 gennaio 2022, depositata in cancelleria il giorno successivo,
e ciò per la dichiarazione di inammissibilità
del medesimo richiesto referendum abrogativo sul seguente quesito:
«volete voi che sia abrogato il decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, avente ad oggetto “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” limitatamente alle seguenti parti:
Articolo 73, comma 1, limitatamente all’inciso “coltiva“;
Articolo 73, comma 4, limitatamente alle parole “la reclusione da due a 6 anni e“;
Articolo 75, limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni”?» (cfr. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana dell’8 settembre 2021 n. 215):
nonché per ogni atto conseguente.
***
INTERVENTO AD OPPONENDUM
DEL “COMITATO PER IL NO ALLA DROGA LEGALE”,
PRESIEDUTO DAL PROF. ANGELO VESCOVI
Compare e si costituisce l’interveniente “COMITATO PER IL NO ALLA DROGA LEGALE” (doc. 1), Codice Fiscale 96514740586 (doc. 2), rappresentato dal presidente, prof. Angelo Vescovi (doc. 3), a mezzo dei sottoscritti legali, giusta delibera di autorizzazione del Consiglio esecutivo dello stesso “Comitato per il NO alla droga legale” del 2 febbraio 2022 (doc. 4), al fine di opporsi alla ammissione del referendum abrogativo in epigrafe indicato, a mezzo del deposito della presente memoria ex art. 33, comma 3, della medesima legge, con la richiesta di ascoltare lo scrivente patrocinio nella calendarizzata udienza del 15 febbraio 2022.
*
Giova, in via preliminare, brevemente rappresentare gli antefatti fattuali e procedimentali che originano la fattispecie referendaria ora condotta all’attenzione dell’Ecc.ma Corte costituzionale della Repubblica.
Nel settembre 2021 veniva depositato presso la Cancelleria della Corte di Cassazione il seguente quesito ai sensi dell’art. 75 della Costituzione, su iniziativa di alcune associazioni promotrici, quali Associazione Luca Coscioni, Rifondazione comunista, Cannabis for future, Cannabiservice, Fattanza in abbondanza, Manifesto collettivo, Nonna canapa, Sinistra anticapitalista, Spinelli d’Italia, 6000 sardine, Ornella Muti Hemp Club (cfr. doc. 5, pp. 3-4; https://referendum cannabis.it/promotori/):
«Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, avente ad oggetto “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”, limitatamente alle seguenti parti:
Articolo 73, comma 1, limitatamente all’inciso “coltiva”;
Articolo 73, comma 4, limitatamente alle parole “la reclusione da due a 6 anni e”;
Articolo 75, limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni;”?» (cfr. doc. 5; cfr. https://referendum cannabis.it/informati).
Il portale dedicato all’iniziativa (cfr. www.referendum cannabis.it) come il materiale divulgativo ivi allocato (cfr. doc. 5, pp. 9-10) è soprattutto finalizzato, specie nei marchi e negli slogans, a dare evidenza al solo obiettivo di rendere la “cannabis legale”, benché assai più ampio sia lo spettro colpito dalla proposta.
In effetti, nello stesso portale in esame, si illustra che “il quesito referendario riferito al Testo Unico in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, di cui al d.P.R. 309/1990, è stato formulato con il duplice intento di intervenire sia sul piano della rilevanza penale sia su quello delle sanzioni amministrative di una serie di condotte in materia di droghe.
In primo luogo si propone di depenalizzare la condotta di coltivazione di qualsiasi pianta* intervenendo sulla disposizione di cui all’art. 73, comma 1, e di eliminare la pena detentiva per qualsiasi condotta illecita relativa alla Cannabis, con eccezione della associazione finalizzata al traffico illecito di cui all’art. 74, intervenendo sul 73, comma 4”.
Sul piano amministrativo, infine, il quesito propone di eliminare la sanzione della sospensione della patente di guida e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori attualmente destinata a tutte le condotte finalizzate all’uso personale di qualsiasi sostanza stupefacente o psicotropa, intervenendo sull’art. 75, comma 1, lettera a)” del citato DPR 309/1990 (cfr. doc. 5, pp. 1, 5-6; d’ora in poi se si cita il solo numero di un articolo si intende riferito al DPR 309/1990). L’asterisco apposto dopo il riferimento alla ammissione del ricercato effetto di depenalizzazione della “coltivazione di qualsiasi pianta” rimanda alla precisazione per cui verrebbero, invece, mantenute “le condotte di detenzione, produzione e fabbricazione di tutte le sostanze che possono essere applicate per le condotte diverse dall’uso personale” (cfr. doc. 5, pag. 6), il che, però, non corrisponde a verità.
Quanto rappresentato nel portale dedicato all’iniziativa appare, in effetti, parziale, giacché sul piano penale il ventaglio delle proposte è assai più variegato, oltre che differente da quanto illustrato sul sito dei promotori.
Si avrà modo di dettagliare con ancora maggiore previsione il troppo ampio ventaglio di significati possibili che derivano dal quesito depositato nella Cancelleria della Corte di cassazione nel settembre 2021 (cfr. infra, sub motivo n. 2), ma sin d’ora appare opportuno evidenziarne alcuni. In particolare:
- sul piano delle proposte modifiche alle condotte attualmente descritte nell’elemento oggettivo dei reati contro gli stupefacenti (cfr. Titolo VIII DPR 209/1990), il doppio riferimento alle abrogazioni nei commi 1 e 4 dell’art. 73 DPR intende espungere dalle attuali fattispecie illecite l’attività della “coltivazione” di tutte le sostanze stupefacenti previste nelle quattro Tabelle allegate al DPR 309/1990, ove, e sinteticamente, la prima è riferita alle c.d. “droghe pesanti”, la seconda riferita alla cannabis, la terza ai barbiturici e la quarta alle c.d. “droghe leggere” (cfr. art. 14 DPR 209/1990). Atteso che, ovviamente, non tutte le sostanze sono coltivabili, la richiesta di abrogazione in commento si risolve, in buona sostanza, nella volontà di legalizzare la “coltivazione” soprattutto del papavero da oppio e della coca (in Tab I DPR 309/90), nonché della canapa indiana (in Tab. II DPR 309/90). Si noti che tutte le citate piante consentono anche una consumazione della sostanza stupefacente nell’imminenza della coltivazione/raccolta, senza, cioè che sia sempre necessaria una successiva lavorazione (attività che rimarrebbe vietata);
- Sul piano, invece, delle sanzioni penali conseguibili alla commissione dei reati previsti all’art. 73 ovvero con le condotte diverse dalla espunta “coltivazione” (es: fabbricazione, trasporto, vendita, consegna, ecc.), il quesito si propone un alleggerimento di tutte le attività, vietate, elencate al comma 1 riferibili alla canapa indiana e alle c.d. droghe leggere” (Tabelle II e IV richiamate dal comma 4 dell’art. 73), qualsiasi sia la quantità delle stesse, perciò eliminando -solo in tali casi- la pena detentiva e lasciando la mera “multa” (a differenza di quanto si legge nel portale dei promotori, ove, come sopra ricordato, si vorrebbero mantenute “le condotte di detenzione, produzione e fabbricazione di tutte le sostanze che possono essere applicate per le condotte diverse dall’uso personale”);
- sul piano delle sanzioni amministrative, infine, la proposta interviene sull’art. 75, in modo da eliminare la possibilità della sospensione della patente (comma 1, lett. a) in caso di importazione, esportazione, acquisto, ricezione o comunque detenzione di qualsiasi sostanza stupefacente, tanto “pesante” quanto “leggera”, per farne uso personale.
Profittando sia delle modalità di sottoscrizione digitale introdotte dall’art. 38 bis della legge 29 luglio 2021, n. 108, sia della proroga dei termini massimi per la raccolta dei sottoscrittori disposta nell’ultimo giorno della precedente scadenza dall’art. 3 del Decreto-legge 30 settembre 2021, n. 132, il 28 ottobre 2021 i promotori hanno depositato presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, in Roma, n. 294 moduli di raccolta delle sottoscrizioni sul sopra riportato quesito, predisposti con le modalità indicate dall’art. 27 della legge n. 352/1970.
Il preposto Ufficio Centrale per il Referendum della Suprema Corte di Cassazione procedeva, poi, alle rituali attività di verifica e conteggio, nonché di precisazione della denominazione del quesito proposto, che veniva perciò così definito: “Abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di produzione e traffico illecito di sostanza stupefacenti o psicotrope”, con ciò rappresentando più congruamente la (disomogenea) ampiezza normativa interessata dall’iniziativa che, invece e per quanto si legge nell’ordinanza finale, era stata più semplicisticamente rubricata nel materiale depositato dai promotori come “referendum cannabis legale” (cfr. doc. 5).
In particolare, a fronte delle dichiarate “607.635 firme online” che sarebbero state depositate secondo quanto si legge nella pagina “trasparenza” del portale citato (cfr. doc. 5, pp- 7-8; https://referendum cannabis.it/trasparenza/), l’Ufficio Centrale per il Referendum ne accertava la validità di sole “507.104” “cartacee e digitali” e dichiarava la relativa “conformità della richiesta di referendum ai requisiti previsti dalla legge n. 352/1970” con ordinanza del 10 gennaio 2022 (doc. 6), disponendone la comunicazione alla Corte costituzionale per la valutazione in tema di ammissibilità dello stesso.
Nel frattempo, alcuni cittadini, sotto la guida dello scienziato di fama internazionale, prof. Angelo Vescovi, avevano costituito avanti al Notaio Belletti di Roma in data 21 dicembre 2021 un Comitato dedicato a evidenziare i numerosi profili di contrarietà rispetto alle tesi che avevano determinato i promotori nell’iniziativa referendaria de qua.
Come si legge nell’atto costitutivo e nello statuto, versati in atti (cfr. doc. 1), i promotori di tale Comitato, appreso del deposito presso la Corte di Cassazione della sottoscrizioni raccolte come supra esposto, si dicevano, in premessa, convinti che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, inserendo tale diritto nella più ampia cornice della difesa della vita umana, della sua sicurezza e dignità in tutti i suoi aspetti, quale principio caratterizzante il fondamento di ogni giusta società politica”, cosicché -e fra l’altro- affermavano, a ragione della promozione del qui rappresentato Comitato per il NO alla droga legale, come apparisse, invece, necessaria “la conservazione degli artt. 73 e 75 del decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, in tutta la loro portata”, atteso che essi “rappresentano un presidio indispensabile a tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, di diretta derivazione dagli artt. 2 e 32 Cost.”, nonché “che occorre evitare il peggioramento del livello di protezione dei valori costituzionali sopra indicati, come avverrebbe nel caso del succitato referendum ”.
Dopo aver assunto le opportune informazioni circa il prosieguo procedimentale dell’iniziativa in commento, i fondatori del citato Comitato hanno informalmente appreso dalla Cancelleria dell’Ecc.ma Corte costituzionale che il Presidente della Consulta aveva calendarizzato al 15 febbraio 2022 l’udienza per le decisioni di cui all’art. 33, comma 4, della legge 25 maggio 1970, n. 352.
Di conseguenza, in data 2 febbraio 2022 si è riunito il Consiglio esecutivo del Comitato per il NO alla droga legale, che ha deliberato di intervenire ad opponendum nel procedimento menzionato avanti alla Corte costituzionale (cfr. doc. 4), al fine di rappresentare, in udienza e già con la memoria di cui all’art. 33, comma 3, della stessa legge, la necessità di dichiarare inammissibile la richiesta referendaria in epigrafe descritta, per i seguenti
MOTIVI DI DIRITTO
1) Sulla inammissibilità del richiesto referendum – Violazione dell’art. 75 della Costituzione – Violazione dell’art. 2 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 – Violazione del divieto di referendum in materie coperte da vincoli derivanti da Convenzioni internazionali
Alcuni precedenti di codesta ecc.ma Corte costituzionale appaiono di particolare significato per orientare il giudizio in punto di ammissibilità sul caso che interessa.
1/A) Sull’ampiezza del divieto di cui all’art. 75, comma 2, Costituzione in ordine ai vincoli internazionali.
Viene in preliminare rilievo la sentenza 12 febbraio 1981, n. 30, Pres. Amadei, rel. De Stefano, nella quale veniva richiamata la precedente pronuncia “n. 16 del 1978”, con cui, come da indirizzo poi consolidato, «la Corte annoverò tra le ragioni di inammissibilità l’appartenenza delle norme investite da referendum abrogativo alla categoria delle leggi indicate dal secondo comma dell’art. 75 della Costituzione, facendo in tale ambito rientrare, per effetto di interpretazione logico – sistematica, anche “le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività” delle leggi anzidette “che la preclusione debba ritenersi sottintesa”. Il ricorso a siffatto canone ermeneutico fa sì che debbano venire preclusi i referendum che investano non soltanto le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, ma anche quelle strettamente collegate all’esecuzione dei trattati medesimi». Con ciò, la Consulta ribadiva che “restano sottratte all’abrogazione referendaria non tutte le norme che lo Stato italiano può emanare, operando delle scelte, per dare attuazione nei modi considerati più idonei agl’impegni assunti sul piano internazionale, ma soltanto quelle norme, la cui emanazione è, per così dire, imposta dagl’impegni medesimi: per le quali, dunque. non vi sia margine di discrezionalità quanto alla loro esistenza e al loro contenuto, ma solo l’alternativa tra il dare esecuzione all’obbligo assunto sul piano internazionale ed il violarlo, non emanando la norma o abrogandola dopo averla emanata. Chiara, del resto, è la ratio che accomuna, sotto questo profilo, le leggi di esecuzione dei trattati internazionali con quelle produttive di effetti strettamente collegati all’ambito di operatività dei trattati medesimi: la responsabilità che lo Stato italiano assumerebbe verso gli altri contraenti a cagione della “disapplicazione” dell’accordo, conseguente all’abrogazione delle norme apprestate per l’attuazione degli assunti impegni. Responsabilità che la Costituzione ha voluto riservare alla valutazione politica del Parlamento, sottraendo le norme in questione alla consultazione popolare, alla quale si rivolge il referendum abrogativo previsto dall’art. 75 della Costituzione».
Il perimetro così delineato rispetto all’art. 75, comma 2, della Costituzione veniva poi confermato anche nelle occasioni successive in cui codesta ecc.ma Corte veniva chiamata a un vaglio di ammissibilità su questioni connesse alla disciplina per la lotta al traffico degli stupefacenti (cfr. sentenze n. 28/1993 e n. 27/1997).
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1/B) Sulla sovrapponibilità dei casi precedentemente esaminati con il quesito proposto nel settembre 2021.
Nell’ipotesi sottoposta alla Corte costituzionale poi giudicata con la sentenza n. 30/1981, veniva chiesta la abrogazione referendaria di alcune tipologie di sostanze descritte nella legge 22 dicembre 1975, n. 685, contenente la “disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope”, ora confluita nel DPR 9 ottobre 1990, n. 309 per volere dell’art. 37 della legge 26 giugno 1990, n. 162. In effetti, si pretendeva, in particolare e fra l’altro, di espungere dall’elenco di cui alla tabella I delle droghe i “tetraidrocannabinoli” (art. 12, n. 1, lett. f. legge 685/75), nonché la “cannabis” dalla tabella II (art. 12, n. 2 legge 685), per un ricercato effetto di integrale depenalizzazione/legalizzazione di tali sostanze. Inoltre, – si badi bene- la richiesta referendaria esaminata dalla Consulta con la sentenza n. 30/1981 avrebbe voluto anche modificare l’art. 26, primo comma, nel punto in cui per esso veniva “vietata nel territorio dello Stato la coltivazione … di piante di canapa indiana” della legge 685/75 (oggi art. 26 DPR 309/90, su cui si tornerà infra).
Altresì utile è il richiamo al caso deciso con la successiva (già citata) sentenza n. 27 del 10 febbraio 1997, Pres. Granata, Rel. Neppi Modona, sulla «richiesta» di abrogazione di «varie disposizioni del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309», quali, fra l’altro e per quanto di assonanza al caso odierno, quelle presenti «nell’art. 26, primo comma, dell’inciso “di piante di canapa indiana”, al fine di sottrarle al divieto assoluto di coltivazione nel territorio dello Stato».
Il ricordo, seppur sintetico, dei petita referendari precedenti si è reso opportuno per attirare l’attenzione sul fatto -in questa sede rilevante- per cui, in allora, da un lato si chiedeva di voler espungere intere categorie di sostanze o di condotte riferite alle droghe considerate dalla normativa vietate, e, dall’altro, si pretendeva, nell’ambito di tale intento, di eliminare proprio il divieto di coltivazione della cannabis, che sarebbe così divenuto lecito.
Si vedrà, ora, di come anche il caso odierno sia del tutto sovrapponibile, anzi persino più ampio, di quelli sopra citati e già dichiarati inammissibili, atteso che esso propone un ulteriore tentativo di eliminazione di alcune condotte/fattispecie attualmente vietate, per ottenere la specifica abrogazione del divieto di coltivazione non solo della cannabis, ma persino del papavero da oppio e della coca.
Appare, al riguardo, utile ancora ricordare le particolari modalità con cui sono costruiti i commi primo e quarto dell’art. 73 DPR 309/1990 su cui intende principalmente incidere il quesito della richiesta referendaria 2021, il primo dei quali si riferisce a una serie di attività (coltivazione, produzione, fabbricazione, commercializzazione, trasporto, ecc.) delle sostanze stupefacenti elencate alla Tabella I (c.d. “droghe pesanti”, quali oppio, eroina, morfina, coca, anfetamine, ecc.) e alla Tabella III (barbiturici) con la previsione di pene detentive “da otto a vent’anni di reclusione” oltre alla multa, mentre il quarto comma dell’art. 73 richiamando le stesse condotte descritte al comma 1 si riferisce però alle Tabelle II (cannabis e derivati) e IV (droghe leggere), prevedendo quali sanzioni, seppur variamente graduate, sia la reclusione, sia la multa. Atteso tale contesto, i promotori del 2021 propongono, come si è già avuto modo di descrivere nelle suesposte premesse, di eliminare la parola “coltivazione” al primo comma dell’art. 73 e la pena detentiva (le parole “la reclusione da due a sei anni”) dal comma 4.
Ne deriva che, per quanto riguarda la cannabis, che è l’oggetto del comma 4 che si riferisce alla Tabella II, la coltivazione (che si vuole abrogata nell’ivi richiamato primo comma) diventerà tout court sempre lecita, mentre qualsiasi altra attività avente ancora ad oggetto la canapa indiana (acquisto, vendita, esportazione, spaccio, consegna di tale stupefacente) non comporterà più pene detentive ma solo una multa, e ciò a prescindere dalle circostanze lievi o gravi in cui dette condotte residue avvenissero.
Per quanto concerne, invece, tutte le altre “droghe pesanti” di cui alla Tabella I si otterrà l’effetto di renderne lecita la coltivazione, attraverso la voluta eliminazione della parola “coltiva” dal comma 1 dell’art. 73, che potrà, ai fini prativi, consentire la legalizzazione della coltivazione delle piante di papavero da oppio e di coca, oltre -come si è detto- a quella di canapa indiana.
Ben si vede, allora, come il tentativo odierno di depenalizzare/legalizzare la coltivazione di oppio, coca e cannabis ricalchi -persino ampliandoli- concettualmente quelli del 1980 e del 1997, atteso che si vorrebbe ridurre (e sensibilmente) il perimetro delle sostanze e/o delle condotte prima vietate.
In effetti, il caso proposto nel 2021 di modifica della disciplina penale non ha quale proprio oggetto una variazione dell’“intensità” della perseguibilità di certe condotte vietate, come avviene, ad esempio agli artt. 73, comma 5 e 75 rispettivamente per la graduazione delle pene di “lieve entità” o per la sostituzione di sanzioni penali con sanzioni amministrative per l’“uso personale” di droghe; in tali casi, cioè, la condotta rilevante (es. coltivazione, lavorazione, ecc.) rimane intatta sotto il profilo della illiceità della stessa, solo variandone l’estensione, per così dire, verticale in presenza di determinate circostanze, ricorrendo le quali le sanzioni penali diminuiscono (lieve entità; cfr. art. 74, comma 5) o mutano in sanzioni amministrative (uso personale cfr. art. 75), comunque rimanendo fermo -in ossequio alle Convenzioni internazionali di cui si dirà infra– il carattere vietato e -si insiste- sempre illecito delle condotte aventi a oggetto sostanze stupefacenti.
Il caso proposto nel 2021 pretende, invece, come nei precedenti citati del 1980 e del 1997, soprattutto di eliminare tout court e completamente una certa condotta, cioè la “coltivazione” riferita a determinate sostanze stupefacenti (oppio, coca, cannabis) dall’elemento oggettivo del reato discendente, come si vedrà di seguito, dai vincoli internazionali assunti dallo Stato italiano.
Come, cioè, nel 1980 e nel 1997 si vorrebbe rendere “lecita” una condotta, cioè la coltivazione di droghe come la canapa indiana, ma anche il papavero da oppio e la pianta da coca, il che è precluso innanzitutto dai vigenti vincoli internazionali cui lo Stato italiano ha aderito.
*
1/C) Sul contrasto delle richieste referendarie con i vincoli internazionali e, dunque, con l’art. 75, comma 2, Costituzione.
Si procederà, ora, a un breve esame della insostenibilità rispetto all’art. 75 della Costituzione della doppia pretesa referendaria, (i) di legalizzare, cioè, la coltivazione di tutte le sostanze stupefacenti, nonché (ii) di eliminare la reclusione per tutte le condotte (diverse dalla coltivazione, che si vorrebbe del tutto lecita) riferibili alla canapa indiana, cosicché per la detenzione, il trasporto, la lavorazione, la fabbricazione, lo spaccio di qualsiasi quantità di cannabis e derivati la sanzione sarebbe solo quella della multa.
i) Sull’insanabile contrasto fra i vincoli internazionali e la richiesta di legalizzare/depenalizzare la coltivazione di piante di coca, papavero da oppio e canapa indiana.
Attesa la medesima natura del quesito del 2021, sotto il profilo della pretesa di depenalizzare la coltivazione di cannabis, oppio e coca, rispetto ai precedenti tentativi del 1980 e del 1997 di legalizzare la coltivazione della stessa canapa indiana, la proposta referendaria in epigrafe indicata non può che incontrare i medesimi rilievi ostativi sollevati soprattutto dalle sentenze n. 30/1981 e n. 27/1997, le quali hanno puntualmente osservato come non sia nella disponibilità dello Stato italiano di disattendere specifici impegni assunti in senso opposto in sede internazionale, con ciò in effetti concretandosi uno dei divieti di referendum tipizzati dall’art. 75 della Costituzione come ricostruito nel passaggio richiamato al n. 1/A) del presente motivo.
Giova, dunque, ripercorrere l’argomentare della Consulta nei casi evocati, che, come si è visto, per quanto di interesse sono sovrapponibili all’attuale fattispecie in esame, la quale, anzi, estende la stessa pretesa di depenalizzazione persino alle piante di papavero da oppio e di coca, oltre che di canapa indiana.
«In proposito – cioè- la Corte considera[va] che la legge 5 giugno 1974, n. 412, ha autorizzato la ratifica della “Convenzione unica sugli stupefacenti”, adottata a New York il 30 marzo 1961, e del Protocollo di emendamento della Convenzione medesima, adottato a Ginevra il 25 marzo 1972, dando ad essi piena ed intera esecuzione” (cfr. sentenza n. 30/81, citata anche in n. 27/97).
Il carattere necessariamente sovranazionale dei contenuti fatti propri dallo Stato italiano si ricava già dal “Preambolo alla Convenzione” ove “le Parti danno atto che “per essere efficaci le misure prese contro l’abuso degli stupefacenti devono essere coordinate ed universali” e che “un’azione universale di questo genere richiede una cooperazione internazionale guidata dagli stessi principi e mirante a fini comuni”» così riconoscendo «la competenza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in materia di controllo degli stupefacenti», nonché dichiarando «di voler stabilire, con la conclusione di una Convenzione unica, “una costante cooperazione internazionale per rendere operanti tali principi e raggiungere tali fini”».
D’altronde lo stesso DPR 309/1990 in numerosi passaggi conferma, ribadisce e sviluppa proprio l’assolvimento dei “compiti di cooperazione internazionale nella prevenzione e repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope” (cfr., ex multis, art. 11 DPR 309/90).
In tale contesto, la sentenza n. 30/1981 osserva come le sostanze stupefacenti e le attività ad esse connesse trovino già puntuale descrizione nella convenzione medesima e nelle relative tabelle, poi pedissequamente ribaltate nelle discipline nazionali, fra cui il DPR 309/1990 e la normativa in esso raccolta a sintesi, atteso che per modificare tali contenuti si dovrebbe seguire una procedura internazionale prevista dalla Convenzione in parola, rimanendone così preclusa la variazione unilaterale per opera degli Stati. “La Convenzione –osserva la Consulta nell’arresto 30/81 in citazione- tra l’altro, prevede (art. 2) che le sostanze stupefacenti, distribuite nominativamente in Tabelle allegate alla Convenzione medesima, vengano sottoposte a specifiche misure di controllo, la cui natura, il cui ambito e le cui modalità di applicazione variano a seconda delle tabelle anzidette. Il procedimento per le “modifiche del campo di applicazione del controllo”, che può essere instaurato nella competente sede internazionale su iniziativa di una Parte o dell’Organizzazione mondiale della sanità, è minuziosamente disciplinato dal successivo art. 3. Le Parti, con l’art. 4, si sono obbligate ad adottare le misure legislative e amministrative necessarie per dare attuazione nei rispettivi territori alle disposizioni della Convenzione, e per limitare esclusivamente a fini medici e scientifici la produzione, la fabbricazione, l’esportazione, l’importazione, la distribuzione, il commercio, l’uso e la detenzione di stupefacenti; e con l’art. 36 (come emendato dall’art. 14 del Protocollo) si sono altresì obbligate ad adottare, compatibilmente con le proprie norme costituzionali, le misure necessarie per la punibilità della coltivazione e produzione, fabbricazione, estrazione, preparazione, detenzione, offerta, messa in vendita, distribuzione, acquisto, vendita, consegna, mediazione, invio, spedizione in transito, trasporto, importazione ed esportazione di stupefacenti non conformi alle disposizioni della Convenzione. Nell’ipotesi che gli scopi della Convenzione siano seriamente compromessi dal fatto che una Parte non ne attui le disposizioni, è previsto (art. 14 come emendato dall’art. 6 del Protocollo) che l’Organo internazionale di controllo degli stupefacenti, in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite, adotti o raccomandi alle Parti l’adozione di specifiche misure nei confronti del Paese inadempiente».
L’impianto della Convenzione internazionale esaminata dalla sentenza n. 30/1981 vincola, pertanto, sia “nominativamente” le sostanze stupefacenti considerate vietate, sia le attività/condotte interdette in relazione ad esse, con la relativa necessità di sanzionare dette attività. Sul punto, basti richiamare lo stesso articolo 1), che alla lettera “i)” comprende nell’attività (vietata) di coltivazione quella relativa alla “coltura del papavero da oppio, della pianta di coca e della pianta di cannabis”, mentre alla lettera “u)” inequivocabilmente precisa che «le espressioni “tabella I”, “tabella II”. “tabella III” e “tabella IV” si riferiscono alle liste di stupefacenti o di preparati allegate alla presente convenzione e che potranno essere modificate volta a volta -solo e soltanto- conformemente all’articolo 3»” e alle già richiamate procedure ivi dettagliate, che escludono poteri di variazione unilaterale.
La Convenzione di New York in commento, dunque, prescriveche le condotte (fra cui pacificamente e sempre la “coltivazione”) aventi ad oggetto sostanze stupefacenti (ivi compresa, pacificamente, la cannabis), qualora ritenute “gravi”, siano passibili “di una pena adeguata, in particolare di pene che prevedono la reclusione o altre pene detentive”, con la sola eccezione costituita dalla possibilità di sostituire alla condanna penale o alla sua esecuzione, per quanti siano semplici utilizzatori di dette sostanze, l’applicazione di “misure di cura, correzione, postcura, riabilitazione e reinserimento sociale conformemente alle disposizioni dell’articolo 38 paragrafo 1”.
Ma in nessun caso si consente che una intera “condotta” quale è la coltivazione di oppio, coca e canapa indiana possa essere -sempre e persino per significative quantità!- sottratta a qualsiasi misura sanzionatoria, come avverrebbe con la mera abrogazione della parola “coltiva” dal comma 1 dell’art. 73
Anche la sentenza della Corte costituzionale n. 28/1993, nell’esaminare il tema del c.d. “uso personale” ha ritenuto ammissibile la in allora relativa richiesta referendaria solo in quanto la condotta sarebbe comunque rimasta con una natura “illecita”, benché sanzionata sotto il profilo amministrativo, come allo stato avviene a mezzo dell’art. 75. L’arresto del 1993 in commento, infatti, premetteva che “la richiesta referendaria in esame è diversa da quella esaminata e dichiarata inammissibile da questa Corte con la sentenza n. 30 del 1981. In quel caso, infatti, il referendum proposto aveva ad oggetto la esclusione, dalle tabelle delle sostanze stupefacenti sottoposte a controllo, delle cosiddette droghe leggere e ciò si poneva in contrasto con accordi internazionali che tale controllo prescrivevano ed in particolare con la Convenzione unica sugli stupefacenti, adottata a New York il 30 marzo 1961 ed il relativo Protocollo di emendamento adottato a Ginevra il 25 marzo 1972, entrambi ratificati e resi esecutivi per effetto della legge 5 giugno 1974, n. 412”. Ribadita la necessaria illiceità di tutte le condotte ricomprese nelle Convenzioni internazionali sugli stupefacenti, anche se per lo specifico ridotto utilizzo considerato, esaminava la precipua questione posta nel 1993, osservando che “la depenalizzazione dell’illecito costituito dalla detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope per uso personale – che è l’effetto perseguito dalla presente iniziativa referendaria – non si pone invece in contrasto né con la suddetta Convenzione di New York del 1961, né con la Convenzione di Vienna del 20 dicembre 1988, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 5 novembre 1990, n. 328” atteso che “non vi è dubbio che, in sostanza, la convenzione prospetti la facoltà per ogni Stato contraente di prevedere misure diverse dalla sanzione penale per ogni infrazione che presenti un carattere di minor gravità”. Pertanto, la sentenza n. 28/93 acconsentiva quelle richieste proprio in quanto non dirette a legalizzare tout court l’uso di droghe, permanendo anche per l’uso personale la sanzionabilità amministrativa, cosicché esse erano finalizzate “non ad eliminare la illiceità della detenzione per uso personale di tali sostanze, sì che non viene chiesta l’abrogazione delle disposizioni da cui deriva la punibilità di tali comportamenti con sanzioni amministrative”.
Tornando, ora, alla prima puntuale pretesa avanzata dal 2021 di giungere, invece, alla completa legalizzazione della “coltivazione” di tutte le droghe, va attirata l’attenzione che, proprio in considerazione delle disposizioni evocate della Convenzione internazionale di New York, la Corte costituzionale, con la miliare sentenza n. 30/1981, ebbe a dichiarare inammissibile la proposta di referendum abrogativo dell’allora vigente legge n. 685/1975 in materia di stupefacenti nelle parti in cui prevedeva di escludere rilevanza ai fini sanzionatori ovvero di legalizzare condotte aventi ad oggetto (solo) la cannabis o i suoi derivati. In proposito, la Consulta puntualmente osservava che: “la abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario in esame, con il sottrarre ai previsti controlli la coltivazione, il commercio, la detenzione e l’uso della canapa indiana e dei suoi derivati, concreterebbe una esplicita ed inequivocabile violazione degli obblighi al riguardo assunti dallo Stato italiano con l’adesione senza riserve alla Convenzione unica sugli stupefacenti, adottata a New York il 30 marzo 1961, ed al Protocollo di emendamento adottato a Ginevra il 25 marzo 1972, esponendo lo Stato medesimo alle misure in detti accordi contemplate ed alle responsabilità verso le altre Parti contraenti e verso l’Organizzazione delle Nazioni Unite, competente in materia di controllo internazionale degli stupefacenti”.
Né appaiono margini per una riperimetrazione “orizzontale” delle sostanze e delle attività vietate, atteso che, a sensi dell’art. 2, comma 2, della «Convenzione internazionale del 1961 in commento gli stupefacenti di cui alla tabella II -cannabis- sono sottoposti alle stesse misure di controllo degli stupefacenti di cui alla tabella I, eccetto che alle misure previste ai paragrafi 2 e 5 dell’articolo 30, per quanto riguarda il commercio al dettaglio».
In altri termini, come riconosce ancora la pronuncia n. 30/1981 in esame, «nella esecuzione della menzionata Convenzione internazionale e nell’attuazione degl’impegni e degli obblighi con essa assunti è, dunque, strettamente circoscritta la discrezionalità normativa degli Stati contraenti, e quindi dello Stato italiano, che non può comunque – senza divenir passibile delle previste misure e senza incorrere in responsabilità d’ordine internazionale – spingersi addirittura fino alla radicale ed unilaterale “liberalizzazione” della coltivazione … di una sostanza espressamente contemplata come stupefacente nella Convenzione».
Contenuti del tutto analoghi -anzi viepiù restrittivi- vengono, altresì, introdotti dalla già citata Convenzione di Vienna del 21 febbraio 1971, resa esecutiva in Italia con legge 25 maggio 1985, n. 385; altresì, “il quadro degli obblighi internazionali rilevanti ai fini del presente giudizio è definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite adottata a Vienna il 20 dicembre 1988 contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope, ratificata e resa esecutiva in Italia per effetto della legge 5 novembre 1990, n. 328” (Corte cost., n. 27/1997, cit.).
In effetti, (anche) quest’ultima Convenzione internazionale di Vienna obbliga “Ciascuna Parte” ad “adotta[re] i provvedimenti necessari per attribuire il carattere di reato, …, qualora l’atto sia stato commesso intenzionalmente” rispetto anche “ii) alla coltivazione del papavero da oppio, dell’albero della coca o della pianta di canapa indiana, ai fini della produzione di stupefacenti in violazione delle disposizioni della Convenzione del 1961”.
“Per quanto qui interessa”, poi, precisa la sentenza n. 27/1997, “il sistema della Convenzione di Vienna è completato dal paragrafo 2 dell’art. 14, che impone a ciascuna parte l’obbligo di adottare “misure appropriate per impedire sul suo territorio la coltura illecita di piante contenenti stupefacenti”, tra cui “la pianta di canapa indiana”, nonché dall’art. 25, ove è stabilito che le disposizioni della Convenzione non derogano ai diritti e agli obblighi derivanti dalla Convenzione unica di New York del 1961, così come modificata dal Protocollo di emendamento del 1972, nonché dalla Convenzione sulle sostanze psicotrope del 1971”. Così come, prosegue l’arresto n. 27/97 in citazione, “l’art. 28, nel caso in cui una parte autorizzi la coltivazione della cannabis, impone l’applicazione del rigoroso regime di controllo disposto dall’art. 23 per il papavero da oppio”
Specificatamente, poi, e a tacer d’altro, l’art. 14 contiene «misure volte ad eliminare la coltivazione illecita delle piante da cui si estraggono stupefacenti ed a sopprimere la domanda illecita di stupefacenti e di sostanze psicotrope», il che appare ostativo a qualsivoglia ipotesi di liberalizzazione di tale coltivazione.
Inoltre, per la sentenza n. 27/1997 -che dichiara una piena condivisione con i precedenti in punto di inammissibilità di referendum sulla liberalizzazione di droghe pronunciati dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale- “non vi è quindi dubbio che, alla stregua delle convenzioni internazionali di Vienna e di New York, la canapa indiana e i suoi derivati rientrano tra le sostanze stupefacenti la cui coltivazione e detenzione, …, deve essere qualificata come reato o, quantomeno, sottoposta a misure amministrative riabilitative e di reinserimento sociale diverse dalla sanzione penale: al riguardo, la Corte si richiama alle conclusioni cui sono pervenute le sentenze n. 30 del 1981 e n. 28 del 1993, all’analitico esame ivi contenuto delle disposizioni della Convenzione unica di New York del 1961, come emendata dal Protocollo di Ginevra del 1972, della Convenzione di Vienna del 1988, nonché delle allegate tabelle I e IV, con specifico riferimento alla sottoposizione della canapa indiana e dei suoi derivati alle varie misure di controllo previste per la coltivazione, il commercio, la detenzione e l’uso delle sostanze stupefacenti.”
Per il vero, della irrefutabile necessità discendente dai vigenti obblighi internazionali per lo Stato italiano, magistralmente descritta dalla ricordata giurisprudenza della Corte costituzionale, sembrano esserne convinti persino i promotori i quali, seppur a commento dell’ultima parte del quesito proposto (riguardante la richiesta di eliminazione di una delle varie sanzioni amministrative comminabili in caso di uso personale), ammettono che “il referendum non deve intervenire su norme derivanti da obblighi internazionali che in materia di sostanze stupefacenti prevedono che la detenzione di cannabis sia considerata reato quantomeno soggetto a sanzione amministrativa. Per tali ragioni il referendum non può abrogare tutte le sanzioni amministrative poiché non supererebbe il vaglio della Corte costituzionale, come già successo con il referendum del 1996” (cfr. doc. 5, pag. 6). Al netto di qualche “refuso” giuridico, che vorrebbe ritenere “reato” una fattispecie sanzionata in sede amministrativa, quel che in questa sede innanzitutto conta è la confessata consapevolezza, secondo cui tutte le condotte aventi ad oggetto una sostanza stupefacente devono venire considerate illecite, con una adeguata previsione sanzionatoria. Devesi, in altri termini escludere che, in ragione degli obblighi internazionali vigenti, una di queste condotte, ovvero la “coltivazione” di sostanze comprese nelle Tabelle, quali la canapa indiana, il papavero da oppio e le piante di coca, possa venire qualificata quale una attività lecita.
Invece, il quesito 2021 vorrebbe, innanzitutto, sottrarre del tutto da ogni sanzione e dunque pienamente legalizzare la coltivazione di tali sostanze stupefacenti, il che rappresenta, come si è visto, una pretesa indubitabilmente inammissibile.
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ii) Egualmente incompatibili sul piano dei vincoli internazionali sono le pretese evincibili alla seconda parte del quesito referendario proposto riferita al comma 4 dell’art. 73, quelle cioè per cui si vorrebbe escludere la reclusione, permanendo la sola “multa” per tutte le condotte (a questo punto) diverse dalla coltivazione, dunque per la fabbricazione, lavorazione, detenzione, trasporto, spaccio riferibili alla cannabis (Tabella II) e alle “droghe leggere” (Tabella IV), qualsiasi sia la entità di tali condotte.
In altri termini, si vorrebbe che anche per i fatti gravi ovvero per grandi anzi ingenti quantitativi di droghe di cui alla tabella II e IV, specie, dunque, di cannabis e derivati, così come per episodi come lo spaccio verso i minori o presso le scuole NON sia mai possibile comminare la pena della reclusione.
Giova, sul punto, riprendere i contenuti dell’art. 36 della Convenzione di New York, secondo il quale,
- per un primo profilo, “la coltivazione e la produzione, la fabbricazione, l’estrazione, la preparazione, la detenzione, l’offerta, la messa in vendita, la distribuzione, l’acquisto, la vendita, la consegna per qualunque scopo, la mediazione, l’invio, la spedizione in transito, il trasporto, la importazione e la esportazione di stupefacenti non conformi alle disposizioni della presente convenzione” devono sempre essere “considerati infrazioni punibili”; inoltre,
- per un secondo profilo, in caso di “infrazioni gravi” le condotte devono essere “passibili di una pena adeguata, in particolare di pene che prevedono la reclusione o altre pene detentive”, consentendo,
- per un terzo profilo, che “chi compie un’azione illecita nel senso esposto possa essere anche sottoposto a misure di cura, correzione, postcura, riabilitazione e reinserimento”.
Soccorre, a questo punto, quanto evidenziato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 28/93, che ha interpretato proprio l’art. 36 in commento, prospettando “la facoltà per ogni Stato contraente di prevedere misure diverse dalla sanzione penale per ogni infrazione che presenti -però- un carattere di minor gravità”.
Pertanto, è certamente preclusa, in ragione dei vincoli internazionali rappresentati, l’eliminazione della pena della reclusione (almeno) delle condotte gravi.
Invece, quanto proposto dal referendum vìola ortogonalmente detto precetto derivante dalle cogenti fonti internazionali in quanto vorrebbe eludere la reclusione per tutte le condotte illecite relative alla canapa indiana, anche per quelle più gravi (anzi, si vedrà che l’effetto del quesito si risolverebbe in favore solo dei grandi spacciatori o dei fatti più pregiudizievoli). Né -e a tutto concedere- l’effetto ricercato del referendum condurrebbe alla applicazione alternativa di “misure di cura, correzione, postcura, riabilitazione e reinserimento”. In effetti, come si ricorderà,, gli obblighi internazionali escludono che per la residua gamma di condotte vietate dopo aver, in ipotesi, espunto la coltivazione (es., trasporto, spaccio, esportazione, importazione) riferite alla cannabis (Tabella II) e alle droghe leggere della Tabella IV non si prevedano né pena detentiva, né le uniche misure di riabilitazione e cura alternative consentite in alternativa alla reclusione nei casi ricordati, come invece avverrebbe con la abrogazione delle parole considerate dal quesito 2021 al comma 4 dello stesso art. 73.
Dunque, come la prima anche la seconda parte del quesito proposto appare inammissibile, atteso che gli esiti pretesi dai promotori sono preclusi dal tenore delle norme internazionali che l’Italia ha pedissequamente introdotto nel proprio ordinamento da ultimo con il DPR n. 390/1990, il cui articolo 73, commi 1 e 4, non può conseguentemente essere oggetto delle abrogazioni in oggetto rappresentate, e ciò in ragione del divieto contenuto in tal senso dal comma secondo dell’art. 75 della Costituzione.
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2) In subordine: sulla inammissibilità del richiesto referendum – Violazione dei parametri all’uopo elaborati dalla giurisprudenza costituzionale – Violazione, sotto plurimi profili, da parte del quesito proposto dei parametri di intangibilità di norme a contenuto vincolato, omogeneità, chiarezza, semplicità, univocità, intellegibilità, coerenza, ragionevolezza, nonché completezza e idoneità a conseguire il fine perseguito.
2/A) Premessa.
Com’è noto, accanto ai limiti testuali espressamente previsti dall’art. 75, co. 2, Cost., che -come brevemente esposto al motivo che precede- il quesito proposto vìola palesemente, la giurisprudenza costituzionale ha individuato una serie di ulteriori condizioni di ammissibilità dell’istituto referendario, desumibili dall’intero ordinamento costituzionale. Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, “esistono valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture oppure ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum , al di là della lettera dell’art. 75, secondo comma, Cost.” (Corte cost., n. 16/1978).
Nel presente paragrafo (n. 2) verranno evidenziate alcune palesi incoerenze rispetto a detti parametri, che, come si vedrà nel motivo successivo del presente atto (n. 3), in alcuni casi condurrebbero persino a vulnus pregiudizievoli di valori costituzionalmente protetti.
Giova, al fine di evidenziare tali criticità, brevemente di nuovo ricordare il contenuto del quesito proposto con l’iniziativa in epigrafe indicata, che appare tripartito rispetto alle disposizioni di cui si chiede contestualmente l’abrogazione.
I promotori, propongono, cioè, di eliminare contestualmente dal DPR 309/:
- la parola “coltiva” dall’art. 73, comma 1, dunque riferita alle sostanze di cui alla Tabella I (droghe pesanti, quali oppio, coca, eroina, morfina, ecc; cfr. art. 14, lett. a/DPR 309) e alla Tabella III (barbiturici, e preparazioni conseguenti; cfr. art. 14, lett. c/DPR 309);
- le parole “la reclusione da due a sei anni” dall’art. 73, comma 4, dunque riferibili alla Tabella II (cannabis, prodotti dalla stessa ottenuti, nonché le preparazioni contenenti cannabis e derivati; cfr. art. 14, lett. b/DPR 309) e alla Tabella IV (“droghe leggere” “con pericoli di dipendenza fisica o psichica di intensità e gravità minori di quelli di cui alle Tabelle I e III”, nonché le “preparazioni contenenti tali sostanze”);
- le parole “sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni” dall’art. 75, comma 1.
Parafrasando quanto esposto, ciò significa che il quesito chiede, contemporaneamente:
- di liberalizzare totalmente, dunque di rendere lecita e priva di ogni sanzione, penale e/o amministrativa, la coltivazione del papavero da oppio e della coca (in Tabella I, comma 1 art. 73), nonché -almeno sul piano dell’effetto formale- dei barbiturici (Tabella III, comma 1 art. 73), che però si conviene non essere elementi coltivabili;
- di liberalizzare totalmente, dunque di rendere lecita e senza alcuna possibile sanzione la coltivazione della canapa indiana (Tabella II, come da combinato disposto commi 4 e 1 art. 73) e, per quanto fisicamente possibile, delle droghe leggere della Tabella IV;
- di eliminare tutte le conseguenze detentive (reclusione) per ogni attività che abbia quale proprio oggetto la cannabis (Tabella II, comma 4 art. 73) ovvero “le preparazioni contenenti” cannabis “in conformità alle modalità indicate nella tabella dei medicinali” (cfr. art. 14 e Tabella II, richiamata al comma 4 art. 73), la quale, dunque, potrà essere, ad esempio, lavorata, raffinata, venduta, spacciata, offerta, distribuita, trasportata, spedita, consegnata, il tutto anche per ingenti quantità o verso persone minori o plessi scolastici, solo rischiando una multa;
- di eliminare tutte le conseguenze detentive (reclusione) per ogni attività che abbia quale proprio oggetto le droghe leggere della Tabella IV (comma 4 art. 73) ovvero “le preparazioni contenenti” tali sostanze “in conformità alle modalità indicate nella tabella dei medicinali” (cfr. art. 14 e Tabella IV, richiamata al comma 4 art. 73), le quali sostanze, dunque, potranno essere, ad esempio, raffinate, lavorate, vendute, offerte, distribuite, trasportate, spedite, consegnate, il tutto anche per ingenti quantità, solo rischiando una multa;
- di eliminare la possibilità che sia sospesa la patente di guida a chi “importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene” qualsiasi sostanza stupefacente compresa nelle Tabelle da I a IV (dunque, ad esempio, oppio, eroina, cocaina, marjuana, hashish, barbiturici, droghe leggere, ecc) per uso personale.
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2/B) Sull’inammissibilità dell’abrogazione di norme a contenuto vincolato.
Si è già avuto modo di vedere nel precedente motivo (n. 1) come almeno le fattispecie da I) a IV) descritte al precedente paragrafo (2/A) corrispondano a vincoli che gravano sullo Stato italiano per effetto di Convenzioni internazionali.
Una siffatta caratteristica deve essere anche sussunta nel criterio di ammissibilità secondo cui sono sottratte a referendum abrogativo quelle norme che rappresentano l’unica attuazione possibile di un principio costituzionale, senza che vi possa essere una scelta discrezionale del legislatore (cfr. Corte cost. 16/1978; Corte cost. n. 35/1997), categoria cui non può non equipararsi anche quella di norme che sono la trasposizione, necessaria, di obblighi internazionali assunti dallo Sato italiano. Come è l’art. 73, commi 1 e 4, del DPR 209/1990.
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2/C) Sull’inammissibilità per violazione delle caratteristiche di omogeneità, coerenza, semplicità, univocità e intellegibilità del quesito.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, il quesito referendario deve essere omogeneo, coerente e intelligibile, dovendo assicurare, in altri termini, “le necessarie garanzie di semplicità, di univocità, di completezza dei quesiti” (cfr. Corte cost., n. 26/1981).
Sono state, cioè ritenute inammissibili le richieste nelle quali ciascun quesito da sottoporre al corpo elettorale “contenga una tale pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria, da non poter venire ricondotto alla logica dell’art. 75 Cost.; discostandosi in modo manifesto ed arbitrario dagli scopi in vista dei quali l’istituto del referendum abrogativo è stato introdotto nella Costituzione, come strumento di genuina manifestazione della sovranità popolare” (Corte cost., n. 16/1978 cit.). Secondo l’orientamento della Corte, cioè, “occorre che i quesiti posti agli elettori siano tali da esaltare e non da coartare le loro possibilità di scelta; mentre è manifesto che un voto bloccato su molteplici complessi di questioni, insuscettibili di essere ricondotti ad unità, contraddice il principio democratico, incidendo di fatto sulla libertà del voto stesso (in violazione degli artt. 1 e 48 Cost.)” (ibid.).
In effetti, “il referendum nel suo significato, prima ancora che nella sua disciplina, nella sua collocazione e valore nel sistema, consiste in una scelta. E l’elemento, questo della scelta, essenziale e fondamentale per la determinazione del concetto tecnico di referendum, come lo è nelle consultazioni popolari in genere e, quindi, anzitutto nelle elezioni. Ma il concetto di scelta, a sua volta, è intimamente legato a quello di possibilità, con la conseguenza che, se non c’è possibilità, non c’è scelta e, se non c’è scelta, come non vi sono elezioni, così non c’è referendum. Ora, la possibilità di scelta, cioè il proprium dell’istituto referendario viene meno, quando la libertà di voto dell’elettore venga coartata. Ed essa è coartata, non già solo, ovviamente, nel caso limite della violenza fisica, come in quelli, meno irreali, più subdoli e multiformi di violenza morale, ma altresì nei casi di formulazione, né semplice, né chiara. La formulazione può non essere semplice e può non essere chiara per l’eterogeneità delle domande o per la contraddizione fra la richiesta di abrogazione di una disciplina e la mancata richiesta di abrogazione di altre disposizioni dettate nel medesimo contesto normativo e indissolubilmente legate a quelle che, invece, si vorrebbero sopprimere. Nelle consultazioni popolari, e perciò anche in quelle referendarie, in cui non è concepibile una risposta articolata, la nettezza della scelta postula la nettezza del quesito, la sua semplicità, cioè essenzialità, la sua chiarezza, cioè la sua inconfondibilità” (Corte costituzionale, n. 27/1981).
Il giudice delle leggi ha altresì affermato che “la natura del referendum abrogativo nel nostro sistema costituzionale è quella di atto-fonte dell’ordinamento dello stesso rango della legge ordinaria. Come il legislatore rappresentativo ispira e coordina la sua volontà ad un oggetto puntuale, così la volontà popolare deve poter ispirarsi ad una ratio altrettanto puntuale. Il quesito referendario è dotato di siffatta ratio quando in esso sia incorporata l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo” (Corte cost., n. 29/1987).
Ancora una volta, e come si è detto, è la chiarezza dell’intera operazione referendaria, cui univocità ed omogeneità sono direttamente funzionali, a porsi quale termine di riferimento, chiarezza che va, cioè, intesa come “inconfondibilità della domanda” (Corte cost., n. 28/1981) da sottoporre agli elettori, nel rispetto della fondamentale esigenza che sia loro garantita l’espressione di un voto consapevole (cfr. anche Corte cost., nn. 63, 64, 65/1990). Per converso, non è ammissibile il quesito di fronte al quale i cittadini siano convinti dell’opportunità di abrogare certe norme e a questo fine si rassegnino all’abrogazione di norme del tutto diverse, solo perché coinvolte nella medesima domanda, pur considerando che meriterebbe mantenerle in vigore ovvero di fronte al quale preferiscano orientarsi verso l’astensione dal voto o nel voto, rinunciando ad influire sull’esito della consultazione, in quanto l’inestricabile complessità delle questioni (ciascuna delle quali richiederebbe di essere diversamente e separatamente valutata) non consente loro di esprimersi né in modo affermativo né in modo negativo.
Univocità e omogeneità del quesito si presentano come funzionali all’imprescindibile trasparenza dell’operazione referendaria, nella quale devono appalesarsi “un criterio ispiratore fondamentalmente comune” o “un comune principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale” (Corte cost., nn. 22, 26, 28/1981; nn. 63, 64, 65/1990, cit.).
Nel caso che ci occupa, invece, tali dirimenti fattori non vengono a realtà.
Si è visto, da ultimo, al par. 2/A), come i contenuti veicolati dal quesito siano plurimi, molto ampli e non omogenei, riguardando, a mo’ di esempio:
α) se si voglia liberalizzare la coltivazione della cannabis (art. 73, commi 1 e 4), ma anche
β) se si voglia liberalizzare la coltivazione della cannabis, del papavero da oppio e/o della pianta della coca (art. 73, comma 1) e
γ) se si ritenga di escludere la relazione per il trasporto, lo spaccio, la vendita, la consegna di piccole quantità di cannabis (art. 73, comma 4) e
δ) se si sia d’accordo nell’escludere la reclusione per il commercio e lo spaccio anche e persino di ingenti quantità di marjuana e hashish (art. 73, comma 4) e
ε) se si voglia (come si vedrà meglio infra) consentire di “fabbricare, raffinare, produrre” “le preparazioni contenenti” cannabis o derivati anche in difformità dalle “modalità indicate nella tabella dei medicinali” (art. 73, comma 4 con tinvia alla Tabella II) e
ζ) se si voglia (come si vedrà meglio infra) consentire a fronte di una sola multa di “fabbricare, raffinare, produrre” “le preparazioni contenenti” sostanze delle droghe leggere della Tabella IV anche in difformità dalle “modalità indicate nella tabella dei medicinali” e ciò anche a scopo medicinale al di fuori delle regole farmaceutiche (art. 73, comma 4 con rinvio alla Tabella IV) e
η) se si voglia eliminare la possibilità che sia sospesa la patente di guida a chi “importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene” qualsiasi sostanza stupefacente compresa nelle Tabelle da I a IV (quali, ad esempio, oppio, eroina, cocaina, marjuana, hashish, ecc.) per uso personale.
Sono davvero molte le possibili potenziali opzioni su cui un elettore dovrebbe poter riflettere. Ad esempio, potrebbe concordare solo sulla coltivazione libera della cannabis (α), ma non su quella del papavero da oppio e/o della pianta della coca, che sono consumabili anche senza alcuna ulteriore lavorazione (β), ovvero potrebbe anche convenire sulla liberalizzazione della coltivazione della canapa(α), ma non su una attenuazione delle pene per chi spaccia (γ e δ) oppure potrebbe non opporsi all’attenuazione delle pene per attività inerenti piccole quantità di stupefacenti (γ) pur restando convinto della necessità della reclusione per spacciatori di quantità significative (δ) o, ancora, l’elettore potrebbe non voler la sospensione della patente per detenzione di piccole dosi (η) ma rimanere persuaso dell’opportunità della pena della reclusione per lo spaccio di marjuana e/o hashish (γ e δ) ovvero concordare sulla legalizzazione di oppio, coca e cannabis (α e β) senza voler che si lavorino le preparazioni contenenti dette sostanze in difformità dalle regole sanitarie che presidiano i medicinali e il settore farmaceutico (ζ e η).
Sono, questi, solo alcuni degli esempi che dimostrano irrefutabilmente la inopinata eterogeneità dei contenuti posti, nonché la palese violazione dei parametri di omogeneità, univocità, chiarezza e semplicità in rubrica indicati, con la necessaria conseguente declaratoria di inammissibilità del quesito referendario in parola.
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2/D) Sull’inammissibilità per violazione dei parametri di completezza e di idoneità a conseguire il fine perseguito del quesito.
Il quesito referendario deve altresì dimostrare sufficienti tatti di “completezza” e, dunque, di “idoneità a conseguire il fine perseguito”, il che rende “necessario: a) individuare l’intento con esso perseguito; b) individuare la normativa di risulta; c) porre a confronto i risultati di cui alle predette indagini” (cfr. Corte cost. n. 25/2011).
Rispetto ai parametri in questa sede evocati, si deve mettere in luce come la annunciata pretesa di “depenalizzare” (legalizzare/liberalizzare) “la condotta di coltivazione di qualsiasi pianta” (canapa indiana, coca e papavero da oppio), come si legge sul portale dei promotori del referendum (cfr. doc. 5, pag. 5; https://referendum cannabis.it/informati/) sia, sul piano pratico, vanificata dalla permanenza di non poche norme di segno opposto (sulle quali non vengano avanzate richieste abrogative, come logica avrebbe voluto), norme che affermano e dispongono, comunque, la illiceità anche penale di “colture” non autorizzate di tali piante con effetti propri degli stupefacenti.
i) Innanzitutto, la proposta referendaria non tocca l’art. 26 del Testo unico n. 309/1990, secondo il quale “è vietata la coltivazione delle piante comprese -tanto- nella tabella I -(coca e papavero da oppio) quanto- nella tabella II” (cannabis) in assenza della specifica autorizzazione prescritta dagli artt. 2, 17 e 27 dello stesso DPR 209/1990 ovvero qualora il soggetto agente non sia inserito nell’elenco aggiornato delle imprese autorizzate alla coltivazione (cfr. art. 16 DPR 309/1990), le quali imprese, ai sensi del successivo art. 34, devono persino tenere a disposizione “locali idonei” “per il controllo dell’entrata e dell’uscita delle sostanze stupefacenti” da parte dei “militari della Guardia di finanza” che ivi “devono essere dislocati”.
ii) Altresì, al referendum richiesto nel settembre 2021 sopravviverebbe l’art. 28 del DPR 209, ove si prevede che chi coltivi le piante di cannabis, oppio o coca senza autorizzazione incorra nelle medesime “sanzioni penali ed amministrative stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse”. Ora, come si è visto, la richiesta referendaria non incide affatto sulla condotta di “fabbricazione” di droghe, per la quale il comma 1 dell’art. 73 del DPR 309/1990 (per oppio e coca, richiamato anche dal comma 4 per la cannabis) prevede significative pene detentive. Di conseguenza, anche qualora il referendum proposto venisse approvato, egualmente per chi coltivasse senza la prescritta autorizzazione canapa indiana, papavero da oppio o piante di coca incorrerebbe proprio nella citata sanzione della reclusione, in quanto detta condotta verrebbe considerata “fabbricazione” di sostanze stupefacenti ancora penalmente perseguite all’art. 73, commi 1 e 4, DPR 309/1990.
L’eventuale approvazione della proposta referendaria comporterebbe, quindi, con ogni evidenza, che la coltivazione non autorizzata, tanto della coca e del papavero da oppio quanto della cannabis, continuerebbe comunque ad essere penalmente sanzionata, con la differenza, però, che mentre per la coca ed il papavero la sanzione rimarrebbe quella della reclusione unita alla multa, quale prevista dal comma 1 dell’art. 73 del Testo unico, per la cannabis, soggetta alle previsioni del comma IV, rimarrebbe invece applicabile la sola multa.
In ogni caso, si insiste nell’osservare che, con buona pace dei promotori, né per la cannabis, né per le piante di coca, né per il papavero da oppio avverrebbe alcuna “liberalizzazione”, giacché il dichiarato effetto di legalizzare “la condotta di coltivazione di qualsiasi pianta” (cfr. doc. 5, pag. 5) di sostanze stupefacenti non verrebbe affatto conseguito.
iii) Nemmeno quanto si prefiggono i promotori con la seconda parte del quesito potrà essere ottenuto sulla base della richiesta effettivamente proposta. Anzi, si va incontro a un inaccettabile effetto paradossale, che sarà ripreso anche nel successivo motivo per gli specifici diversi profili che ivi saranno considerati (n. 3).
Rispetto, cioè, alla richiesta di eliminare la detenzione per le condotte illecite relative alla cannabis, con la richiesta abrogazione delle relative parole riferite alla reclusione al comma 4 dell’art. 73, si deve attirare l’attenzione sul comma 5 dello stesso art. 73 del DPR 309/90, come modificato dall’art. 2 del d.l. 23 dicembre 2013 n. 146, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 10 e non oggetto di richieste referendarie, il quale, come noto, dispone una pena detentiva minore rispetto a quelle previste al comma 1 e al comma 4, se la condotta è “di lieve entità”, “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze”.
Ora, secondo l’insegnamento di Cassazione Penale, Sez. VI, 26 marzo 2014 detta “ipotesi lieve” di condotta illecita in tema di sostanze stupefacenti dev’essere rappresentata come figura di reato autonoma rispetto a quella delineata dal comma primo dell’art. 73 dpr citato.
Quindi, qualora una delle condotte stigmatizzate aventi ad oggetto cannabis (spaccio, trasporto, ecc.) sia di lieve entità, essa rimarrebbe punita con la reclusione (!), ai sensi del considerato comma 5 dell’art. 73, e ciò anche qualora il referendum richiesto conducesse alla abrogazione delle parole relative alla “reclusione” al comma 4.
Non potrebbe esservi effetto più paradossale a leggere le declamate intenzioni dei promotori, i quali, evidentemente (e a tacer d’altro, di cui si dirà) avrebbero dovuto semmai coinvolgere nel quesito anche il considerato comma 5, con la relativa scolastica incompletezza e aporeticità di quanto invece effettivamente proposto. Ma così non è stato.
Difettano, dunque, e platealmente, i requisiti in oggetto indicati, quelli, cioè, della idoneità dell’iniziativa referendaria a conseguire gli scopi dichiarati, nonché della completezza del quesito proposto, requisiti che sono necessari ai fini dell’ammissione dell’iniziativa referendaria in oggetto.
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3) Ancora in subordine: sulla inammissibilità del richiesto referendum – Violazione dei parametri all’uopo elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in punto di inammissibilità di effetti manipolativi, peraltro lesivi di valori costituzionalmente rilevanti – Violazione, sotto tale particolarmente grave profilo, del necessario rispetto della natura ablativa dello strumento referendario.
L’esame circa il (mancato) rispetto dei parametri di ammissibilità elaborati dall’ecc.ma Corte costituzionale svolto nel precedente motivo n. 2) prosegue in questa sede, considerando anche gli effetti manipolativi di taluni profili che si risolvono in un palese, anch’esso autonomamente, contrasto con prioritari valori di rango costituzionale.
3/A) Sull’inammissibilità di quesiti aventi carattere manipolativo.
Con sentenza n. 46/2003 la Corte costituzionale dichiarò inammissibile una proposta di referendum abrogativo, osservando che la sua eventuale approvazione avrebbe dato luogo a illegittimità della normativa di risulta. Ciò sulla scorta del principio, già affermato in altre, richiamate sentenze della stessa Corte, secondo cui non può ritenersi ammissibile una proposta referendaria quando con essa si tenti, “attraverso l’operazione di ritaglio sulle parole ed il conseguente stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, di introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento, ma anzi del tutto estranea al contesto normativo“.
Quanto proposto ai sensi dell’art. 75 della Costituzione, dunque, deve assicurare il dovuto “rispetto della natura essenzialmente ablativa – e non manipolativa- dell’operazione referendaria” (cfr. Corte cost. n. 24/2011; cfr. anche,ex multis, sentenze nn. 26/2017, 13/2012, 28/201).
Pertanto, se le contraddizioni fra il quesito proposto e la normativa di risulta sono state sinteticamente accennate al precedente paragrafo sub n. 2/D, corre ora l’obbligo di dare conto del carattere manipolativo, sotto plurimi profili, del quesito referendario in epigrafe esposto, il che, come si è detto, appare inammissibile sia in sé, sia per la presenza di conseguenze palesemente contrastanti con preminenti valori costituzionali.
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3/B) Sull’introduzione di una incostituzionale normativa “di favore” per la produzione dell’oppio, della coca e della canapa indiana nonché degli stupefacenti da essi derivabili, in palese e inammissibile violazione dei valori relativi alla sicurezza pubblica e alla indefettibile perseguibilità dei delitti in materia di sostanze stupefacenti.
Come si è avuto modo di evidenziare nel corso del presente atto, l’approvazione del referendum vorrebbe ottenere (al netto delle esposte e contrastanti relazioni di cui si è detto con la normativa di risulta evincibile soprattutto agli artt. 26-28 DPR 209/90) la sostanziale liberalizzazione della “coltivazione” di molte sostanze stupefacenti, fra cui la coca, l’oppio (Tabella I), la canapa indiana e le droghe leggere (Tabelle II e IV).
Come si è avuto modo di riferire, ciò che verrebbe legalizzato vorrebbe essere qualsiasi attività di coltivazione, non soltanto, cioè, quella in forma domestica, poiché l’abrogazione tranchant della parola ‘coltiva’ dall’art. 73, comma 1, DPR 209/1990, prescinde dall’estensione della stessa attività, il che significa che si potranno, lecitamente, attrezzare a coltivazione di coca, oppio e canapa indiana grandi e vasti fondi agricoli! Così l’evidente maggiore remuneratività derivante dal dedicare un appezzamento di terreno alle piante di cannabis, di papavero da oppio e di coca invece che alle colture della tradizionale ortofrutta incentiverà agricoltori più o meno professionali a dedicarsi a questo nuovo mercato, spinti dall’esclusivo intento di profitti maggiori e più facili, con possibilità di spaziare all’oppio e alla coca.
Ora, non v’è chi non veda come tale effetto sia in inaccettabile contrasto con le finalità di disincentivazione e repressione del mercato degli stupefacenti scolpite con grandi chiarezza e determinazione nelle Convenzioni internazionali in precedenza citate, ma anche, e fra l’altro, all’art. 1 del DPR n. 390/1990, che indirizza l’intera normativa di settore espressamente “contro la illecita produzione e diffusione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, a livello interno e internazionale”.
Non solo. È circostanza notoria che il sistema di investigazione e repressione ha una privilegiata possibilità di incisività proprio attorno alla fase della “coltivazione” degli stupefacenti, atteso che altri passaggi illeciti possono essere più facilmente occultati. Sulla “coltivazione”, perciò, si attesta la possibilità di una “difesa anticipata” rispetto all’azione di repressione penale degli inquirenti, che la normativa internazionale e nazionale impone contro la diffusione degli stupefacenti.
Pertanto, la voluta legalizzazione della coltivazione delle droghe otterrà, surrettiziamente, l’effetto, assolutamente inaccettabile, di diminuire l’efficacia di tale “difesa anticipata” degli apparati investigativi dello Stato italiano.
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3/C) Sull’introduzione di una incostituzionale normativa di favore per lo spaccio della canapa indiana e degli stupefacenti suoi derivati, in palese e inammissibile violazione dei valori relativi alla sicurezza pubblica, alla indefettibile perseguibilità dei delitti in materia di sostanze stupefacenti, alla educazione dei minori, alla salvaguardia dei percorsi educativi, ai doveri di cura e di tutela dei più fragili.
In premessa, devesi ricordare che il referendum proposto non incide sulle condotte diverse dalla coltivazione che abbiano ad oggetto “droghe pesanti” (cfr. art. 73, comma 1, DPR 309/1990), pur quando esse fossero di minima entità e tali quindi, da dar luogo alla speciale attenuante del c.d. “caso lieve”, prevista dal comma 5 dell’art. 73 del Testo unico 309/90: ad esse rimarrebbe sempre applicabile la pena della reclusione nel minimo di sei mesi.
Invece, il quesito del proposto nuovo referendum coinvolge l’intero comma 4 dell’art. 73 del DPR 209/1990, con ciò considerando, fra l’altro, tutte le condotte -diverse dalla totalmente legalizzata “coltivazione” – aventi ad oggetto la canapa indiana, alle quali (es: raffinazione, spaccio, trasporto, importazione, esportazione, ecc.)sarebbe sempre e comunque applicabile la sola multa, quale che fosse la gravità delle stesse nel caso specifico, attesa la pretesa eliminazione di ogni riferimento alla pena della reclusione nel comma 4 in commento. Quindi, anche quando sussistessero una o più delle aggravanti previste dall’art. 80 del Testo unico 309/90 quali, ad esempio, l’ingente quantitativo ovvero la consegna della droga a soggetti di età minore o in prossimità di istituti scolastici, non scatterebbe mai alcuna pena detentiva. Tali aggravanti danno luogo, infatti, solo ad aumenti della stessa pena prevista per il reato base, ma non all’applicazione di una pena di specie diversa e più grave, fatta eccezione per il solo caso in cui, trattandosi di quantità ingente, sussista anche l’ipotesi di cui alla lett. e) del citato art. 80 (adulterazione o commistione delle sostanze in modo che ne risulti accentuata la potenzialità lesiva).
Dunque, in ragione di quanto ora osservato, nonché della assenza di ogni riferimento ad elementi quantitativi nella richiesta del quesito di eliminare dal comma 4 dell’art 73 DPR 209/90 la pena della reclusione, si viene a creare un gravissimo effetto manipolativo, che si risolve nell’introduzione addirittura di una disciplina di favore per grandi raffinatori, trasportatori o spacciatori di marjuana e/o hashish in sensibili quantitativi o persino a danno di minori o presso gli istituti scolastici. Così, per simili gravissime attività di commercializzazione di grandi quantità di cannabis davvero diverrebbe irrisorio e ininfluente, sotto il profilo della deterrenza, il (peraltro assai remoto) rischio di ricevere una mera sanzione economica quale la “multa” che, essa sola, rimarrebbe comminabile dopo la riformulazione del comma 4 dell’art. 73 DPR 209/1990 come auspicata dai promotori del referendum.
Vi è, poi, un ulteriore argomento, che dimostra l’aberrante e paradossale effetto manipolativo del quesito proposto, persino, cioè, nel senso di condurre a totalmente illogiche e inaudite conseguenze minori per i fatti più gravi e peggiori per i fatti più tenui.
Si richiama, in proposito, quanto già esposto al precedente motivo n. 2/D/iii), nonché la parte del quesito in cui si vorrebbe eliminare per tutte le condotte (diverse dalla “coltivazione” del tutto depenalizzata) inerenti alla canapa indiana la pena della reclusione dall’art. 73, comma 4, DPR 309/1990, facendo sopravvivere, in tale comma, la previsione di una sola “multa”.
Riprendendo, sotto un diverso profilo quanto già osservato al riguardo, si ricorderà che il quesito, rispetto alla previsione di cui all’art. 73, comma 5, provoca una conseguenza aberrante e inconciliabile con il sistema normativo di settore. Dispone, detto comma 5 dell’art. 73, che “chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e la quantità delle sostanze, e di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1032,00 a euro 10.329,00”. Cosicché se le condotte di spaccio, trasporto, lavorazione ecc., per la cannabis e le droghe leggere a seguito del referendum divenissero punibili con la sola multa, qualora si fosse, però, di fronte ad una circostanza “di lieve entità”, allora il riconoscimento di tale situazione darebbe luogo alla paradossale conseguenza per cui dovrebbe essere comminata la reclusione. Il citato comma 5 dell’art. 73 del Testo unico, infatti, si riferisce indistintamente a tutte le ipotesi di reato previste dai commi precedenti, ivi comprese, quindi, quelle di cui al comma 4, e stabilisce che esse siano punite, se riconosciute, appunto, di “lieve entità”, con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni, più una multa.
Pertanto, il quesito referendario finirebbe per migliorare sensibilmente gli effetti penali soprattutto (se non esclusivamente) per spacciatori di ingenti quantità di cannabis e di suoi derivati ovvero di offerte di marjuana e hashish a minori o presso i plessi scolastici, i quali spacciatori al più potrebbero essere puniti con una mera multa, mentre alla commissione di analoghe condotte di lieve entità seguirebbe comunque la reclusione!
Il quesito, dunque, introduce un inequivocabile principale effetto manipolativo di favor per gravi fatti di spaccio di canapa indiana che non può essere accettato nel nostro ordinamento, né, come si è visto, eludere i precisi vincoli internazionali come si è osservato al motivo n. 1).
Che detto aberrante effetto appaia, peraltro, quello che più concretamente potrebbe derivare dall’ammissione del referendum in parola deriva anche, per converso, dalla sostanziale inutilità dello stesso rispetto al consumo di piccole quantità di stupefacenti.
Infatti, secondo il recente orientamento della Corte di cassazione, quale espresso dalle sezioni unite con la sentenza n. 12348/2019, la coltivazione della cannabis non costituisce reato quando essa, “in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all’uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto”.
In pratica, quindi, l’esito positivo del referendum , per un verso, poco o nulla gioverebbe alla posizione di colui che, limitandosi alla coltivazione, in ambito domestico, di poche piante di “cannabis” ad uso esclusivamente personale, già ora potrebbe facilmente andare del tutto esente da pena; per altro verso, risulterebbe invece enormemente avvantaggiata la posizione di chi, ad esempio, dedicandosi a gravi attività illecite di spaccio di marjuana e hashish, come pure di commercializzazione di tali prodotti anche su scala industriale, altro non rischierebbe se non l’applicazione di una multa e non anche, come oggi avviene, della sanzione detentiva della reclusione.
In estrema sintesi, il significato del referendum proposto diviene soprattutto quello di alleggerire le sanzioni per i fatti più gravi di raffinazione, detenzione, trasporto, vendita, spaccio, consegna di canapa indiana e delle sostanze stupefacenti dalla stessa derivabili.
Né serve certo indugiare su quanti essenziali e preminenti beni costituzionali vengano così pregiudicati, ad esempio, sui piani della lotta alla criminalità, nonché della tutela dei soggetti più fragili, ai sensi dello stesso art. 3 della Costituzione, come della doverosa protezione verso i giovani ex art. 31, comma 2, Cost., ovvero della protezione della salute ai sensi dell’art. 32, comma 1, e dei percorsi scolastici anche in nome dell’art. 34 della stessa Carta fondamentale.
Non può, pertanto, dubitarsi dell’inammissibilità del richiesto referendum come in oggetto descritto.
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3/D) Sull’introduzione di una normativa derogatoria per le preparazioni contenenti sostanze stupefacenti rispetto alle prescrizioni per i medicinali e alla Farmacopea.
È necessario attirare l’attenzione su uno dei già rappresentati effetti che deriverebbero dall’approvazione della richiesta di referendum (cfr. motivo 2/A). Ci si riferisce alla richiesta eliminazione di conseguenze detentive (anche) per ogni attività che abbia quale proprio oggetto “le preparazioni contenenti” cannabis “in conformità alle modalità indicate nella tabella dei medicinali” (cfr. art. 14 e Tabella II, richiamata al comma 4 art. 73) ovvero “le preparazioni contenenti” sostanze producenti dipendenze meno gravi di quelle alle Tabelle I/III (c.d. droghe leggere) “in conformità alle modalità indicate nella tabella dei medicinali” (cfr. art. 14 e Tabella IV, richiamata al comma 4 art. 73), le quali sostanze, dunque, potranno essere, ad esempio, raffinate, lavorate, vendute, offerte, distribuite, trasportate, spedite, consegnate, il tutto anche per ingenti quantità, solo rischiando una multa.
Dunque, in ragione di tale richiesta abrogazione si potrà -al più pagando una mera multa- manipolare e lavorare “le preparazioni contenenti” cannabis e le altre droghe leggere della Tabella IV in difformità dalle puntuali indicazioni farmaceutiche e sanitarie all’uopo contenute nella apposita “tabella dei medicinali” di cui alla lettera e) dell’art. 73 DPR 209/1990. Non solo: atteso che, ai sensi dell’art. 13 DPR 309/1990, l’ivi previsto Decreto Ministeriale di ulteriore disciplina delle tabelle dei medicinali e dell’utilizzo farmacologico delle sostanze stupefacenti viene dichiarato parte integrante della Farmacopea italiana, la diminuita sanzione che il referendum vorrebbe per le condotte di lavorazione delle succitate preparazioni e sostanze si risolverebbe in un grave favor verso condotte contrastanti con le menzionate tabelle dei medicinali e le prescrizioni sanitarie nell’utilizzo delle stesse contenute, ai sensi dell’art. 124 del Testo unico delle leggi sanitarie di cui al RD 27 luglio 1934, n. 1265.
Viene, dunque, in essere un inaccettabile abbassamento dei parametri per la tutela della salute, in palese contrasto, sotto un ulteriore profilo, con l’art. 32, comma 1, della Costituzione.
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3/E) Sull’introduzione di una normativa contrastante con la migliore tutela, di rango costituzionale, della sicurezza pubblica, nonché di favore rispetto alle condotte di trasporto delle sostanze stupefacenti.
Il richiesto intervento abrogativo che il quesito propone sull’art. 75, comma 1, lett. a), del DPR 309/1990 intende eliminare la possibilità che venga sospesa la patente di guida a chi, per uso personale, “importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene” qualsiasi sostanza stupefacente compresa nelle Tabelle da I a IV (da oppio, a eroina, a cocaina, a marjuana, a hashish, ecc.) per uso personale.
Appare di tutta evidenza come detta attuale previsione abbia anche fra i propri effetti (e dunque fra i significati della stessa) una ricercata deterrenza a utilizzare veicoli per spostare e detenere ogni tipo di droga, con il corollario di ostacolare l’impiego di tali, molto diffusi, mezzi personali di trasporto per un siffatto illecito scopo.
Dette ricercate conseguenze significano, dunque, voler porre condizioni di minor rischio per la circolazione stradale, nonché scoraggiare la circuitazione e, dunque, il potenziale spaccio delle sostanze stupefacenti.
Pertanto, la proposta abrogazione della lettera a) dell’art. 75 del DPR 309/1990 evidenzia un effetto manipolativo anche in questo caso gravemente contrastante con essenziali valori costituzionali quali la sicurezza pubblica nelle strade e la lotta al traffico di stupefacenti.
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Per le ragioni sopra esposte, con riserva di ogni ulteriore argomento e istanza a difesa, il Comitato per il NO alla droga legale, in epigrafe indicato e rappresentato dal prof. Angelo vescovi, a mezzo dei sottoscritti legali,
CHIEDE
che codesta ecc.ma Corte costituzionale
VOGLIA
in via processuale:
- ammettere l’intervento ad opponendum dello stesso “Comitato per il No alla droga legale” nel procedimento in epigrafe rubricato;
- autorizzare la presenza all’udienza del 15 febbraio 2022, nonché a ogni altra che venisse successivamente calendarizzata, dei sottoscritti difensori, con il relativo intervento orale degli stessi;
nel merito: dichiarare inammissibile la richiesta di referendum ex art. 75 della Costituzione di cui al verbale della Cancelleria della Corte di cassazione del 7 settembre 2021, annunciata nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 215 dell’8 settembre 2021 (n. 21A05375), rispetto alla quale l’Ufficio centrale per il referendum della Corte Suprema di Cassazione ha accertato la presenza dei requisiti formali esposti all’art. 32, comma 2, della legge n. 352/1970 con ordinanza del 10 gennaio 2022, depositata in cancelleria il giorno successivo, con ogni pronuncia consequenziale.
Con ogni conseguenza derivante dall’accoglimento delle suesposte istanze e conclusioni.
Con la presente memoria si depositano, oltre alla Procura alle liti (con file separato attestato ex art. 22 CAD), i seguenti documenti:
doc. 1 – Copia digitale dell’atto costitutivo e dello Statuto del “Comitato per il no alla droga legale”, di cui all’atto del Notaio Francesco Balletti di oma, 21 dicembre 2021, rep. 10993;
doc. 2 – Copia del certificato di attribuzione del Codice Fiscale del Comitato interveniente, rilasciato dall’Agenzia delle Entrate in data 5 gennaio 2022;
doc. 3 – Copia della carta di identità del Presidente del Comitato interveniente, prof. Angelo Vescovi;
doc. 4 – Copia della deliberazione del Consiglio esecutivo dell’interveniente Comitato per il No alla droga legale del 2 febbraio 2022, di autorizzazione a stare nel presente giudizio;
doc. 5 – Documentazione estratta dal portale web dei promotori del referendum in epigrafe indicato;
doc. 6 – Ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum della Corte Suprema di Cassazione del 10 gennaio 2022.
Roma, 8 febbraio 2022
Prof. Avv. Mauro Ronco
Prof. Avv. Mario Esposito
Avv. Francesco Cavallo
Avv. Domenico Menorello