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Rispetto al significato generalmente attribuito al termine díke, nettamente diverso è quello che nel mondo greco viene assegnato ai termini usati per indicare il diritto, o la legge, che del diritto rappresenta al tempo stesso il fondamento e l’espressione più compiuta. Secondo Eraclito, dunque, il nómos, la «legge», è espressione di una misura, di una razionalità divina. Solo in quanto è «riflesso» di quella divina, la legga umana può vantare una sua legittimità. Al di fuori di questo fondamento, ove il nómos venga concepito come formulazione autonoma, esso perde ogni validità.

Discussa e frammentaria è la cronologia di Eraclito come lo sono le fonti sulla sua biografia. Sappiamo che visse ad Efeso e da Efeso si allontanò dopo che i suoi concittadini decisero di stringere alleanze con la democratica “Atene”. Così scrive Diogene Laerzio.

Ripercorrendo le parole di Diogene Laerzio, Eraclito nacque intorno al 520 a.C: e fiorì, verso la 69.a olimpiade, cioè nel 504, 500 a.C. Fu altero, superbo, non sempre chiaro nello scrivere tanto che verrà soprannominato da Aristotele “o skoteinòs” l’oscuro. Si ritirò dalla vita politica quando la sua Città, Efeso, dominata dai Persiani, si rivoltò e riuscì a cacciare via l’amico Ermiodoro, come ci racconta il fr. N. 121, uomo saggio e capace.

Si ritirò così nel tempio di Artemide, vivendo in solitudine. Questo singolare aspetto della vita è stato preso come cifra non solo del “filosofo” ascetico, dedito alla riflessione, ma del filosofo che rifiuta le opinioni condivise e abituali cercando oltre l’apparenza ed il fenomeno. Sarebbe morto nel 460 a.c.[1]

Rispetto al significato generalmente attribuito al termine díke, nettamente diverso è quello che nel mondo greco viene assegnato ai termini usati per indicare il diritto, o la legge, che del diritto rappresenta al tempo stesso il fondamento e l’espressione più compiuta. Anche in questo caso, fra i numerosi riferimenti possibili, le espressioni più pregnanti si devono a un filosofo e a un poeta come Eraclito.

Secondo Eraclito, dunque, il nómos, la «legge», è espressione di una misura, di una razionalità divina. Solo in quanto è «riflesso» di quella divina, la legga umana può vantare una sua legittimità. Al di fuori di questo fondamento, ove il nómos venga concepito come formulazione autonoma, esso perde ogni validità.

Eraclito, infatti, nel frammento 114 Diels-Kranz, amplia ed esplicita concetti presenti nei frammenti di Anassimandro ed Anassimene[2]: ξὺν νῷ λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῷ ξυνῷ πάντων, ὅκωσπερ νόμῳ πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται (“occorre che chi parla con senno si poggi su ciò che è comune a tutti, come la città sulla legge, e con molta più forza. Infatti, tutte le leggi umane sono nutrite dall’unica legge divina: essa regna tanto quanto vuole e a tutto serve e sopravvive”).

Questa “legge divina”, alla quale si rifanno le leggi umane, domina su tutto come l’ἀήρ di Anassimene, e, come l’ἄπειρον di Anassimandro, regola l’esistenza di ogni elemento del reale.

La necessità di poggiarsi su quest’ordine metafisico, “comune a tutti”, è espressa dal verbo ἰσχυρίζεσθαι, appartenente anch’esso al linguaggio giuridico, come testimonia un decreto proveniente da Magnesia (Caria), datato al 111 a. C.: …[ἰσχυρ]ίζεσθαι τὰς ἀποδείξεις ἐπιστολαῖς βασιλικαῖς…15 (“…le prove si poggiano sulle epistole regali …”).

Vi sono altri due frammenti di Eraclito in cui compare il termine νόμος:

νόμος καὶ βουλῇ πείθεσθαι ἑνός (fr. 33 Diels-Kranz) (“è legge anche obbedire alla volontà di uno solo”).

μάχεσθαι χρὴ τὸν δῆμον ὑπὲρ τοῦ νόμου ὅκωσπερ τείχεος (fr. 44 Diels-Kranz) (“bisogna che il popolo combatta per la legge come per le mura”).

Mentre il primo frammento riflette la situazione politica di Efeso al tempo di Eraclito, assieme al punto di vista dello stesso filosofo (rinviando al frammento 121 Diels-Kranz, in cui Eraclito critica gli Efesii per aver cacciato Ermodoro dalla città), il secondo mette ancora una volta in risalto l’indiscutibile importanza della legge, che va difesa come le mura della città: come nel frammento 114 Diels-Kranz, anche qui viene impiegato il costrutto con χρή seguito dall’infinito, con il chiaro intento di enfatizzare la necessità della salvaguardia della legge. [3]

Lo stesso costrutto si ritrova, in stretta associazione con la sfera giuridica, nel frammento 80 Diels-Kranz: εἰδέναι δὲ χρὴ τὸν πόλεμον ἐόντα ξυνόν, καὶ δίκην ἔριν, καὶ γινόμενα πάντα κατ’ ἔριν καὶ χρεών (“bisogna sapere che la guerra è comune, e la giustizia è lotta, e tutto accade secondo lotta e necessità”).

Ritroviamo qui due termini che ricoprivano un ruolo fondamentale nel frammento anassimandreo[4]: δίκη e χρεώ.

Tuttavia, se il concetto di “necessità” continua ad essere relazionato al divenire della realtà, quello di “giustizia” muta radicalmente il suo significato, in quanto, come osserva C. Diano, questo frammento elimina la contrapposizione tra giustizia e ingiustizia[5]: si considera giusta la stessa contrapposizione tra i diversi elementi del reale, in quanto necessaria per il divenire.

Vengono pertanto distinti e delineati due piani della giustizia: se su di un piano fisico, di carattere squisitamente giuridico, ciò che è giusto esiste in quanto contrapposto a ciò che è ingiusto, su di un piano metafisico, ossia a livello universale, tutto è giusto in quanto esiste e si trasforma necessariamente.

Il termine δίκη si ritrova in altri tre frammenti di Eraclito (fr. 28b Diels-Kranz). Δίκη καταλήψεται ψευδῶν τέκτονας καὶ μάρτυρας (“la Giustizia condannerà artefici e testimoni di menzogne”). Δίκης ὄνομα οὐκ ἂν ἤιδεσαν, εἰ ταῦτα μὴ ἦν (fr. 23 Diels-Kranz) (“non conoscerebbero il nome della Giustizia, se queste cose non esistessero”).

Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν (fr. 94 Diels-Kranz) (“il sole non oltrepasserà le misure: in caso contrario, le Erinni ministre della Giustizia lo scoveranno”).

Anche qui dunque l’intervento di díke, attraverso le sue «ministre», si concretizza nella restaurazione di un ordine che coincide con il rispetto delle misure. A questa regola inflessibile non sono assoggettati soltanto gli uomini, ma tutto ciò che è parte del kósmos. È compito delle implacabili Erinni vigilare affinché nessuno violi i principi sui quali è costruito l’ordinamento dell’universo

La legge era per Eraclito la più alta espressione del dominio della ragione sulla vita umana.

La salvezza delle città dipende dalla conservazione delle leggi, che costituiscono la muraglia spirituale che protegge la vita della comunità. Le leggi sono le fondamenta invisibili su cui si basa la forza dei membri della comunità, unendoli in una sola polis. Secondo Eraclito, l’universo è governato da una legge divina che permea tutto e le leggi degli stati derivano la loro validità da questa legge universale. La conservazione delle leggi è quindi essenziale per la salvezza non solo della città, ma anche dell’intero universo.

Pertanto, Eraclito non solo concepì il principio dell’universo come una legge o una giustizia cosmica, come Anassimandro, ma direttamente ha connesso la legge umana e la vita della comunità con questo divino ordine.

Con il frammento 102 Diels-Kranz, in cui Eraclito rende ancora più esplicita la distinzione tra i due piani della giustizia: τῶι μὲν θεῶι καλὰ πάντα καὶ ἀγαθὰ καὶ δίκαια, ἄνθρωποι δὲ ἃ μὲν ἄδικα ὑπειλήφασιν ἃ δὲ δίκαια (“per la divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste, ma gli uomini ne considerano alcune ingiuste, altre giuste”).

La sentenza di Eraclito riprende il concetto di Anassimandro per il quale le adikiai (le ingiuste sopraffazioni di un ente nei confronti di un altro, le appropriazioni di essere che devono venire restituite) avvengono secondo necessità. Eraclito sembra togliere al divenire il carattere etico–giuridico sostenendo che la contrapposizione di un giusto e un ingiusto distinti è frutto di una visione parziale e unilaterale di coloro che non sanno. In verità, egli sta sviluppando una spiegazione di Anassimandro: gli esseri che si scontrano nel divenire, nella physis, bilanciandosi al limite dell’azzeramento definitivo, non sono gli uni giusti e gli altri ingiusti, perché ciascuno è al servizio della giustizia che ha deciso che nessuno dei contrari prevalga sull’altro.

Infatti, gli esseri sono costretti a pagare l’ingiustizia che commettono nascendo, in altre parole sono stabiliti in un rapporto che li costringe a essere rispettivamente giusti.

Una volta che sia stato riconosciuto tutto ciò, è possibile cercare di indicare quale irrinunciabile funzione positiva è comunque possibile esigere dal diritto. Liberato dalla pretesa di un perfetto «rispecchiamento» di díke, affrancato dalla mitologica illusione di «fare giustizia», il diritto svolge un ruolo insopprimibile, senza il quale le basi stesse della convivenza civile potrebbero dissolversi. Fin nella sua stessa radice etimologica, il termine «diritto», in tutte le lingue che derivano dalla matrice indoeuropea, è associato al riferimento a una linea retta: in italiano diritto, in inglese right, in tedesco Recht, in francese droit.

Fondamentale nell’idea stessa di diritto è dunque la linearità, e la precisione – la stessa linearità e precisione che si ritrovano in tutto ciò che è dritto, che procede secondo una linea retta.[6]

Daniele Onori


[1] da “I Presocratici, Testimonianze e frammenti”, a cura di G. Giannantoni e AA.VV. Laterza, Bari 1981, pp. 179- 180,182.I

[2] Gli autori dei primi testi filosofici utilizzavano il linguaggio giuridico, nell’esprimere il proprio pensiero sull’origine dell’essere, presumibilmente con l’intento di porre in relazione l’autorità esercitata dalla legge sugli uomini con le norme attraverso cui il principio assoluto governa l’universo; in questo modo viene creato un efficace parallelismo tra le norme giuridiche, partorite dalla mente dell’uomo con lo scopo di controllare le svariate contraddizioni del reale, e le norme universali, di natura metafisica, che danno luogo alla nascita ed alle molteplici trasformazioni dell’essere

[3] L. Senzasono, “Eraclito e la legge”, Gerión 14 (1996) 53-75.

[4] …ἀρχήν… εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον… ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι, καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών. διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν5 (“… il principio … dell’essere lo chiamò Indefinito … da ciò nascono le cose esistenti, e in ciò finiscono secondo necessità: infatti esse si danno reciprocamente giudizio e pena per l’ingiustizia secondo la disposizione del tempo”). Come dimostra quest’unico frammento autentico dell’opera del filosofo, la prosa anassimandrea si esprime attraverso uno stile che rimanda a testi legislativi, pubblicati nelle poleis arcaiche, a fornire ad Anassimandro il linguaggio adatto alla formulazione della propria dottrina filosofica. Se le leggi arcaiche, per essere note a tutti ed acquisire una piena validità, dovevano essere pubblicate attraverso iscrizioni in pietra e con un linguaggio estremamente chiaro ed autoritario, allo stesso modo la filosofia, per trattare dei principi assoluti che regolano la realtà, aveva bisogno di una fonte stilistica che si caratterizzasse per la sua particolare fermezza. Espressioni quali διδόναι δίκην, κατὰ τὸ χρεών e κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν appartengono decisamente al linguaggio giuridico, e si possono ritrovare all’interno di testi di decreti e leggi, che figurano in iscrizioni provenienti da diverse regioni

[5] C. Diano, Eraclito. I frammenti e le testimonianze (Milano, Mondadori, 2001) 121.

[6] U. Curi, Il colore dell’inferno, la pena tra vendetta e giustizia p. 60, Bollati Boringhieri 2019

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