Di Roberto de Miro d’Ajeta, Avvocato a Roma (in esclusiva per questo sito)
La proposta di legge attualmente all’esame del Parlamento comunemente intitolata “Dichiarazioni” o “Disposizioni” anticipate di volontà sui trattamenti sanitari, contiene all’art. 1, in aggiunta a quanto annunciato, la definizione e regolamentazione del Consenso informato considerato addirittura come atto “fondante” la relazione di cura tra medico e paziente. Tale progetto di legge, dunque, oltre a regolare il controverso aspetto delle cosiddette DAT, si presenta, ma non si preannuncia, destinato ad incidere profondamente sulla cosiddetta alleanza terapeutica, portando a compimento un disegno di riforma iniziato con la recente legge 8 marzo 2017 n. 24 sulla responsabilità degli operatori sanitari, ed infatti le prime proposte confluite in quella legge contenevano anche l’argomento del consenso informato, successivamente stralciato ed ora dissimulato come premessa non annunciata all’altro spinoso argomento delle DAT.
Dal complesso dei ben dieci commi di tale articolo 1 della PDL DAT emerge chiaramente una concezione contrattualistica, dispositiva e precettiva di tale consenso. Il principio regolatore della materia diventerebbe non già l’affidamento da parte del soggetto bisognoso di cura alla competenza e responsabilità del terapeuta, bensì un regolamento di tipo negoziale nel quale al medico sono consentiti solo gli atti terapeutici specificamente e formalmente autorizzati dal paziente o dal soggetto a cui sia delegato il potere di disposizione (genitore, tutore, amministratore di sostegno). La presunta “autonomia decisionale” del paziente si confronta con la “autonomia professionale” del medico (art. 1 comma 1), che ne risulta peraltro invincibilmente limitata e dunque annullata.
La relazione tra l’operatore sanitario e colui che s’affida od è affidato alle sue cure costituisce nella realtà un incontro umano la cui analisi, anche limitatamente alla valutazione legale o giudiziaria, non può prescindere dal carattere personale ed interpersonale dei beni e degli interessi coinvolti.
Poiché il medico opera sulla e nella persona, con conseguenze auspicate o possibili che attingono a tutti i piani del ben-essere e quindi dell’esistenza, la valutazione dell’atto terapeutico in termini di responsabilità, doveri e poteri non può essere svolta prescindendo da un concetto di “persona umana”. La scienza giuridica in tale caso non può esimersi dall’attingere a strumenti dell’antropologia ed anche della teologia, almeno a livello lessicale. In altre parole, ogni valutazione del rapporto medico-paziente presuppone una definizione della persona umana e, pertanto, a diverse concezioni della relazione interpersonale umana corrisponderanno diverse valutazioni della relazione medico-paziente.
Vi sono molti modi di considerare il valore-persona ed il valore-salute, non tutti ragionevolmente condivisibili, ed in particolare non è condivisibile, per definizione, ogni valutazione basata su criteri meramente di volontà e soggettivi, in quanto non riproducibili.
Il ragionamento legale, invece, come ogni pensiero scientifico deve, per quanto è possibile, basarsi su elementi oggettivi, ripetibili e coerenti con la tradizione culturale della giurisprudenza e della società in cui essa si sia sviluppata.
In questi termini il primo riferimento è all’antropologia rispecchiata dalla Costituzione della Repubblica Italiana, che descrive l’essere umano come persona situata in relazioni familiari e sociali imprescindibili e caratterizzate da un principio solidaristico. In base a tale principio, espresso due volte nei primi quattro articoli della Costituzione, sebbene la autodeterminazione individuale costituisca un diritto fondamentale, è anche vero che nessuno può lecitamente compiere scelte tendenti a privare i membri della comunità del bene costituito da ciascuna persona.
Il consenso od il dissenso del paziente rispetto all’atto terapeutico devono essere valutati nei termini oggettivabili di ben-essere o male-essere della persona nel suo contesto concreto di relazioni e non meramente in termini di volizione.
Poiché nella generalità dei casi (a meno che il paziente non sia un adulto, medico con specifica competenza, privo di legami ed emotivamente neutro al limite della disumanità) il medico ed il paziente non hanno, rispetto all’atto in discussione, volontà ugualmente libera, i termini “consenso” ed “informato” non possono logicamente avere il significato di “libera scelta” e “piena consapevolezza”. Il documento che raccoglie il “consenso informato” sarebbe un triste simulacro se quello fosse il suo scopo.
Esso assume un senso se, invece, documenta una relazione nella quale la persona dell’operatore sanitario ha incontrato la persona del malato e stabilito con essa un rapporto nel quale il malato s’affida alla cura nella ragionevole consapevolezza, secondo le sue soggettive possibilità di comprensione, dello scopo e delle caratteristiche del percorso terapeutico, dei rischi rappresentabili e della non automaticità dei risultati attesi.
Il medico che abbia saputo raccogliere un simile consenso non è affatto liberato da responsabilità per il suo operato, ma ha stabilito una relazione nella quale svolge il suo compito in modo lecito ed umano. In mancanza di tale consenso, naturalmente ove esso sia possibile e verosimile, si avrebbe invece una relazione di abusiva intrusione, da parte di un soggetto in posizione di supremazia nell’intimità esistenziale di un altro soggetto in posizione di bisogno e di inferiorità, il che è contrario a qualsiasi rappresentazione di liceità.
L’errore ideologico che vorremmo evitare è principalmente nello spostare il nucleo della personalità e soggettività umana dal corpo vivente della persona al concetto astratto della sua presunta capacità di autodeterminazione. Secondo questa prospettiva, la vita di chi non è (più) in grado di autodeterminazione sarebbe meno degna.
Il diritto di NON essere INFORMATO, però, universalmente riconosciuto, è incoerentemente ammesso dal comma 3 dell’articolo in esame. Ciò dimostra la validità del nostro assunto ed il carattere ideologico ed irrealistico della fallace tesi dispositiva: infatti, se si valutassero le posizioni delle parti secondo l’ideologia dell’autodeterminazione, il medico non potrebbe affatto curare la patologia senza il consenso informato del “proprietario” del corpo; secondo un’impostazione personalistica, viceversa, il medico non cura la patologia, bensì si prende cura della persona del malato e tale intrusione nell’intimità è possibile e lecita semplicemente se la persona acconsente allo stabilire il rapporto di terapia, anche se non vuole conoscerne tutti i dettagli. Il consenso non è quindi configurabile come atto negoziale di disposizione, ma come autorizzazione ed affidamento che risultano dalla “alleanza terapeutica”, espressione che consideriamo preferibile in quanto descrive medico e paziente non come controparti del consenso, bensì come appunto “alleati” in una comune impresa contro la malattia.