1. Le disposizioni della “riforma Cartabia” in merito al controllo di tempestività degli atti del pubblico ministero
Il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, in attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, ha introdotto numerose disposizioni procedurali, dichiaratamente finalizzate al raggiungimento degli obiettivi del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (P.N.R.R.), che prevedono «la riduzione del 25% della durata media del processo penale nei tre gradi di giudizio» entro l’anno 2026.
Tra le misure adottate – la cui entrata in vigore, come noto, è stata differita al 30 dicembre 2022, in virtù del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 – vi sono alcune disposizioni contenenti altrettanti rimedi giurisdizionali, nei casi di ingiustificata inerzia da parte del pubblico ministero nel compimento di specifici atti del suo ufficio.
2. L’iscrizione nel registro degli indagati ex art. 335 c.p.p.
2.1. L’art. 1, comma 9, lett. p), della legge delega invitava il Governo a «precisare i presupposti per l’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale della notizia di reato e del nome della persona cui lo stesso è attribuito, in modo da soddisfare le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni».
In attuazione di tale disposto, il nuovo art. 335 c.p.p., al comma 1-bis, così recita: «Il pubblico ministero provvede all’iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito non appena risultino, contestualmente all’iscrizione della notizia di reato o successivamente, indizi a suo carico», così coordinando inter alia il testo dell’art. 335 c.p.p. con quanto disposto dall’art. 63 c.p.p.
Inoltre, il nuovo art. 335-quater c.p.p., in attuazione dell’art. 1, comma 9, lett. q), della legge delega, consente al giudice procedente – e, nella fase delle indagini, al G.I.P. – di retrodatare l’efficacia dell’iscrizione nel registro degli indagati, nel caso in cui «il ritardo [sia] inequivocabile e non [sia] giustificato»; analogo potere può essere esercitato, anche ex officio, dal pubblico ministero.
Il procedimento finalizzato a tale declaratoria è piuttosto articolato: la richiesta è depositata presso la cancelleria del giudice, con la prova dell’avvenuta notificazione al pubblico ministero. L’indagato deve depositare tale istanza «entro venti giorni a decorrere da quello in cui la persona sottoposta alle indagini ha avuto la facoltà di prendere conoscenza degli atti che dimostrano il ritardo nell’iscrizione». Il pubblico ministero, entro sette giorni, può depositare memorie e il difensore del richiedente può prenderne visione ed estrarne copia. Entrambe le parti hanno facoltà di depositare ulteriori memorie entro i sette giorni successivi. Decorso tale ultimo termine, il giudice, se ritiene che non sia necessario un contraddittorio orale, provvede sulla richiesta; altrimenti, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio, dandone avviso al pubblico ministero e al difensore del richiedente. All’udienza, il pubblico ministero e il difensore sono sentiti se compaiono. La decisione è adottata con ordinanza.
In caso d’accoglimento della richiesta, il giudice indica la data nella quale deve intendersi iscritta la notizia di reato e il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito. La retrodatazione dell’iscrizione dovrebbe determinare il ricalcolo del termine perentorio per lo svolgimento delle indagini preliminari, con conseguente inutilizzabilità delle investigazioni espletate oltre tale termine.
2.2. La prima osservazione che possiamo formulare nasce dalla discrasia testuale tra l’art. 335, comma 1-bis c.p.p. e l’art. 335-quater, co. 2, c.p.p.: il menzionato comma 1-bis, infatti, impone l’immediata iscrizione delle generalità dell’indagato «non appena risultino, contestualmente all’iscrizione della notizia di reato o successivamente, indizi a suo carico»; la seconda disposizione, invece, consente al giudice la retrodatazione dell’iscrizione «quando il ritardo è inequivocabile e non è giustificato».
La differenza linguistica tra i due articoli potrebbe generare un difetto di coordinamento.
Probabilmente, sarebbe stato più lineare adeguare la seconda disposizione alla prima, e cioè consentire al giudice la retrodatazione dell’iscrizione dal giorno in cui «risult[assero] indizi a suo carico», cioè a carico della persona indaganda.
Per di più, la locuzione «quando il ritardo è inequivocabile e non è giustificato» sembra fare implicito riferimento ad una sorta di colpevolezza “soggettiva”, a una negligenza in ipotesi rimproverabile alla persona del magistrato inquirente; parametro forse più adatto ad un eventuale giudizio di responsabilità disciplinare, laddove invece il giudizio sulla tempestività dell’iscrizione – riguardando un diritto dell’indagato, e non già una responsabilità del pubblico ministero – dovrebbe fondarsi su parametri esclusivamente oggettivi e “cartolari”.
Ad esempio, per contestare la tesi del “ritardo inequivocabile e ingiustificato”, ben potrebbe il pubblico ministero, in ipotesi, allegare eventuali difficoltà od ostacoli organizzativi (come le carenze di organico, un eccesso di assegnazioni o i deficit tecnologici), come oggi accade quotidianamente in sede di proroga del termine per le indagini preliminari; nondimeno, tali ragioni non dovrebbero poter giustificare la compressione dei diritti dell’indagato, sul quale non possono certo gravare le conseguenze negative derivanti dall’inefficienza della macchina statale.
2.3. Ma la riforma sembra esporsi ad ulteriori criticità.
Anzitutto, il procedimento previsto dal nuovo art. 335-quater non manca di esibire una certa viscosità, e sarà destinato ad onerare gli uffici giudiziari – magistrati, cancellerie e segreterie – di notevoli adempimenti non sempre strumentali a una maggiore celerità e snellezza procedurale. Ciò a maggior ragione se si pensa che il dies a quo del termine perentorio di 20 giorni, menzionato dalla nuova disposizione, sarà spesso di difficile accertamento, onerando il giudice procedente di svolgere, in via incidentale, una verifica macchinosa circa il momento esatto nel quale sarebbe emersa la tardività dell’iscrizione («… entro venti giorni a decorrere da quello in cui la persona sottoposta alle indagini ha avuto la facoltà di prendere conoscenza degli atti che dimostrano il ritardo nell’iscrizione»).
Tali difficoltà saranno ancor più accentuate nel caso in cui l’istanza di retrodatazione sia formulata al tribunale del riesame, la cui cognizione è notoriamente più limitata rispetto a quella del giudice di merito.
2.4. A ben vedere, l’ulteriore falla del nuovo sistema “Cartabia” sembra rappresentata dal controllo esercitato dallo stesso G.I.P. nel corso delle indagini preliminari.
Anzitutto, il fatto che il vaglio di tempestività dell’iscrizione possa essere svolto ad indagini preliminari ancora non concluse – quindi non ancora “cristallizzatesi” e assestatesi completamente – rende non poco problematico l’intervento di un giudice ad acta, nei sensi di quanto prevedono i nuovi artt. 335-ter e 335-quater c.p.p.
Ma il vero problema, collegato a quello appena accennato, è che il giudice per le indagini preliminari, essendo per l’appunto un giudice ad acta, non è in grado nemmeno di conoscere compiutamente l’intero compendio delle indagini sino a quel momento svolte, come dimostra l’esperienza assolutamente fallimentare dell’istituto della “proroga di indagine”: quest’ultimo è oggi un vero e proprio simulacro di garanzia procedurale, come simboleggiato dai moduli prestampati di comune uso, in cui il filtro del giudice si fa spesso evanescente o persino inesistente, sfociando in motivazioni perlopiù standardizzate, circolari e apodittiche.
Sul punto, lo stesso art. 335-quater c.p.p. appare inequivocabile: per decidere sulla tempestività dell’iscrizione, il giudice per le indagini preliminari sarà tenuto a esaminare solo l’istanza della parte, con le memorie e i documenti eventualmente prodotti, ma non disporrà dell’intero fascicolo delle indagini, ancora coperto dal segreto istruttorio. Questo è, d’altra parte, ciò che accade oggi nel caso della proroga delle indagini, laddove peraltro all’indagato è data la fittizia facoltà di interloquire… senza nemmeno avere accesso al fascicolo delle indagini già espletate.
Insomma: siamo di fronte all’ennesima «finta giurisdizione senza fascicolo», come icasticamente evidenziato dalla dottrina[1].
2.5. Inoltre, il modello previsto dal legislatore sembra consentire alle parti, in ogni stato e grado, di mettere in discussione la tempestività dell’iscrizione ex art. 335 c.p.p.; ciò significa che, in stati e gradi differenti del procedimento, diversi giudici investiti della medesima regiudicanda potrebbero formulare valutazioni opposte in merito a detta tempestività, lasciando così nell’incertezza – fino al termine del giudizio – la questione circa l’utilizzabilità o meno del materiale probatorio raccolto; ciò a fortiori se si considera che l’indagato e, poi, l’imputato potrebbe formulare sempre nuove istanze di retrodatazione anche in corso di giudizio, sulla scorta di sopravvenute conoscenze procedimentali.
2.6. Infine, il pericolo concreto è che in futuro i pubblici ministeri, pur di non andare incontro ad una successiva retrodatazione, procedano con estrema disinvoltura all’iscrizione ex art. 335 c.p.p. nei confronti di soggetti che, rebus sic stantibus, non risultino ancora interessati da effettivi indizi di reità; iscrizione che, come noto, non è solo un atto di garanzia per l’indagato, ma anche un atto che determina, quantomeno de facto, conseguenze potenzialmente pregiudizievoli nei confronti dello stesso.
Beninteso: non si può negare che, in determinati casi, l’ordinamento abbia assistito e stia tuttora assistendo a prassi procedurali distorte, caratterizzate dall’espletamento di indagini sine die – specie con intercettazioni telefoniche reiterate – a fronte di una semplice iscrizione “contro Ignoti” (mod. 44); tuttavia, non sembra che il sistema congegnato nel nuovo art. 335-quater c.p.p. sia idoneo a fronteggiare l’attuale situazione di incertezza processuale e a incentivare la maggiore rapidità del procedimento penale, per le ragioni appena indicate.
Peraltro, quanto al registro “mod. 45”, che raccoglie gli atti non costituenti notizia di reato, la riforma rimane completamente silente, laddove invece sarebbe stato senz’altro opportuno intervenire anche e soprattutto in tale ambito, ricettacolo notorio delle prassi distorsive più dannose[2]: si pensi ad esempio che, nel solo anno 2019, le Procure della Repubblica italiane hanno aperto ben 331.274 fascicoli a “mod. 45”, svolgendo così indagini “esplorative” spesso con il solo fine di lucrare tempo utile da non computare nel termine di durata massima previsto dal codice.
3. L’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415-bis c.p.p. e il termine per l’esercizio dell’azione penale
3.1. Il nuovo art. 415-ter c.p.p. ha introdotto un complesso sistema di controllo circa la tempestività della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415-bis c.p.p., nonché dell’esercizio dell’azione penale.
In particolare:
«1. Salvo quanto previsto dal comma 4, alla scadenza dei termini di cui all’articolo 407-bis, comma 2, se il pubblico ministero non ha disposto la notifica dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, né ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata in segreteria. Alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente, abbia dichiarato di volere essere informata della conclusione delle indagini è altresì immediatamente notificato avviso dell’avvenuto deposito e della facoltà di esaminarla ed estrarne copia. L’avviso contiene altresì l’indicazione della facoltà di cui al comma 3. Copia dell’avviso è comunicata al procuratore generale presso la corte di appello.
2. Quando, decorsi dieci giorni dalla scadenza dei termini di cui all’articolo 407-bis, comma 2, non riceve la comunicazione prevista al comma 1, se non dispone l’avocazione delle indagini preliminari, il procuratore generale ordina con decreto motivato al procuratore della Repubblica di provvedere alla notifica dell’avviso di deposito di cui al comma 1 entro un termine non superiore a venti giorni. Copia del decreto è notificata alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente, abbia dichiarato di volere essere informata della conclusione delle indagini.
3. Se dalla notifica dell’avviso di deposito indicato al comma 1 o del decreto indicato al comma 2 è decorso un termine pari a un mese senza che il pubblico ministero abbia assunto le determinazioni sull’azione penale, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa possono chiedere al giudice di ordinare al pubblico ministero di provvedere. Il termine è pari a tre mesi nei casi di cui all’articolo 407, comma 2. Si applicano il secondo, il terzo e il quarto periodo del comma 5-quater nonché il comma 5-quinquies dell’articolo 415-bis. Quando, in conseguenza dell’ordine emesso dal giudice, è notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, i termini di cui all’articolo 407-bis, comma 2, sono ridotti di due terzi.
4. Prima della scadenza dei termini previsti dall’articolo 407-bis, comma 2, quando ricorrono le circostanze di cui al comma 5-bis dell’articolo 415-bis, il pubblico ministero può presentare richiesta motivata di differimento del deposito e della notifica dell’avviso di deposito di cui al comma 1 al procuratore generale. Sulla richiesta il procuratore generale provvede ai sensi del comma 5-ter dell’articolo 415-bis. Le disposizioni del presente comma non si applicano quando il pubblico ministero ha già presentato la richiesta di differimento prevista dal comma 5-bis dell’articolo 415-bis».
3.2. Anche tale procedimento si palesa visibilmente macchinoso se non addirittura “cervellotico”, come segnalato in dottrina[3] e significato dalla stessa ardua consecutio delle proposizioni normative.
Già sino ad oggi si era potuto assistere all’assoluta eccezionalità dell’avocazione da parte del Procuratore Generale, istituto che, pur formalmente esistente all’interno del nostro ordinamento, è rimasto scarsamente operativo e non ha di fatto consentito di ridurre, e tantomeno di estirpare, i casi di inerzia patologica da parte del pubblico ministero.
Ora, il nuovo sistema ex art. 415-ter c.p.p., al quale si accederebbe non più in casi eccezionali ma in tutti i casi di “sforamento” del termine da parte del pubblico ministero, sembra riporre le migliori aspettative su un istituto processuale, in realtà, “nato morto”, che sino ad oggi non ha prodotto alcun frutto significativo in termini di efficienza della giustizia.
Inoltre, l’intervento sostitutivo de quo finirebbe senz’altro per onerare le Procure della Repubblica e le Procure Generali della Repubblica di una enorme serie di adempimenti i quali, lungi dall’alleggerire, snellire e velocizzare il lavoro degli uffici giudiziari, aggraverebbero ulteriormente la situazione, probabilmente senza un apprezzabile beneficio finale.
Se proprio si volesse prevedere un controllo sull’emissione dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. e sul deposito degli atti ex art. 415-ter c.p.p., esso dovrebbe semmai essere affidato sempre al giudice per le indagini preliminari – come previsto dall’art. 335-quater c.p.p. nel caso di tardività dell’iscrizione – e non certo alle Procure Generali, “luoghi” giudiziari assai remoti dall’effettivo brulicare delle indagini.
3.3. Ma v’è di più: ove l’indagato veda accolta la propria istanza ex art. 415-ter c.p.p., il pubblico ministero sarà solo costretto a depositare gli atti in segreteria e a notificare l’avviso di detto deposito, ma non già a formulare alcuna incolpazione provvisoria. Ciò vuol dire che l’indagato potrà, sì, prendere oggettiva cognizione degli atti di indagine sino a quel giorno svolti, ma senza averne alcuna “chiave di lettura”, cioè senza disporre di quella “bussola” che è l’incolpazione provvisoria, così dirimente per l’esercizio consapevole ed efficace dei diritti difensivi.
Sul punto, l’art. 6, co. 3, lett. a) della C.E.D.U., prevede il diritto dell’indagato di «essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico», il che postula che – anche ai fini del diritto di difesa ex art. 24 Cost. – il prevenuto non sia solo messo in condizioni di consultare “fisicamente” il fascicolo a suo carico, ma anche reso edotto dell’ipotesi di reato a lui provvisoriamente ascritta; ciò a maggior ragione in quei procedimenti “alluvionali” in cui il carteggio investigativo consti di decine di faldoni o di CD-rom, all’interno dei quali l’indagato fa spesso grande fatica a orientarsi senza l’elevazione di un’accusa provvisoria.
3.4. Orbene, il problema della “giacenza ingiusta” di procedimenti penali nella fase delle indagini preliminari, pur dopo anni dallo spirare del termine per l’espletamento di investigazioni, è senz’altro un fenomeno diffuso e gravemente distorsivo; ma con tutta probabilità detto problema si sarebbe potuto risolvere semplicemente prevedendo un termine perentorio entro il quale il pubblico ministero sia tenuto a notificare all’indagato l’avviso ex art. 415-bis c.p.p. e, poi, ad esercitare l’azione penale.
Così come la riforma Cartabia ha introdotto l’istituto della improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p., e così come tutt’oggi esistono termini perentori entro i quali il pubblico ministero è tenuto – a pena di inutilizzabilità – ad espletare le indagini preliminari, parimenti si potrebbe oggi ipotizzare un termine di legge – ovviamente da calibrare per classi di gravità del reato sub iudice –, superato il quale l’azione penale dovrebbe dichiararsi invalida o comunque improcedibile.
Sul punto, la migliore dottrina è stata giustamente tranciante: «Imporre termini più stringenti o ampliare i controlli giurisdizionali attraverso le famose “finestre” è la linea seguita dalla riforma che appare già oggi del tutto inadeguata. L’unico modo per garantire il diritto dell’individuo a un accertamento preliminare di durata ragionevole, a cui dovrebbe corrispondere un preciso dovere per l’autorità procedente, è quello di prevedere una sanzione seria e forte in caso di inosservanza e questa sanzione non può che essere rappresentata dall’improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p. che avrebbe un suo preciso significato proprio nella fase delle indagini preliminari. Sarebbe una sanzione forte di grandissimo impatto pedagogico, tale da determinare un immediato adeguamento virtuoso delle prassi giudiziarie»[4].
4. Il nuovo “flusso informativo” di cui all’art. 127 disp. att. c.p.p.
Il nuovo art. 127 disp. att. c.p.p., fra le pieghe delle norme attuative, istituisce un’inedita forma di “flusso informativo” settimanale tra le Procure della Repubblica territoriali e la competente Procura Generale della Repubblica. Esso così dispone:
«1. La segreteria del pubblico ministero trasmette ogni settimana al procuratore generale presso la corte di appello un elenco delle notizie di reato contro persone note per le quali non è stata esercitata l’azione penale o richiesta l’archiviazione entro il termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice i dati di cui al comma 3 relativi ai procedimenti di seguito indicati, da raggrupparsi in distinti elenchi riepilogativi:
a) procedimenti nei quali il pubblico ministero non ha disposto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, né ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, entro i termini previsti dagli articoli 407-bis, comma 2, del codice;
b) procedimenti nei quali il pubblico ministero non ha assunto le determinazioni sull’azione penale nei termini di cui all’articolo 415-ter, comma 3, primo e secondo periodo, del codice;
c) procedimenti, diversi da quelli indicati alle lettere a) e b), nei quali il pubblico ministero non ha esercitato l’azione penale, né richiesto l’archiviazione, entro i termini previsti dagli articoli 407-bis, comma 2, e 415-ter, comma 3, quarto periodo, del codice.
2. Per ciascuno dei procedimenti di cui al comma 1, lettera a), è specificato se il pubblico ministero ha formulato la richiesta di differimento di cui al comma 5-bis dell’articolo 415-bis del codice e, in caso affermativo, se il procuratore generale ha provveduto sulla richiesta e con quale esito.
3. Per ciascuno dei procedimenti indicati al comma 1, la segreteria del pubblico ministero comunica: a) le generalità della persona sottoposta alle indagini o quanto altro valga a identificarla; b) il luogo di residenza, dimora o domicilio della persona sottoposta alle indagini; c) le generalità della persona offesa o quanto altro valga a identificarla; d) il luogo di residenza, dimora o domicilio della persona offesa; e) i nominativi dei difensori della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa e i relativi recapiti; f) il reato per cui si procede, con indicazione delle norme di legge che si assumono violate, nonché, se risultano, la data e il luogo del fatto».
Anche tali adempimenti minuziosi e addirittura settimanali non sembrano essere affatto risolutivi rispetto ai problemi evidenziati dal legislatore; anzi, essi potrebbero essere persino controproducenti e, ancora una volta, fonte di inutile dispendio di risorse.
Lo scenario paventato sembra il seguente: le segreterie delle Procure della Repubblica territoriali, già in notoria e grande difficoltà nella gestione dei flussi informativi ordinari, invece di destinare interamente le proprie energie allo “smaltimento” dell’arretrato e alla prosecuzione dei procedimenti in essere, dovranno dirottare un’ingente quantità di tempo e di risorse nel raccogliere, catalogare, compilare e inoltrare le predette informazioni alle Procure Generali. Queste ultime, già impegnate in una notoria serie di funzioni, molte delle quali nuovamente arricchite dalla “riforma Cartabia”, si troveranno a ricevere settimanalmente una enorme quantità di dati e di informazioni da trattare, esaminare, assegnare ai singoli Procuratori, nonché da evadere con successivo “flusso di ritorno”.
Anche in tal caso, il disposto della riforma, pur essendo chiaramente finalizzato a risolvere gli innegabili problemi endemici al sistema processuale vigente, non sembrano porsi in chiave strumentale alla risoluzione degli stessi o, addirittura, appaiono idonei ad aggravare ulteriormente lo stato di congestione organizzativa e informativa nel quale già versano notoriamente gli uffici giudiziari del nostro Paese; ciò a maggior ragione se si pensa che il predetto “flusso”, con tutta probabilità, non potrà essere gestito interamente da software automatizzati, richiedendo il costante inserimento “manuale” di nuovi dati da parte degli operatori interessati.
Per di più, la comunicazione settimanale alla Procura Generale, prevista dalla “riforma Cartabia” sembra sottoporre le Procure della Repubblica a una sorta di ispezione permanente, cosa che non appare virtuosa.
Già oggi siamo ben consapevoli che le ispezioni straordinarie presso gli uffici giudiziari sono spesso e solo fonte di inutile dispendio di energie, bloccando di fatto la gestione ordinaria e obbligando magistrati e personale di cancelleria a adempimenti tanto defatiganti quanto inutili (raccolta massiva di dati, compilazione di moduli spesso astrusi, recupero di atti vetusti dagli archivi, etc.).
Istituire, come detto, una forma di “ispezione permanente” a carico delle Procure territoriali, oltre a non essere sostenibile da parte delle Procure Generali (che finiranno probabilmente per esercitare il consueto controllo “a campione” e puramente formalistico), potrebbe comportare un’ulteriore esasperazione dei predetti effetti paradossali, senza procurare adeguati vantaggi in termini di concreta efficienza degli uffici.
5. Conclusioni interlocutorie
Ad uno sguardo panoramico sulle norme della “riforma Cartabia” sopra esaminate, l’impressione generale è poco rassicurante: il legislatore ha correttamente focalizzato alcuni problemi endemici e gravi della giustizia penale italiana, tra i quali l’inefficienza e il ritardo nel compimento di alcuni importanti atti da parte del pubblico ministero. Tuttavia, i rimedi escogitati dal legislatore delegato appaiono in gran parte inefficaci se non, addirittura, controproducenti.
Per una singolare evenienza, sembra che la “riforma Cartabia” abbia selezionato gli istituti procedurali sino ad oggi rivelatisi meno “felici” e meno efficaci – fra tutti: il controllo degli atti endo-procedimentali del P.M. da parte del G.I.P.; il controllo del Procuratore Generale sugli atti dei Pubblici Ministeri territoriali; i meccanismi ispettivi di vario genere – nel tentativo di potenziarli e di affidare agli stessi la funzione di “efficientamento” sottesa al P.N.R.R.
Sul punto, tuttavia, se tali forme di controllo non hanno prodotto, sino ad oggi, alcun frutto rilevante in termini di efficienza e di rapidità del sistema, non si vede come esse possano oggi rappresentare la miracolosa “panacea” a tutti i mali del processo penale italiano.
D’altra parte, analoga opzione legislativa è stata oggi espressa in tema di udienza pre-dibattimentale: se l’udienza preliminare ex artt. 416 e segg. c.p.p. è ormai ritenuta dalla quasi totalità del ceto forense, della Curia e della dottrina come un incombente procedurale praticamente inutile e, anzi, gravemente dilatorio, il legislatore “Cartabia”, invece che abolirlo, ha esteso tale istituto a tutti i casi di citazione diretta a giudizio. Una scelta altrettanto singolare, che, stando alle prime analisi, non farà altro che complicare ulteriormente tutti gli incombenti di rito i quali, dalla chiusura delle indagini preliminari, conducono all’incipit del dibattimento.
Come acutamente osservato dalla più recente dottrina, «abbiamo tra le mani una riforma che divora le sue stesse innovazioni, in una sorta di manifestazione esemplare del concetto di ineffettività della norma»[5]; una riforma, in altri termini, apparentemente coerente e ricca di novità seducenti, ma troppo spesso priva di un addentellato realistico con l’esperienza concreta degli uffici e delle aule giudiziarie, oltreché con i dati del complessivo sistema processuale vigente.
Per di più – concludendo – la “riforma Cartabia” sembra avere puntato la gran parte della posta in gioco su un inedito e intricato meccanismo di controlli esterni, destinati probabilmente a generare sempre nuove inefficienze, invece di istituire nuove forme di auto-controllo e di auto-disciplina direttamente operanti sulla validità intrinseca degli atti del pubblico ministero.
Comminare l’invalidità o l’improcedibilità dell’azione penale nei casi di oggettivo superamento di termini ex lege prefissati sarebbe stata, forse, l’unica soluzione percorribile, per di più rispettosa del principio di legalità processuale; ma probabilmente sarebbe stata una soluzione troppo dirompente o, persino, eversiva dello status quo, al quale da troppo tempo il sistema processuale italiano si è ormai assuefatto, con grave danno per i diritti e le garanzie delle persone sottoposte a procedimento penale.
Gabriele Civello
[1] C. Valentini, The untouchables: la fase delle indagini preliminari, l’ufficio del pubblico ministero e i loro misteri, in Arch. pen., 2022, n. 2, on-line, 26.
[2] C. Valentini, The untouchables, cit., 25.
[3] M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia (profili processuali), in www.sistemapenale.it, 2 novembre 2022, 46
[4] O. Mazza, Il processo che verrà: dal cognitivismo garantista al decisionismo efficientista, in Arch. pen., 2022, n. 2, on-line, 7 (corsivi nostri); C. Valentini, Grandi speranze: una possibilità di riforma della riforma, in Arch. pen., 2022, n. 3, on-line, 6.
[5] C. Valentini, Grandi speranze, cit., 5.