Leggi l’introduzione e la prima parte.
La Dottrina Sociale della Chiesa (da ora DSC), come già visto, non è una mera sintesi di ricette preconfezionate e pronte all’uso per risolvere problemi materiali, ma è la cornice morale all’interno della quale inscrivere i problemi umani secondo un orizzonte spirituale ed escatologico.
In questo senso la DSC non è un certo né un codice normativo, né un testo unico, né un manuale di diritto, ma proprio perché non è tutto ciò è qualcosa di più e di ben diverso e superiore, cioè un più profondo e complesso iter iustitiae.
La DSC non contiene una formulazione organica e sistematica intorno al tema del diritto e dello Stato, e pur tuttavia numerosi, ricchi e intensi sono i momenti di riflessione e di indirizzo volti alla comprensione dell’esperienza giuridica.
I temi che possono essere rintracciati all’interno di quel corpus monumentale che è la DSC sono molteplici, sia in riferimento al diritto che allo Stato.
Per quanto riguarda il diritto si pensi, per esempio, alla distinzione tra diritto divino e diritto umano; alla legittimità , la natura e i limiti del diritto umano; alla dialettica tra diritto statale e diritto naturale; al legame tra diritto naturale e giustizia; alle dinamiche tra diritto naturale e Stato; alla connessione tra giustizia e prudenza; alla natura e la portata del principio di sussidiarietà e di quello di solidarietà ; alla coesistenza e la relazione del diritto della Chiesa e del diritto dello Stato; alla differenza tra ruolo della legge in uno Stato di diritto e in uno Stato totalitario; ai rapporti tra diritto e sviluppo delle nuove tecnologie.
Per quanto riguarda lo Stato, invece, si considerino temi quali i fondamenti dello Stato come istituzione giuridica; gli elementi costitutivi della comunità politica; la neutralità del cattolicesimo rispetto alla forma di Stato; la legittimità , la finalità e la modalità di esercizio del potere statale; la definizione dei rapporti tra governanti e governati; i doveri dello Stato nei confronti della comunità cattolica; i corrispettivi e reciproci doveri della comunità cattolica nei confronti dello Stato; lo Stato come esercente della giustizia umana; la libertà di culto e la libertà di coscienza; i rapporti diretti tra Stato e Chiesa specialmente alla luce degli articoli 7 e 19 della Costituzione italiana.
E’ ovviamente impossibile trattare – in ragione degli spazi e dei tempi – in modo esaustivo tutti i suddetti argomenti, ma si può comunque effettuare una panoramica generale, soprattutto in riferimento al profilo dello Stato, avendo già in precedenza affrontato l’analisi intorno alla concezione del diritto.
Le mosse per una tale pur sintetica ricognizione non si possono che prendere dal pensiero di S. Agostino al quale deve essere riconosciuto il grande merito di aver proposto il delicato tema dei rapporti tra giustizia e Stato, chiarendo che non è sufficiente la mera esistenza dell’entità statale di per se stessa considerata se ad essa non corrisponde anche una persistenza all’interno della via della giustizia.[1]
Senza o perfino contro la virtù della giustizia nessun potere, infatti, può ritenersi non soltanto legittimo, ma non idoneo a tutelare l’essere umano e la convivenza secondo l’ordine della razionalità giuridica.
Su tale sentiero S. Tommaso d’Aquino ha perimetrato l’agire dell’autorità politica e statale precisando non soltanto che il re – come del resto chiunque sia chiamato ad esercitare il potere – è destinato a servire il regno, e non già il contrario, ma soprattutto che se l’autorità politica non persegue e non si prende cura del bene comune si trasforma ipso facto in tirannide.[2]
Già da questi primi e chiari riferimenti si può affermare che l’entità statale come anche la comunità politica e le regole vocate a disciplinarle entrambe non possono essere ridotte al volontarismo intrinseco alla prospettiva convenzionalista (o contrattualista), poiché quest’ultima non tiene in debita considerazione la natura sociale e politica dell’essere umano.
Soltanto alla luce di questa impostazione non soltanto viene smentita la fictio iuris di un mitico e ancestrale contratto sociale da cui lo Stato e il diritto avrebbero dovuto trovare scaturigine, ma soprattutto si pone il limite giuridico di ordine costitutivo dell’autorità politica e dello Stato che possono liberamente agire, ma senza disconoscere o violare la natura umana.
Ecco il motivo per cui, diverso tempo dopo, Leone XIII per un verso ha ribadito che gli uomini non possono alienare o cedere i loro diritti naturali e originari,[3] e per altro verso ha specificato che proprio in ragione di ciò occorre sempre tener presente che l’uomo è da considerarsi sempre anteriore all’aggregazione statale.[4]
L’uomo anteriore allo Stato comporta un limite di carattere etico e giuridico invalicabile per l’azione politica e per la strutturazione dello Stato stesso in quanto tale considerato.
Lo Stato, infatti, nell’ottica della DSC, non può a suo piacimento negare la verità costitutiva dell’ordine naturale all’interno del quale la persona umana, come creatura libera e razionale illuminata dal divino di cui è immagine e somiglianza, si inscrive.
Se tale indirizzo ontologico e assiologico fosse stato risparmiato dal livellamento della secolarizzazione nel tempo di passaggio tra diciannovesimo e ventesimo secolo, molte tragedie antiumane novecentesche, per opera di uno Stato che si è percepito svincolato da ogni limite e legge superiore, si sarebbero potute evitare.
La deriva totalitaria, tuttavia, non è un semplice portato degli archivi storici, potendo sempre riproporsi ogni volta che lo Stato giunge a negare la verità trascendente da cui la persona trae la propria dignità , come ha evidenziato S. Giovanni Paolo II.[5]
Questa prospettiva apre una finestra anche sul problema dei rapporti tra democrazia e diritto all’interno della compagine di uno Stato di diritto, poiché se lo Stato e l’autorità politica incontrano nel rispetto della dignità umana e della verità trascendente della persona il limite principale al loro arbitrio, significa che il principio maggioritario non è conseguenzialmente sufficiente a determinare ciò che è lecito e ciò che invece non lo è.
In sostanza, soltanto la chiusura dei cieli della metafisica ha consegnato l’esperienza giuridica e la statualità nelle mani di quel cieco positivismo giuridico che riduce tutto alla mera volontà della maggioranza.
Contro un simile riduzionismo dello Stato e del diritto, Benedetto XVI, ancora da cardinale, ha avuto modo di puntualizzare che non è il consenso che crea la verità del diritto e dello Stato, ma è la verità che fonda la relazione giuridica, politica e statale.[6]
Dopo una seppur veloce panoramica si evince, in sostanza, come nell’ottica della DSC non è possibile utilizzare il diritto e lo Stato secondo l’arbitrio o l’utile di chi governa o di chi direttamente o indirettamente gestisce la res publica, poiché soltanto un potere assoluto, cioè senza limiti ontologici e assiologici, può degenerare in quei cortocircuiti, di cui la storia abbonda, cioè la violenza della tirannide e la reazione violenta alla tirannide medesima, spesso forieri di degradazione dell’umano e perfino di morte di massa organizzata in modo ciclico e sistematico.
La DSC, invece, suggerisce un percorso del tutto diverso di definizione dello Stato, e quindi del diritto e della convivenza civile e politica, secondo l’orizzonte di senso della persona inscritta in un ordine naturale inviolabile e comprensibile alla luce della umana ragione, così da poter recuperare, in conclusione, l’aurea sintesi di Juan Donoso Cortes secondo il quale «due cose sono assolutamente impossibili in una società veramente cattolica: il dispotismo e le rivoluzioni».[7]
Daniele Trabucco e Aldo Rocco Vitale
[1] «Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?»: S. Agostino, La città di Dio, Città nuova, Roma, 2000, pag. 71, IV, 4.
[2] «Il re miri anzitutto al bene dei sudditi[…]. Inoltre il regno non è per il re, ma il re per il regno[…]. Perché se agisce diversamente, curando il proprio vantaggio, non è re, ma tiranno “: S. Tommaso d’Aquino, La politica dei principi cristiani, Cantagalli, Siena, 1980, pag. 159, III,11.
[3] «Coloro i quali pretendono che la società civile sia nata dal libero consenso degli uomini, derivando dallo stesso fonte l’origine della stessa potestà , dicono che ciascun uomo cedette una parte del suo diritto, e volontariamente tutti si diedero in potere di colui nel quale fosse accumulata la somma dei loro diritti. Ma è grande errore non vedere ciò che è manifesto, cioè che gli uomini non essendo una razza selvatica, indipendentemente dalla loro stessa libera volontà sono portati dalla natura alla socievole comunanza; inoltre, il patto di cui si parla è manifestamente fantastico e fittizio e non vale a dare alla potestà politica tanta forza, dignità e stabilità quanta ne richiedono la tutela della pubblica cosa e i comuni vantaggi dei cittadini»: Leone XIII, Diuturnum illud.
[4] «L’uomo è anteriore allo Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso»: Leone XIII, Rerum novarum, n. 6.
[5] «Una visione realistica della natura sociale dell’uomo, esige una legislazione adeguata a proteggere la libertà di tutti. A tal fine è preferibile che ogni potere sia bilanciato da altri poteri e da altre sfere di competenza, che lo mantengano nel suo giusto limite. È, questo, il principio dello ‘‘Stato di diritto’’, nel quale è sovrana la legge, e non la volontà arbitraria degli uomini[…]. Il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità , allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini[…]. Un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della ‘‘soggettività ’’ della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità »: Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 44-46.
[6] «La fine della metafisica, che in ampi settori della filosofia moderna viene presupposta come un fatto irreversibile, ha condotto al positivismo giuridico che oggi ha assunto soprattutto la forma della teoria del consenso: come fonte del diritto, se la ragione non è più in grado di trovare il cammino verso la metafisica, vi sono per lo Stato solo le comuni convinzioni sui valori dei cittadini[…]. Non la verità crea il consenso, ma il consenso crea, non tanto la verità , quanto ordinamenti comuni»: Joseph Ratzinger, La crisi del diritto, Parole di ringrazia- mento in occasione del conferimento della laurea honoris causa della Facoltà di giurisprudenza della Lumsa, 10/11/1999.
[7] Juan Donoso Cortes, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, Rusconi, Milano 1972, pag. 70.