Grazie alla cortesia e con il consenso del dott. Giannino Caruana Demajo, pubblichiamo di seguito, con una traduzione redazionale, le parole di commiato da lui pronunciate a Vienna, lo scorso 12 dicembre, in occasione della cinquantesima riunione del management board dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA, Fundamental Rights Agency), al termine del suo mandato quinquennale come rappresentante maltese nel board.

Il dott. Giannino Caruana Demajo è un alto magistrato maltese, componente dal 2011 della Corte Suprema di Malta.

As I conclude my term on the Management Board of the Fundamental Rights Agency, I do so with a sense of reflection and a desire to speak candidly. I am aware that my remarks may diverge from expectations, but I believe that honest discourse is essential — even when it is uncomfortable.

I could stand here and offer the usual formalities, the polite acknowledgments. And while those have their place, they wouldn’t reflect the concerns I feel compelled to raise. I also know that speaking candidly within European institutions can be difficult. Too often, views that challenge institutional orthodoxy, prevailing narratives and dogma are not met with dialogue, but with dismissal, labelled as heretical or politically extreme, rather than considered on their merits. When human rights discourse becomes dogmatic — when it elevates certain ideologies above critique — it risks betraying the very pluralism it claims to protect.

Still, I choose to speak. Not to provoke, but because I believe in the value of honest conversation. And I don’t believe in self-censorship. And yes, more people are beginning to see this. The tide of critical thinking is rising.

Recently, the FRA launched a campaign aimed at discouraging the categorisation of people based on their beliefs, ethnicity, sexual orientation, and so on. The intention, I’m sure, was to promote inclusion. But in practice, it risks doing the opposite. It creates new categories — groups handed a kind of automatic victim status — and some do know how to use that status, and do so effectively.

I am not saying that this campaign is bad or misguided; I am saying that it may have unintended consequences. The intention is good, but we must be vigilant about how these narratives are used and whether they allow space for dissenting voices.

This is not just a matter of perception. It touches on a deeper principle — one that’s often overlooked. Article 17 of the European Convention on Human Rights states:

“Nothing in this Convention may be interpreted as implying for any State, group or person any right to engage in any activity or perform any act aimed at the destruction of any of the rights and freedoms set forth herein or at their limitation to a greater extent than is provided for in the Convention.”

That’s a powerful reminder. When we elevate one group’s rights in a way that begins to suppress the rights of others — especially the right to speak freely and critically — we risk undermining the very foundation of fundamental rights.

We must also be mindful of a broader pattern: well-meaning individuals and institutions — often driven by a sincere desire to promote justice — can inadvertently enable illiberal tendencies under the guise of progress.

When advocacy becomes rigid, when dissent is treated as danger rather than dialogue, we risk replacing one form of exclusion with another.

Intentions may be noble, but outcomes matter more. And the outcome, too often, is a narrowing of permissible thought.

And so I say this with care: weaponising concepts like “phobias” to silence those who speak plainly to express legitimate concerns is not a service to human rights. It’s a distortion of them. Human rights institutions are meant to be guardians of pluralism. But pluralism without dissent is just a facade. When certain ideologies become untouchable, when critique is met with discomfort or quiet exclusion, we risk turning our institutions into echo chambers. That’s not pluralism. That’s dogma.

I offer these reflections not out of bitterness, but out of hope. Hope that the Agency — and the broader European project — can embrace a more open, pluralistic approach. One that allows disagreement without condemnation. One that welcomes diversity of thought, as much as it does diversity of identity. Commitment to rights includes the right to dissent. Institutions grow stronger when they allow space for honest reflection — even if it’s uncomfortable.

I appreciate the opportunity to share my reflections. My intention was not to undermine the Agency’s work, but to invite a deeper conversation about how we define and defend fundamental rights. I believe that protecting freedom of expression — even when it’s uncomfortable — is essential to the integrity of our institutions. We must be willing to examine whether our efforts to promote inclusion are also safeguarding pluralism, or unintentionally narrowing it. That’s the spirit in which I spoke.

Thank you.

Al termine del mio mandato nel consiglio di amministrazione dell’Agenzia per i diritti fondamentali desidero esprimere alcune considerazioni e parlare con franchezza. Sono consapevole che le mie osservazioni potrebbero discostarsi dalle aspettative, ma ritengo che un discorso onesto sia essenziale, anche quando risulti scomodo.

Potrei stare qui e proporre le solite formalità, i convenevoli di rito. E sebbene questi abbiano la loro importanza, non rifletterebbero le preoccupazioni che mi sento in dovere di esprimere. So anche che parlare con franchezza all’interno delle Istituzioni europee può essere difficile. Troppo spesso le opinioni che sfidano l’ortodossia istituzionale, le narrazioni prevalenti e il dogma non vengono accolte con il dialogo, ma con il rifiuto, etichettate come eretiche o politicamente estreme, piuttosto che considerate nel merito. Quando il discorso sui diritti umani diventa dogmatico, quando eleva certe ideologie al di sopra della critica, rischia di tradire proprio quel pluralismo che pretende di proteggere.

Recentemente, la FRA ha lanciato una campagna volta a scoraggiare la categorizzazione delle persone in base alle loro convinzioni, alla loro etnia, al loro orientamento sessuale e così via. L’intenzione – ne sono certo – era quella di promuovere l’inclusione. Nella pratica si rischia però di ottenere l’effetto opposto. Si creano nuove categorie – gruppi a cui viene automaticamente attribuito uno status di vittime – e alcuni sanno come sfruttare tale status, e lo fanno in modo efficace.

Non sto dicendo che questa campagna sia sbagliata o fuorviante; sto dicendo che potrebbe avere conseguenze indesiderate. L’intenzione è buona, ma dobbiamo stare attenti a come vengono usate queste narrazioni e se lasciano spazio alle voci dissenzienti.

Non si tratta solo di una questione di percezione. Si tratta di un principio più profondo, spesso trascurato. L’articolo 17 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo recita: “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione”.

È un monito potente. Quando eleviamo i diritti di un gruppo al punto da iniziare a reprimere i diritti degli altri, in particolare il diritto di esprimersi liberamente e criticamente, rischiamo di minare le fondamenta stesse dei diritti fondamentali.

Dobbiamo anche essere consapevoli di un fenomeno più ampio: individui e istituzioni ben intenzionati, spesso spinti dal sincero desiderio di promuovere la giustizia, possono involontariamente favorire tendenze illiberali con il pretesto del progresso.

Quando la difesa dei diritti diventa rigida, quando il dissenso viene trattato come un pericolo piuttosto che come un dialogo, rischiamo di sostituire una forma di esclusione con un’altra. Le intenzioni possono essere nobili, ma i risultati contano di più. E il risultato, troppo spesso, è una restrizione del pensiero consentito.

Lo dico quindi con cautela: strumentalizzare concetti come “fobie” per mettere a tacere coloro che parlano chiaramente per esprimere preoccupazioni legittime non è un servizio ai diritti umani. È una loro distorsione. Le Istituzioni che tutelano i diritti umani dovrebbero essere custodi del pluralismo. Ma il pluralismo senza dissenso è solo una finzione. Quando certe ideologie diventano intoccabili, quando la critica viene accolta con disagio o con una silenziosa esclusione, rischiamo di trasformare le nostre istituzioni in camere di risonanza. Questo non è pluralismo. È dogma.

Offro queste riflessioni non con amarezza, ma con speranza. Speranza che l’Agenzia – e il più ampio progetto europeo – possano abbracciare un approccio più aperto e pluralistico. Un approccio che consenta il dissenso senza condanna. Un approccio che accolga la diversità di pensiero, così come accoglie la diversità di identità. L’impegno a favore dei diritti include il diritto al dissenso. Le istituzioni diventano più forti quando lasciano spazio a una riflessione onesta, anche se scomoda.

Sono grato per l’opportunità di condividere le mie riflessioni. La mia intenzione non era quella di screditare il lavoro dell’Agenzia, ma di invitare a un confronto più approfondito su come definiamo e difendiamo i diritti fondamentali. Credo che proteggere la libertà di espressione, anche quando è scomoda, sia essenziale per l’integrità delle nostre istituzioni. Dobbiamo essere disposti a esaminare se i nostri sforzi per promuovere l’inclusione stanno anche salvaguardando il pluralismo o, involontariamente, lo stanno restringendo. È questo lo spirito con cui ho parlato.

Grazie.

Share