- In questo periodo abbiamo assistito e stiamo tuttora assistendo ad una grave lesione della libertà di culto da parte dell’autorità statale. Le problematiche legate a tali compressioni non scaturiscono peraltro dalle disposizioni adottate con l’ultimo DPCM, ma erano presenti nella cosiddetta ‘fase 1’: il conflitto giuridico comunque sussistente non si è mai tradotto in un effettivo scontro istituzionale grazie all’adesione dei Vescovi italiani ai criteri decisi dal governo e volti al contenimento dell’epidemia, i quali – come ribadiva la CEI il 12 marzo – avevano portato alla conseguenza della sospensione delle celebrazioni pubbliche «non perché lo Stato ce lo imponga, ma per un senso di appartenenza alla famiglia umana, esposta a un virus di cui ancora non conosciamo la natura né la propagazione».
La criticità nell’ammettere le limitazioni imposte a questo riguardo, riproposte e anzi ampliate nei decreti che si sono succeduti, trovano infatti una duplice ragion d’essere nelle tutele sancite tanto sul piano costituzionale – corroborate dagli analoghi riconoscimenti in ambito sovranazionale – proprio in virtù della qualifica dello Stato come laico, quanto dalla dimensione concordataria. Com’è noto, le prime si sostanziano principalmente nelle estrinsecazioni del diritto riconosciuto a ciascuno dall’art. 19 Cost. di esercitare liberamente il culto in qualsiasi forma (individuale o associata, privata o pubblica); principio cui fa eco il secondo paragrafo dell’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, disponendo che la libertà di manifestare la propria religione non possa essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge (da rimarcare) e che costituiscono misure indispensabili alla protezione di beni di rango primario, come in questo caso la salute pubblica: le misure assunte in questo senso, come confermato dalla costante giurisprudenza della relativa Corte, non sono aprioristicamente giustificate tout court dal ricorrere di una situazione di necessità, ma devono necessariamente rispondere a un principio di proporzionalità tra le modalità con cui si concretizza quest’ultima e le effettive limitazioni imposte alla libertà religiosa.
Le seconde discendono invece dal principio, espresso con identica formulazione all’art. 7 Cost. e all’art. 1 del Concordato del 1984, secondo cui «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». L’articolo successivo del medesimo Accordo soprattutto stabilisce, alla luce di tale premessa, che «la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione», e assicura di conseguenza «alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica»: un riconoscimento che riporta al dettato dei canoni 834 e 838 del Codex Iuris Canonici del 1983, i quali ricordano come la Chiesa adempia la funzione di santificare in modo peculiare mediante la sacra liturgia, la cui regolazione dipende unicamente dall’autorità della Chiesa stessa, alla Sede Apostolica e, nei limiti della propria competenza con riferimento alla Chiesa particolare che gli è affidata, al Vescovo diocesano.
- Si comprende perciò come le disposizioni emanate da parte statale costituissero fin dall’inizio uno sconfinamento nelle prerogative proprie dell’autorità ecclesiastica, determinando perciò un conflitto che, se finora non si è manifestato in modo sistemico per la ragione già accennata, è comunque emerso in numerose espressioni. Si pensi al riguardo alle limitazioni patite anche nelle manifestazioni della libertà di culto individuale, testimoniate – quale esempio particolarmente indicativo – dalle indicazioni fornite dalla Nota che il 27 marzo il Ministero dell’Interno ha prodotto in risposta alle istanze avanzate dal Sottosegretario della CEI, con la quale il riconoscimento dell’indiscussa libertà per i fedeli di recarsi in chiesa per la preghiera personale, pur solennemente ribadito in apertura del documento con il solo limite del rispetto delle distanze minime ormai comunemente richieste per lo svolgimento di ogni attività, era totalmente vanificato dall’apposizione di un duplice requisito, consistente nella condizione – tutt’altro che scontata – che tale accesso al luogo di culto potesse avvenire «solo in occasione di spostamenti determinati da “comprovate esigenze lavorative”, ovvero per “situazioni di necessità”» e a patto che la chiesa fosse «situata lungo il percorso».
Lo stesso può dirsi delle ripetute interruzioni subite da Messe e altre celebrazioni a causa dell’intervento delle forze dell’ordine: un’eventualità che l’art. 5 del Concordato espressamente esclude, disponendo che «salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non potrà entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica», e che lo stesso Codice Penale contempla all’art. 405 sanzionando il turbamento di funzioni, cerimonie e pratiche religiose.
- Non doveva perciò stupire la prima dura reazione della Conferenza Episcopale Italiana al protrarsi delle restrizioni nella ‘fase 2’: tale conferma, oltre a contraddire le legittime aspettative che i Vescovi avevano riposto nell’andamento dei contatti con il Governo, risulta tanto più ingiustificata e in manifesta violazione del principio di proporzionalità sopra accennato, specie se confrontata con la prospettiva della graduale riapertura di altri luoghi ed esercizi pubblici pur nel rispetto dei criteri di sicurezza, che pure la celebrazione liturgica cattolica non avrebbe particolari problemi ad adottare.
La strada che a questo riguardo avrebbe dovuto essere seguita fin dal principio è tracciata dal Concordato stesso, che, proprio al fine di prevenire conflitti di competenze, indica la soluzione non certo nella sospensione unilaterale del principio pattizio bensì nella sua piena attuazione, prevedendo all’art. 14 che «se in avvenire sorgessero difficoltà di interpretazione o di applicazione delle disposizioni precedenti, la Santa Sede e la Repubblica italiana affideranno la ricerca di un’amichevole soluzione ad una Commissione paritetica da loro nominata». Di fronte alle circostanze attuali risuona quindi in modo profetico l’ammonimento che Benedetto XVI lanciava nel 2009 al n. 56 della sua enciclica Caritas in veritate: «La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo. […] La vita pubblica si impoverisce di motivazioni e la politica assume un volto opprimente e aggressivo. I diritti umani rischiano di non essere rispettati o perché vengono privati del loro fondamento trascendente o perché non viene riconosciuta la libertà personale».
Il totale allineamento delle autorità ecclesiastiche italiane alle disposizioni assunte dal governo è stato certamente espressione della leale collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese che molti hanno lodato: anche se va detto che forse non pochi fedeli si aspettavano dai pastori meno acquiescenza alle direttive del potere secolare e più vicinanza al popolo di Dio e alle sue esigenze innervate nel diritto divino. Dinanzi alla confermata esclusione della possibilità di celebrare la Messa con il popolo la CEI ha del tutto legittimamente alzato la voce: ma poi, di nuovo, ha accettato con acquiescenza la decisione unilaterale del governo di rinviare sine die le cerimonie religiose: non si può nascondere come ciò crei delusione e malessere in molti fedeli.
- Mi preme al riguardo evidenziare, da canonista e da cattolica praticante, un elemento intraecclesiale che è rimasto troppo oscurato nel dibattito di questi mesi e che è invece centrale: il fondamentale diritto dei fedeli ai sacramenti – a partire da quello all’eucaristia – che si articola in una moltitudine di canoni codiciali, celebrato frutto, tra l’altro, del Concilio Vaticano II: diritto che va in questo caso sottolineato ben più della, pure sussistente, dimensione della doverosità. Chi ha obiettato che da precetti e obblighi l’autorità ecclesiastica può dispensare o che la stessa può regolare i diritti dei fedeli richiamando il – discutibile sotto diversi profili – canone 223 § 2 (senza parlare di certe quanto meno opinabili gerarchie tra beni naturali e soprannaturali nella Chiesa che taluno ha sostenuto), dimentica come nella radice sacramentale si fondi la giuridicità stessa del diritto canonico.
Essendo infatti stati i mezzi di salvezza costituiti per gli uomini, i ministri dei sacramenti non ne sono i proprietari e disporre di essi a loro discrezione sarebbe – se non altro – una deprecabile espressione di quel clericalismo contro cui Papa Francesco tuona quotidianamente: l’amministrazione dei sacramenti al battezzato che sia ben disposto è un atto di giustizia nel senso più stretto del termine. L’autorità ecclesiastica può limitarli ma in modo da lasciarne salva la sostanza: e l’estrema elasticità e plasticità del diritto canonico consente una molteplicità di soluzioni compatibili. Evocare il can. 843 § 1 secondo cui i fedeli, per riceverli, devono chiedere i sacramenti «opportunamente» non significa certo che i ministri possano negarli in base a considerazioni appunto di mera opportunità: queste considerazioni semmai devono sospingere e ricercare condizioni per amministrarli in maniera idonea.
La fonte di questo canone (come del can. 213) si rinviene nella Costituzione del Vaticano II Lumen gentium 37, secondo cui «I laici, come tutti i fedeli, hanno diritto di ricevere abbondantemente dai sacri Pastori i beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti». Nel testo conciliare non solo non compaiono limiti (poi inseriti nel Codice, qui e altrove, lasciando filtrare, più che la prudenza, una qualche sfiducia nel popolo di Dio): ma quell’abundanter preclude interpretazioni minimaliste o che facciano dipendere l’amministrazione dei sacramenti esclusivamente dalla discrezionalità dei pastori che da quell’abbondantemente devono invece lasciarsi guidare.
Per questo l’impegno fermo e risoluto della CEI per definire con il governo modalità compatibili con l’attuale situazione – certamente necessarie per salvaguardare il bene della salute, ma assolutamente possibili -, facendo valere con risolutezza in Italia le garanzie costituzionali e concordatarie riconosciute alla libertà religiosa e alla libertas Ecclesiae, non è solo meritevole ed apprezzabile, ma è giuridicamente doveroso. Un atto di giustizia davvero non più differibile, al quale, se i vescovi non ottemperassero, il popolo di Dio, in virtù della libertà e della corresponsabilità cristiana, deve con forza richiamarli.
Prof. Geraldina Boni
Ordinario di Diritto Canonico, di Diritto Ecclesiastico e di Storia del Diritto Canonico
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Consultore del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi