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Articolo di Pietro Dubolino, pubblicato sul quotidiano La Verità il 24 gennaio 2023.

Nella narrazione del processo a Gesù contenuta nel Vangelo di Marco c’è un particolare che non si trova in quella degli altri evangelisti ed al quale, in genere, non si dedica molta attenzione. Esso riguarda le false testimonianze che il Sinedrio cercava contro Gesù ed a proposito delle quali si riferisce che le stesse non erano concordi tra loro; il che significava che non se ne poteva tener conto. Di qui, dunque, la decisione di Caifa, sommo sacerdote, di passare al diretto interrogatorio dell’accusato, nella speranza, poi realizzatasi, che egli stesso facesse delle affermazioni che potessero giustificare la sua condanna. L’interesse del suddetto particolare nasce dal fatto che esso dimostra come il Sinedrio, pur fermamente deciso (almeno nella maggioranza dei suoi componenti) a giungere ad una pronuncia di condanna, si preoccupava, però, di mostrarsi rigorosamente osservante delle regole formali del processo; e tra esse una delle più importanti era quella, enunciata nel Deuteronomio (17, 6; 19, 15), secondo cui nessuno poteva essere condannato sulla parola di un solo testimone, ma ne occorrevano almeno due. Era, del resto, la stessa regola che ritroviamo nel diritto romano e che, espressa nel noto brocardo “unus testis nullus testis” (un solo teste è come nessun teste), è stata vigente anche in tutto il mondo occidentale fin quasi ai nostri giorni. Nella tradizione ebraica essa era tuttavia interpretata in modo particolarmente rigido, nel senso che le testimonianze non solo dovevano essere più di una, ma dovevano anche essere assolutamente conformi tra loro. Significativo, in proposito, è il famoso episodio biblico della casta Susanna (Dan.13). Di lei si narra che fu assolta dalla falsa accusa di adulterio perché i due uomini anziani che l’avevano accusata per vendicarsi del rifiuto da essa opposto alle loro profferte amorose, interrogati separatamente da Daniele, avevano riferito di averla sorpresa l’uno sotto un lentisco e l’altro sotto un rovere. Da notare che, trasferendo idealmente la stessa vicenda al tempo presente, quasi sicuramente l’esito del processo sarebbe stato diametralmente opposto, seguendosi ora il principio – di per sé ragionevole,  ma suscettibile anche di pericolose applicazioni – che le testimonianze non perdono la loro attendibilità per il solo fatto che divergano tra loro su alcuni particolari, quando concordino nell’essenziale e le divergenze possano trovare, secondo il giudice, una plausibile spiegazione diversa da quella del consapevole mendacio.

Tornando ora al tema specifico del processo davanti al Sinedrio, potrebbe dunque ritenersi che lo stesso, siccome condotto nell’osservanza delle regole formali allora vigenti, fosse un processo “giusto”. E tale, in effetti, esso dovette apparire alla massa dei contemporanei e tuttora appare a molti studiosi, specie (ovviamente) di orientamento filoebraico. Non è certamente il caso di addentrarsi qui nei meandri di una questione estremamente dibattuta e oggetto di innumerevoli studi specialistici, quale è appunto quella della “giustizia” o meno del processo in questione. Ci limitiamo quindi ad osservare soltanto che, di per sé, in questo come in ogni altro caso, l’osservanza delle regole formali – non di tutte, ovviamente, ma solo di quelle da ritenersi essenziali – è condizione necessaria ma non sufficiente perché un qualsiasi processo possa dirsi “giusto”. La “giustizia” del processo, infatti, presuppone anzitutto che la sentenza non sia già scritta in partenza nella mente del giudice, al di là di quanto, fin dall’inizio, sia (o possa apparirgli) obiettivamente certo ed incontrovertibile. Ed è proprio per garantire, per quanto possibile, tale presupposto che è stato affermato, fin dall’antichità, anche nel mondo ebraico, il principio della necessaria “terzietà” del giudice rispetto alle parti, quale si trova espresso nel brocardo “nemo iudex in causa propria” (nessuno può essere giudice in una causa propria). 

Vi è da dire, però, che tale principio, ai tempi di Gesù, era generalmente ritenuto applicabile soltanto alle controversie che involgevano interessi privati, rimanendo invece escluso quando si trattava di giudicare soggetti cui si addebitavano comportamenti ritenuti lesivi di quello che oggi definiremmo “ordine pubblico”. In tal caso, infatti, era la stessa autorità pubblica quella che procedeva e giudicava in via, per così dire, “amministrativa”, non essendo neppure concepibile che tra essa e l’offensore potesse esservi un giudice “terzo”.

Sotto questo profilo, quindi, non si potrebbe dire che fosse “ingiusto”, secondo le regole del tempo, il processo condotto dal Sinedrio contro Gesù, poiché era appunto l’ “ordine pubblico” quello che, dalla sua predicazione e dai suoi atti, poteva apparire offeso. L’ ingiustizia, come dianzi accennato, può semmai riconoscersi nel fatto che, per partito preso, la colpevolezza dell’accusato, nella mente dei giudici, era già data per scontata; e proprio per far sì che ciò non apparisse si aveva la massima cura di non contravvenire alle regole formali del giudizio. Una tale ingiustizia, però, è sempre possibile anche ai tempi nostri, nonostante che ora il giudice sia sempre, almeno formalmente, “terzo” rispetto a qualsivoglia accusa della quale debba rispondere il soggetto sottoposto a processo, anche quando si tratti di reati che direttamente offendono l’autorità dello Stato (dal quale, peraltro, lo stesso giudice è nominato e stipendiato). Ed è quindi sempre possibile che, adesso come ai tempi di Gesù, la scrupolosa osservanza delle norme processuali altro non sia se non uno schermo dietro il quale l’ingiustizia cerca di nascondersi; e non di rado con pieno successo.

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