fbpx

Steven (Colin Farrell) è un famoso chirurgo cardiotoracico. Insieme alla moglie Anna (Nicole Kidman) e ai loro due figli, Kim (Raffey Cassidy) e Bob (Sunny Suljic), vive una vita felice e ricca di soddisfazioni. Un giorno Steven stringe amicizia con Martin (Barry Keoghan), un sedicenne solitario che ha da poco perso il padre, e decide di prenderlo sotto la sua ala protettrice. Quando il ragazzo viene presentato alla famiglia, tutto ad un tratto, cominciano a verificarsi eventi sempre più inquietanti, che progressivamente mettono in subbuglio tutto il loro mondo, costringendo Steven a compiere un sacrificio sconvolgente per non correre il rischio di perdere tutto. Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos è una tragedia greca in chiave moderna. Nel corso della vicenda, si scopre che Steven ha “involontariamente” scatenato questa malattia/maledizione, perché ha causato un enorme dolore a Martin in passato, ed ora i familiari del dottore devono pagare lo scotto dello sbaglio del capofamiglia. Tipico tòpos della tragedia greca: le colpe dei padri ricadono sui figli. Da questa legge non si esce, la sentenza è ineluttabile, il dramma perpetua fino a che non viene ristabilito l’equilibrio tra la parte lesa (Martin) e la causa del male (Steven). 

Il mondo moderno mira ad eliminare tutto ciò che la natura ha di spiacevole, come la malattia e la morte. Con lo sviluppo delle scienze e delle tecniche, l’uomo ha cercato, sempre di più, nel corso dei secoli, di migliorare le proprie condizioni materiali, aspirando ad una utopica ed irrealizzabile vita perfetta: tutti la desideriamo, nessuno l’otterrà mai. Così vale anche per Steven Murphy (Colin Farrell), un noto cardiochirurgo, marito della bella oftalmologa Anna (Nicole Kidman) e padre di Kim (Raffey Cassidy) e Bob (Sunny Suljic).

Egli ha un ottimo lavoro, vive in una bella casa con tutti i comfort: la sua vita è apparentemente perfetta, non gli manca nulla. Ma Steven ha un piccolo segreto: dopo il lavoro, incontra assiduamente un misterioso ragazzo di nome Martin (Barry Keoghan). Il dottore ha un atteggiamento molto paterno nei confronti del ragazzo, dal momento in cui il padre del giovane (un suo ex paziente) è venuto a mancare.

Il loro rapporto evolve e Steven decide un giorno di presentare Martin alla famiglia. Da lì in poi, i figli del medico, misteriosamente, si ammalano di una patologia senza nome ed incurabile, come se fosse una specie di maledizione: qui inizia la tragedia.

Il dramma è causato interamente dal cardiochirurgo, l’unico grande colpevole nei confronti di Martin, il quale ha solamente attivato (in maniera inspiegabile, soprannaturale) quel particolare processo di “giustizia” del mondo antico: occhio per occhio, dente per dente.

Tu provochi a me un forte dolore, tu stesso devi provare una sofferenza altrettanto grande: solo così si può ristabilire quell’equilibrio naturale che è stato alterato dall’errore commesso.

Il riferimento alla tragedia greca è già esplicitato nel titolo  del film che fa riferimento a Ifigenia in Aulide di Euripide. Ifigenia, figlia di Agamennone, doveva essere sacrificata per far sì che le truppe greche potessero partire per Troia. Dopo essere stata attirata con l’inganno (dicendole di doversi sposare con Achille) in Aulide, sulle coste della Beozia, al momento del sacrificio, la donna viene sostituita con una cerva dalla dea Artemide, salvandola così dalla morte.

Che senso ha toccare questo nucleo dell’indicibile sacrificio del figlio? La distanza irriducibile è che il male assoluto nel mondo antico entra nella vita dell’uomo, non può essere redento perché non c’è una progettualità come invece avviene con il mondo ebraico. E subito viene  in mente il sacrificio di Isacco.

Nella lettura di Timore e tremore che compie Derrida in Donare la morte[1], viene messa in evidenza l’istantaneità del paradosso di Abramo. Il paradosso consiste nel fatto che un dovere, il dovere assoluto nei confronti di Dio, contrasta con l’etica che impone di amare il figlio. Due doveri e due amori in contraddizione. Ma è proprio l’amore per il figlio che, sacrificato a Dio, dà senso al sacrificio: solo se ciò a cui si rinuncia è davvero prezioso, addirittura irrinunciabile, si ha sacrificio.

Dice Kierkegaard che Abramo «sacrifica Isacco solo nell’istante in cui il suo atto è in contraddizione assoluta con il suo sentimento»; nella sua lettura Derrida sottolinea l’espressione “nell’istante”: per lui la contraddizione non può che essere istantanea. «Il paradosso è inafferrabile nel tempo e per la mediazione, ovvero nel linguaggio e per la ragione. Al pari del dono e del “dare la morte”, senza mai fare un presente, irriducibile alla presenza o alla presentazione, il paradosso esige una temporalità dell’istante. Appartiene a una temporalità atemporale, a una durata inafferrabile». [2]

Per Derrida l’istantaneità è la proprietà di ogni decisione: si decide nell’istante, tagliando con l’eventuale catena di conoscenze di un certo sapere, che non può in alcun modo guidare l’azione di chi decide: scarto nei confronti di ogni presunto sapere, indeterminazione assoluta, decisione nell’indecidibilità.

Abramo decide tra l’amore per il figlio e il dovere verso di esso, e l’amore e il dovere verso Dio: quale garanzia? Comunque agisca si troverà in errore: se ucciderà Isacco diverrà un assassino; se mancherà al dovere verso Dio sarà empio e spergiuro: nulla può guidare razionalmente la sua decisione. Non è così per l’eroe tragico: Agamennone si trova nella dolorosa condizione di dover sacrificare la figlia, ma lo fa senza esser chiamato a decidere tra due opposte leggi morali: il dovere di amare i figli fa parte dello stesso sistema di leggi che regolano la vita ordinata nello Stato, il dovere verso Ifigenia è compreso e superato nel dovere verso la patria.

La risoluzione opposta sarebbe una violazione della legge. L’indecidibilità nell’istante della decisione, in particolare della decisione di sacrificare Isacco, si configura, per alcuni aspetti, in modo simile allo stato d’eccezione teorizzato da Carl Schmitt.

Se nella decisione non c’è un sapere che guidi l’azione, nello stato d’eccezione non c’è un diritto – un sapere come complesso di forme giuridiche – che ne guidi l’instaurazione: il potere sovrano decide di includere ciò che non ha ancora norma – la nuda vita, zoé – nel sistema delle norme giuridiche.

È interessante la lettura che compie Agamben del potere sovrano nello stato d’eccezione: la sovranità «è la struttura originaria in cui il diritto si riferisce alla vita e la include in sé attraverso la propria sospensione»[3] .

E ancora: «La decisione sovrana traccia e di volta in volta rinnova questa soglia di indifferenza fra l’esterno e l’interno, l’esclusione e l’inclusione, nomos e physis, in cui la vita è originariamente eccepita nel diritto. La sua decisione è la posizione di un’indecidibile»[4].

La mossa di includere l’escluso, la nuda vita senza norma nel sistema normato, la pretesa di chiudere così il tutto in un sistema ordinato comprendente la sua origine, è però sempre esposta alla possibilità dell’irruzione del non previsto, di uno stato d’eccezione che ecceda il precedente ed il diritto su di esso fondato, proprio perché è impossibile appropriarsi del tutto.

Daniele Onori


[1] J. Derrida, Donare la morte, trad. it. di L. Berta, Jaca Book, Milano 2002

[2] Ivi, pp. 99,100.

[3] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 34.

[4] Ivi, p. 33.

Share