Il presente articolo intende proporre una riflessione filosofica sul film Il sapore della ciliegia (1997) di Abbas Kiarostami, assumendo una prospettiva ispirata al pensiero di Massimo Cacciari, in particolare alle sue meditazioni sulla morte, sulla libertà interiore e sull’etica del limite. Il film, essenziale nella forma e radicale nel contenuto, si presta a una lettura che interroga l’umanesimo contemporaneo, la crisi del senso e la possibilità di un’azione autentica anche di fronte all’impensabile: la decisione di porre fine alla propria vita. Nel silenzio e nella sottrazione, Kiarostami sembra evocare una filosofia che rifiuta ogni consolazione ideologica, lasciando lo spettatore solo con l’abisso della libertà.
Un uomo, il signor Badii, guida lentamente tra le colline aride e polverose nei dintorni di Teheran. Il paesaggio è spoglio, silenzioso, sospeso in un tempo indefinito. Badii non cerca compagnia, ma qualcuno disposto — in cambio di denaro — a compiere un gesto semplice e terribile: sotterrare il suo corpo ai piedi di un albero, qualora egli decida di togliersi la vita. Non chiede pietà, né conforto. Chiede solo presenza.
Nel corso del film, incontrerà tre uomini: un giovane soldato curdo impaurito, un seminarista afgano che si appella alla fede per dissuaderlo, e infine un vecchio tassidermista, impiegato in un museo di scienze naturali, che gli racconta la propria esperienza di fallito suicidio. Ognuno di loro rappresenta una diversa attitudine verso il mistero della vita e della morte: paura, speranza, ironia, compassione. Ma nessuno, neppure lo spettatore, saprà mai quale sarà la decisione finale di Badii. Kiarostami rifiuta la catarsi e il pathos esplicito, per costruire invece una tensione silenziosa e incessante, fatta di attese, sospensioni e vuoti che parlano più delle parole.
L’ombra di Socrate: la morte come scelta razionale
Badii non è un uomo travolto dall’emotività o dalla follia. Non urla, non supplica, non aggredisce. È, se mai, un uomo che medita. In questo senso, si avvicina alla figura del philosophos antico: colui che affronta la morte non come scandalo, ma come problema. La sua condotta richiama quella di Socrate nel Fedone, dove la morte non è una tragedia, ma il momento culminante della filosofia. Come osserva Massimo Cacciari, “la vera filosofia è meditazione della morte”: un pensiero che Badii sembra incarnare, nonostante (o proprio grazie a) la sua semplicità quotidiana.
Tuttavia, ciò che rende Badii tragico è proprio questa sua lucidità: non ignora la vita, ma la pesa. Non è un nichilista, ma un uomo che si chiede se valga la pena continuare. In lui si gioca una tensione tra il pensiero come atto di libertà e la vita come evento irriducibile, che sfugge a ogni calcolo. La sua decisione, proprio perché pensata, diventa più lacerante.
Il nulla come esperienza dell’umano
L’intero film si struttura come un lento avvicinamento al nulla. Non al nulla spettacolare e metafisico, ma al nulla esperito, vissuto, respirato come condizione ordinaria dell’umano. Le inquadrature fisse, i silenzi prolungati, l’assenza di colonna sonora, i paesaggi desertici: tutto concorre a costruire una fenomenologia dell’assenza. Il cinema di Kiarostami non racconta storie, ma spazi di percezione; non mostra risposte, ma aperture.
Nel Potere che frena, Cacciari parla della necessità di abitare il vuoto, senza la tentazione di colmarlo con certezze consolatorie. È questo ciò che fa Kiarostami: lascia che lo spettatore si confronti con l’assenza di senso, senza intermediazioni. Non c’è un dio che parli, né una redenzione annunciata. Ma proprio in questo vuoto si produce un senso nuovo: fragile, ma necessario.
L’etica della libertà e il rifiuto del giudizio
Kiarostami non condanna né assolve il suicidio. Non costruisce un discorso morale. Non ci dice cosa sia giusto o sbagliato. Lo sguardo che rivolge a Badii è quello di chi ascolta senza giudicare, accoglie senza voler correggere. Un’etica dell’ascolto, potremmo dire, che si avvicina a quanto Cacciari scrive in L’angelo necessario: “essere all’altezza dell’altro”. Questo significa non imporre una verità, ma accettare l’alterità radicale dell’altro come luogo di pensiero.
Ognuno dei personaggi incontrati da Badii offre un frammento di sé — una paura, una fede, un ricordo — ma nessuno lo tratta come oggetto di redenzione. L’unica cosa che offrono è il racconto, l’umanità, il sapore delle ciliegie. E quel sapore, evocato nel monologo finale del vecchio tassidermista, non è un simbolo di salvezza mistica, ma di vitalità elementare. Una sospensione del gesto fatale, forse. Un appello alla carne, prima che alla coscienza.
La sospensione come forma del sacro
La struttura narrativa del film è ellittica, spezzata, volutamente incompiuta. Il finale stesso — in cui vediamo Badii disteso nella fossa, seguito da un improvviso cambio di registro in cui la troupe appare in scena — rompe ogni illusione. La finzione si svela, la realtà cinematografica mostra le sue cuciture. Eppure, proprio in questa frattura, si apre uno spazio di sacro. Non il sacro del dogma, ma quello della soglia, del non-detto, del possibile. Kiarostami sembra dire: non tutto può essere detto, ma qualcosa può essere mostrato.
Cacciari, nella sua riflessione sulla “teologia negativa”, sottolinea come la verità autentica sia sempre velata, sempre eccedente rispetto alla parola. Anche il cinema, in questa visione, diventa un esercizio del limite, un modo di pensare che non afferra, ma sfiora. Il sacro abita in ciò che si sottrae, non in ciò che si impone.
Conclusione: un’etica dell’indecidibile
Il sapore della ciliegia non è un film sul suicidio. È un film sulla possibilità di pensare la vita. Sulla libertà tragica dell’uomo di decidere cosa farne, senza appigli morali precostituiti. In questo senso, è un’opera etica, ma di un’etica senza comandamenti: un’etica dell’indecidibile.
La forza del film risiede nella sua capacità di sospendere ogni certezza e di restituirci lo spazio nudo in cui la libertà si confronta con la propria finitudine. Un film rarefatto, essenziale, ma capace di toccare il cuore stesso della condizione umana: la responsabilità di scegliere, anche di fronte all’assenza di senso. Ed è forse in questo gesto, fragile e silenzioso, che si cela il vero sapore della ciliegia.
Daniele Onori
Bibliografia
- Abbas Kiarostami, Il sapore della ciliegia, film, 1997.
- Massimo Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano, 1990.
- Massimo Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano, 2013.
- Massimo Cacciari, L’angelo necessario, Adelphi, Milano, 1986.
- Simone Zacchini, Kiarostami. Il pensiero delle immagini, ETS, Pisa, 2015.
- Robert Bresson, Note sul cinematografo, SE, Milano, 1988.