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Articolo di Pietro Dubolino, pubblicato sul quotidiano La Verità il 20 dicembre 2022.

Ma fu vero tradimento quello costituito dalla triplice risposta negativa che, come ci narrano i vangeli, Pietro oppose a quanti lo accusavano di essere stato anche lui tra i discepoli di Gesù, avendolo visto nell’atrio della casa del sommo sacerdote, ove egli si era recato seguendo da lontano il maestro, dopo il suo arresto? In realtà, da un punto di vista giuridico, ci sarebbe da dubitarne. Potendosi, infatti, assimilare il gruppo formato da Gesù e dai suoi discepoli, nell’ottica del Sinedrio, ad una sorta di associazione per delinquere, quello che, secondo gli associati, costituiva un “tradimento”, avrebbe dovuto avere, per essere oggettivamente tale, le caratteristiche di una vera e propria “dissociazione”, manifestata con fatti e non solo con parole, quale oggi si richiede, ad esempio, nell’ambito dei giudizi penali, per escludere o ridurre la punibilità del singolo associato. Ma è di tutta evidenza che quelle caratteristiche non possono certo riscontrarsi nel comportamento di Pietro, essendosi egli limitato a negare di far parte dell’associazione, così esercitando niente più e niente meno che il legittimo e naturale diritto di difesa, quale definito nel noto ed antico brocardo latino secondo cui “nemo tenetur se detegere” (nessuno è tenuto a scoprirsi). A questo principio, del resto, si attennero anche, nella generalità dei casi, i cristiani sottoposti a persecuzione dalle autorità dell’Impero romano fino all’epoca di Diocleziano. Essi, infatti, non erano e non si ritenevano affatto tenuti a presentarsi spontaneamente alle autorità per dichiararsi cristiani, ma confessavano di esserlo soltanto quando non potevano farne a meno, dovendo spiegare ai magistrati dai quali erano stati convocati la ragione per la quale rifiutavano di sacrificare agli Dei. E che questo fosse comunemente giudicato, in ambito cristiano, il corretto modo di procedere lo si deduce anche, ad esempio, dagli atti del martirio di san Policarpo e compagni, nei quali viene messo in luce, non certo a caso, che di tutti i facenti parte del gruppo l’unico a cedere alle pressioni dei giudici era stato proprio quello che si era spontaneamente autodenunciato come cristiano.

 D’altra parte, se Pietro avesse ammesso di aver fatto parte del gruppo dei discepoli di Gesù, avrebbe solo danneggiato sé stesso, senza in alcun modo giovare al Maestro, ma anzi precludendosi la possibilità di adempiere, in futuro, al compito che lo stesso Maestro gli aveva assegnato; quello, cioè, di essere il fondamento della Chiesa che da Cristo avrebbe preso il nome. 

 E non andrebbe poi dimenticato che, in fin de’ conti, Pietro si era comunque mostrato più coraggioso degli altri discepoli. Era stato lui solo, infatti, a sguainare la spada per difendere Gesù contro quelli venuti ad arrestarlo, colpendone uno e staccandogli un orecchio. Ed era stato ancora lui, insieme (presumibilmente) a Giovanni, mentre tutti gli altri si squagliavano eroicamente, a seguire a distanza Gesù fin davanti alla casa del sommo sacerdote per poi addirittura entrare nell’atrio, avendone avuto il permesso dalla portinaia, su segnalazione dello stesso Giovanni che era entrato prima di lui, essendo persona “nota al sommo sacerdote” (come notato, con una punta, forse, di civetteria, nel quarto vangelo, del quale appunto Giovanni fu l’autore). Dimostrazione, questa, che allora, come oggi, avere delle buone conoscenze non è mai inutile.

 Ma per quale ragione, allora, se la triplice negazione non era stata un “tradimento”, Pietro se ne mostra poi pentito, tanto da “piangere amaramente”, una volta udito il canto del gallo, al ricordo delle parole di Gesù, dal quale gli era stato predetto che, prima che il gallo cantasse, lo avrebbe per tre volte rinnegato? E come si potrebbe, poi, ritenere che, se “tradimento” fosse stato, quel pianto fosse sufficiente ad ottenere il perdono, quando sarebbe stato ancora possibile per Pietro, volendo effettivamente rimediare al mal fatto, presentarsi al sommo sacerdote e confessare la propria appartenenza al gruppo dei discepoli di Cristo, affrontando le relative conseguenze?

 La risposta a tali interrogativi potrebbe essere trovata considerando che il vero peccato di Pietro, del quale egli si mostra pentito, non era stato costituito dalla triplice negazione, ma dal fatto di essersi in precedenza vantato, a fronte della profezia di Cristo che tutti lo avrebbero disconosciuto e abbandonato, che egli mai e poi mai lo avrebbe fatto. Era stato, quindi, quello di Pietro, un peccato di superbia o, quanto meno, di presunzione al quale – esso sì – non si poteva più porre rimedio, per cui altro non si poteva fare che riconoscerlo e provarne dolore, nella speranza della misericordia del Signore. E non può certo dirsi che, agli occhi dello stesso Pietro, potesse apparire come un peccato da poco, se si considera, da una parte, che Cristo aveva severamente condannato la superbia ed esaltato, di contro, la virtù dell’umiltà; dall’altra che a Pietro era già stato conferito (Matteo 16, 19) il primato sugli altri apostoli, per cui egli non poteva non considerare particolarmente grave il fatto che fosse stato proprio lui a contravvenire agli insegnamenti del Maestro.

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