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Nel dibattito politico sull’eterno cantiere della giustizia è emersa la volontà di intervenire a breve per modificare il delitto di abuso d’ufficio (art.323 cod. pen.), ed anche, in misura meno manifesta, il delitto di traffico di influenze illecite (art. 346– bis cod. pen.)[1], reato introdotto nel nostro ordinamento solo pochi anni orsono, precisamente dalla legge n. 190/2012 (cosiddetta Severino), e già modificato in maniera significativa una volta, peraltro di recente, dalla legge 9 gennaio 2019, n.3 (cosiddetta Bonafede).

Come è noto infatti la legge Bonafede introdusse, oltre all’importante novità dell’interruzione definitiva del decorso della prescrizione a seguito della pronuncia della sentenza di primo grado, numerose innovazioni in tema di reati contro la pubblica amministrazione, al dichiarato scopo di incrementare il contrasto ai fenomeni corruttivi ritenuti molto diffusi in Italia e rendere la disciplina maggiormente conforme alle Convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia in quella materia, da un lato l’art.12 della Convenzione penale del Consiglio d’Europa del 1999 e dall’altro la Convenzione di Mérida (Convenzione delle Nazioni unite contro la corruzione del 2003, ratificata ai sensi della legge 3 agosto 2009, n. 116).

Tra le novità certamente non trascurabile vi fu la completa riscrittura del delitto di traffico di influenze illecite previsto dall’art.346-bis cod. pen., introdotto come detto nel 2012, con contestuale abrogazione del delitto di millantato credito previsto dall’art. 346 cod. pen., che è stato di fatto assorbito dalla prima norma. Infatti il primo comma del nuovo art. 346-bis cod. pen. ora prevede nei primi due commi, quelli che descrivono la fattispecie, quanto segue : “Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all’articolo 322-bis, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a se’ o ad altri, denaro o altra utilita’, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, ovvero per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, e’ punito con la pena della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi.

La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità”. I successivi tre commi prevedono diverse circostanze aggravanti ed attenuanti specifiche.

In primo luogo va evidenziato che il legislatore del 2019 ha ritenuto che mantenere la distinzione tra traffico di influenze illecite ( art. 346-bis cod. pen.) e millantato credito (art. 346 cod. pen.), a seconda se le relazioni del mediatore con il pubblico funzionario fossero reali o meramente millantate, fosse probabilmente non conforme alla lettera delle citate previsioni contenute nelle Convenzioni internazionali per il contrasto alla corruzione. Inoltre tale distinzione comportava inevitabilmente in sede processuale delle notevoli difficoltà, in quanto non era ben chiaro quale fosse il criterio distintivo in tutte le ipotesi di confine, quando ad esempio la relazione con il pubblico funzionario fosse derubricabile ad una mera conoscenza, oppure quando la relazione fosse esistente ma veniva millantata la capacità di incidere effettivamente nelle scelte dell’amministratore pubblico.

In secondo luogo, di sicuro rilievo è stata la novità di prevedere in ogni caso la punibilità sia del “trafficante” che del privato che ha commissionato la mediazione con il pubblico agente, entrambi puniti con il medesimo trattamento sanzionatorio, e ciò anche nel caso di “asserite” relazioni con l’agente pubblico. In precedenza le due posizioni soggettive erano del tutto distinte, dato che l’originario art. 346-bis cod. pen. presupponeva lo sfruttamento di relazioni esistenti con il pubblico ufficiale, mentre nel reato di millantato credito il privato non era chiamato a rispondere penalmente, poiché ritenuto sostanzialmente vittima di un truffa ad opera del millantatore che non era in grado di interferire nelle scelte del funzionario.

Anche sotto questo profilo va precisato che la doppia punibilità dei due soggetti protagonisti del traffico di influenze, appare maggiormente conforme alle su richiamate Convenzioni, che non distinguono in nulla la posizione dell’intermediario da quella del privato che vuole comprare i suoi “servigi”. Gran parte della dottrina ha criticato da subito la scelta draconiana fatta dal legislatore interno, ritenendo che le norme convenzionali non impedivano quantomeno di differenziare sul piano sanzionatorio la posizioni del privato che è vittima di un inganno del millantatore, da quella in cui il pericolo dell’interferenza illecita è reale e concreto non essendoci alla base alcuna “vendita di fumo”. E’ stato quindi sottolineato che, in questi casi, vi potesse essere un vulnus ai principi costituzionali di offensività e di proporzionalità delle sanzioni posti alla base delle fattispecie penali, in quanto si andrebbe a “ ….punire una mera intenzione malvagia del cliente, senza alcun pericolo per il corretto e imparziale funzionamento della P.A., perché è assente qualsivoglia capacità del “mediatore” di porsi nel caso specifico in relazione con agenti pubblici di cui ha millantato una relazione in realtà inesistente”. 

L’ultima importante novità è consistita nel far venir meno quale elemento integrante la fattispecie, la finalizzazione dell’accordo illecito con l’intermediario al solo compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio (ossia la finalizzazione alla corruzione cd. propria), limitazione che tante perplessità e dubbi interpretativi aveva raccolto. Orbene si evidenzia che il nuovo art. 346-bis cod. pen. fa riferimento all’intermediazione illecita nei confronti dei pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio “…in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”, quindi ricomprendendo, oltre ovviamente alla corruzione propria, anche le ipotesi di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art.318 cod. pen., norma peraltro ignorata dall’iniziale clausola di sussidiarietà del precedente art. 346-bis cod. pen.. Ne consegue che in base alla nuova formulazione della fattispecie anche l’accordo illecito con il trafficante finalizzato alla corruzione cosiddetta impropria (ma si deve ritenere, per ragioni sistematiche, anche, ad esempio, per far compiere abusi d’ufficio e rivelazioni di segreti d’ufficio) potrà essere sanzionata penalmente, fatto di cui in precedenza era più che legittimo dubitare. L’ipotesi del traffico di influenze finalizzato alla corruzione cosiddetta propria va invece ad integrare l’aggravante di cui al quarto comma, come ora modificato dalla legge Bonafede, in ragione dell’oggettivo maggior disvalore della proiezione della condotta illecita di cui al primo comma al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio.

Malgrado gli sforzi compiuti dalla legge n.3/2019 per risolvere le maggiori criticità della prima formulazione del delitto di traffico di influenze illecite, a distanza di quattro anni il bilancio della riforma dell’art. 346 – bis cod. pen.  non può considerarsi del tutto positivo, perché, oltre a marcate critiche dottrinali sul deficit di tassatività[2], anche in sede giurisprudenziale sono emerse non poche incertezze interpretative, che hanno dato vita anche a palesi contrasti, peraltro all’interno della medesima  Sesta Sezione della Cassazione che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione.

 Un primo contrasto nella giurisprudenza di legittimità riguarda la continuità normativa tra la nuova fattispecie di traffico di influenze illecite e l’abrogato delitto di millantato credito. Il vero tema della divergenza riguarda in particolare la punibilità del privato committente nei casi in cui la relazione tra mediatore e pubblico agente è di fatto inesistente, frutto di una millanteria realizzata ai danni del privato, compiuta allo scopo di raggirarlo ed ottenere un compenso truffaldino per una mediazione con il pubblico agente che mai prenderà consistenza.

Secondo l’interpretazione più diffusa e maggiormente in linea con la lettera della norma novellata, che fa espresso riferimento anche a relazioni “asserite” con il pubblico ufficiale, quindi da intendersi non esistenti al momento dell’accordo illecito, si ritiene che: “Sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen. – formalmente abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 – ed il reato di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., atteso che, in quest’ultima fattispecie, risulta attualmente ricompresa la condotta di chi, vantando un’influenza, meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, riceva o si faccia dare o promettere denaro o altra utilità col pretesto di dovere comprare il pubblico agente o di doverlo comunque remunerare”. (cfr. tra le altre: Cass., sez. VI, n.32574, del 26/05/2022; sez. VI, n.20935, del 22/03/2022; Sez.VI, n.1869, del 07/10/2020; Sez.VI, n.17980 del 14/03/2019).

Secondo un altro orientamento, che si potrebbe definire più garantista, non sussiste piena continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen., ora abrogato, e la nuova disciplina del traffico di influenze illecite., “in quanto, in quest’ultima fattispecie, non risulta ricompresa la condotta di chi, mediante raggiri o artifici, riceve o si fa dare o promettere danaro o altra utilità col pretesto di dovere comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo, comunque, remunerare, condotta che integra, invece, il delitto di cui all’art. 640, comma primo, cod. pen.” (così Cass., Sez. VI, n.23407 del 10/03/2022; Sez. VI, n.28657 del 02/02/2021; Sez. VI, n.5221, del 18/09/2019[3]). In queste decisioni si afferma che la punibilità del privato si giustifica a condizione che il rapporto tra il mediatore ed il pubblico agente sia effettivamente esistente o, quanto meno, potenzialmente suscettibile di instaurarsi, posto che solo in tal caso il bene giuridico tutelato dalla norma verrebbe leso, mentre nel caso in cui il privato sia tratto in errore, si realizzerebbe esclusivamente un pregiudizio alla sua sfera patrimoniale.  Si sostiene, pertanto, che “ diversamente opinando, residuerebbero sulla sfondo dubbi di legittimità costituzionale della fattispecie sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzione, perché si punirebbe con la stessa pena colui che paga in quanto ingannato e colui che paga sul presupposto della certezza della effettiva esistenza di una relazione tra mediatore e pubblico agente” (così Cass. n.23407/22, op. cit.).

Ancora più significative appaiono le incertezza interpretative della Suprema Corte in ordine all’ambito applicativo del novellato art. 346 – bis cod. pen., derivanti in particolare dall’esigenza di tipizzare meglio la fattispecie. Infatti, in un paio di decisioni (cfr. Sez.VI, n.40518 del 08/07/2021)[4] la Sesta sezione ha affermato il seguente principio, così massimato: “In tema di traffico di influenze illecite, il reato non è integrato per effetto della mera intermediazione posta in essere mediante lo sfruttamento di relazioni con il pubblico agente, occorrendo che la mediazione possa qualificarsi come “illecita”, tale dovendosi ritenere l’intervento finalizzato alla commissione di un “fatto di reato” idoneo a produrre vantaggi per il privato committente” (così anche Sez. VI, n.1182 del 14/10/2021)[5]. Secondo questa interpretazione per “mediazione illecita” va intesa solo quella finalizzata alla commissione di un “fatto di reato” da parte del P.U. idoneo a produrre indebiti vantaggi per il privato committente, non essendo invece ricomprese nella fattispecie le mediazioni volte a far commettere al pubblico agente violazioni di norme amministrative o civili non presidiate penalmente. Lo sforzo ermeneutico, molto apprezzato dalla dottrina, è stato quindi quello di delimitare meglio sotto il profilo della tipicità penale la nozione di “mediazione illecita”, ancorando l’interprete alla ricerca di un elemento certo, ravvisato esclusivamente nel fine di indurre il pubblico agente finale a tenere una condotta penalmente rilevante (ad esempio quella di corruzione o anche di un vero abuso d’ufficio). E’ però evidente che l’orientamento giurisprudenziale in disamina rende assai più gravoso l’onere dell’accusa, frustrando di fatto le intenzioni del legislatore di allargare l’ambito di intervento penale in materia di contrasto anticipato ai fenomeni corruttivi. Peraltro, l’orientamento sopra esposto non pare ancora essersi consolidato, dato che viene segnalata una decisione di segno contrario[6], in cui è stato ritenuto corretto il ragionamento dei giudici di merito che non avevano fatto menzione di alcuna finalità di commissione di un fatto di reato da parte del pubblico agente destinatario della mediazione onerosa.

I contrasti e le incertezze mostrati dalla giurisprudenza, nonché le serrate critiche della dottrina circa il difetto di tipicità della norma, non possono che indurre a ritenere l’opportunità di una rivisitazione dell’intera materia, intendendosi con tale accezione la complessiva disciplina dell’attività di lobbistica, al fine di meglio definire i contorni di ciò che deve rimanere lecito, ossia la legittima e trasparente rappresentazione di interessi di categoria presso la pubblica amministrazione per consentire a quest’ultima di decidere con dati e informazioni adeguate, da quello che invece può avere una effettiva rilevanza penale, tenuto conto dell’esigenza di prevedere la concreta offensività del bene giuridico tutelato propria delle norme penali.[7] Come è stato osservato dalla dottrina che ha approfondito le questioni connesse all’esercizio dell’attività di lobbying, dal punto di vista penalistico a poco servirebbe introdurre controlli di tipo formale sulla trasparenza degli incontri tra lobbisti e decisori pubblici, perché le violazioni di eventuali regole di trasparenze al massimo potrebbero condurre a sanzioni amministrative[8]. Partendo invece dalle argomentazioni emerse dalle decisioni della giurisprudenza sopra richiamata, andrebbe forse percorsa la strada dell’effettivo accertamento della potenzialità lesiva degli interessi pubblici, con una contestuale finalizzazione alla realizzazione di un “indebito vantaggio” per il privato che ha commissionato al lobbista la mediazione con il pubblico ufficiale. In altri termini trattandosi di un reato che anticipa la tutela penale ad una fase prodromica di ulteriori accordi illeciti, va recuperato in pieno lo schema del reato di “pericolo concreto” di lesione del bene giuridico tutelato, in modo da assicurare maggior certezza del diritto e ossequio al principio cardine del diritto penale, ossia la tipizzazione della fattispecie illecita.

In ogni caso, sarebbe opportuno un intervento legislativo ben meditato, che non sia frutto di scelte politiche improvvisate o condizionate da “ansia di risultato”, dato che una nuova modifica sarebbe il terzo intervento nell’arco di poco più di dieci anni. Analogo auspicio andrebbe fatto, ovviamente, anche per l’ennesima riforma del reato di abuso d’ufficio che è un sicuro obiettivo del programma del nuovo Ministro della Giustizia, anche alla luce delle statistiche che, a fronte di numero elevato di procedimenti penali iniziati, ha visto una oggettiva esiguità delle sentenze di condanna (in fase dibattimentale 18 condanne nel 2021, 37 nel 2020, 54 nel 2019)[9].

Giuseppe Marra


[1] Per un inquadramento generale della fattispecie, ci sia consentito il richiamo a G.MARRA, Traffico di influenze (delitto di), in Digesto (disc. pen.), 2018, X ed., pagg. 878 ss., nonché V.MAIELLO, Il delitto di traffico di influenze indebite, in B.G.MATTARELLA- M.PELLISSERO, La legge anticorruzione, prevenzione e repressione della corruzione, Torino, 2013.

[2] Per un approfondimento circa i commenti della dottrina sulla riforma del 2019 si veda G.PONTEPRINO, La nuova versione del traffico di influenze illecite: luci ed ombre della riforma “spazzacorrotti”, in Sist.Pen., fasc.12/2019.

[3] Pubblicata in Cass.pen., 2020, fasc.4, sez. 2, pagg. 1535 ss., con nota di M. GAMBARDELLA, L’incorporazione del delitto di millantato credito in quello di traffico di influenze illecite ha determinato una limitata discontinuità normativa, facendo riespandere il reato di truffa.

[4] In Foro It., 2022, n.3, pg.150, con nota di E.LA ROSA, L’inafferrabile tipicità del traffico di influenze illecite: tra persistenti ambiguità e riforme abortite.

[5] In www.giurisprudenzapenale.com – 1° febbraio 2022, con nota di B.ROMANO, La Cassazione prova nuovamente a definire l’inafferrabile traffico di influenze illecite, nonché in Cass.pen., 2022, fasc.10, sez.iV, pagg. 3548 ss., con nota di G.MAZZESCHI, La Cassazione definisce la tipicità del traffico di influenze illecite.

[6] Cfr. Cass., Sez. VI, n.35280 del 23/09/2021.

[7] Per adeguati spunti di riflessione, anche in prospettiva di eventuali riforme, si veda il recente lavoro di V.MONGILLO, Il traffico di influenze illecito nell’ordinamento italiano: crisi e vitalità di una fattispecie a tipicità impalpabile, in Sist. Pen., 2 novembre 2022. 

[8] Cfr. V.MONGILLO, op.cit., pag.25; nonché per uno sguardo anche comparatistico M.C.UBIALI, Attività politica e corruzione. Sulla necessità di uno statuto penale differenziato. Milano, 2020.

[9] Prime riflessioni sulla prospettiva di riforma dell’art. 323 cod. pen. svolte da C.CUPELLI, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, in Sist.Pen., 23 gennaio 2023

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