Riflessioni a margine dell’omonimo libro di Paolo Mieli, con un occhio alla cancel culture.
Fra i molti tribunali esistenti uno dei più antichi e senza dubbio uno dei più autorevoli, è il Tribunale della Storia (iniziali tutte maiuscole), sempre presente all’attenzione dell’opinione pubblica, ma ritornato adesso prepotentemente al centro dell’interesse grazie all’omonimo libro (col sottotitolo “processo alle falsificazioni”) dedicatogli nel 2021 da Paolo Mieli.
Più di recente vi si è appellato il sindaco di Siena, Luigi De Mossi, commentando con l’Adnkronos la sentenza della Corte d’Appello di Milano (del 5 maggio 2022), che, ribaltando pressoché integralmente la pronuncia di primo grado, ha assolto i vertici del Monte dei Paschi. Più di recente ancora (il 7 ottobre 2022), dal carcere di Opera, dove è detenuto, il terrorista e scrittore Vincenzo Vinciguerra ha fatto altrettanto, prendendo spunto dalla richiesta della Procura di Milano di rinvio a giudizio di Marco Toffaloni e Roberto Zorzi, chiamati a rispondere, a distanza di 48 anni, della strage di Piazza della Loggia a Brescia (avvenuta il 28 maggio 1974). Sia De Mossi che Vinciguerra si muovono seguendo la tradizionale consuetudine che attribuisce al Tribunale della Storia il compito di riparare, in un futuro più o meno prossimo, agli errori, al mancato accertamento della verità, alle ingiustizie dei contemporanei, alle défaillances degli organi giudiziari.
Il sindaco di Siena, che evidentemente non condivide la decisione della Corte d’appello milanese, si mostra sicuro che “il tribunale della storia giudicherà con severità un intero sistema di potere senese che ha portato al disastro della terza banca del Paese”. A sua volta, Vincenzo Vinciguerra, allargando il discorso dalla strage di Brescia ad altri luttuosi eventi di quel periodo, avanza una serie di domande, alle quali – si dice sicuro – la magistratura, proprio per il compito che è chiamata a svolgere, non potrà mai rispondere, anzi nemmeno se le porrà, mentre “la Storia sì può farlo”.
Un approccio diverso quello di Paolo Mieli in un libro che, guardando non al futuro, ma al passato, si propone di vagliare la corrispondenza a verità dei consolidati giudizi su fatti e persone pronunciati dal Tribunale della Storia, attraverso l’applicazione di metodi e delle regole mutuati dal processo penale.
Si è tentati di obiettare, a tale impostazione, che mentre De Mossi e Vinciguerra si muovono entro il perimetro della nozione classica del Tribunale della Storia, Mieli traveste con abiti giudiziari, in modo da renderlo più attraente per i lettori, nient’altro che una forma di revisionismo storico, al quale presta tanto di banco degli imputati quanto le requisitorie dell’accusa e l’arringa della difesa.
Tuttavia, a ben guardare, il ricorso a quello che può sembrare un semplice artificio letterario, determina un mutamento di sostanza, che riporta anche Mieli all’interno del perimetro tradizionale. Ed infatti, la discesa in campo del Tribunale della Storia comporta che, quali che siano gli strumenti tecnici utilizzati per l’accertamento dei fatti, la sentenza finale sia necessariamente frutto anche di un giudizio morale. Esattamente quello che si attendono, sia pure dal futuro, sia De Mossi che Vinciguerra, convinti, appunto, che il giudizio sarà “giusto” in quanto “morale” e come tale ripagherà quanti sono rimasti feriti o delusi dalla giustizia, meglio dalla mancanza di giustizia, dei contemporanei.
Insomma, sia che lo si collochi nel futuro, sia che lo si chiami a giudicare il passato, la funzione del Tribunale della Storia resta comunque quella di riparatore dei torti; ed in ciò, anche il libro di Mieli si adegua. E tuttavia, lo spostamento dell’attenzione dal futuro al passato sostituisce, alla speranza, il giudizio (dagli esiti non di rado impietosi). Di conseguenza, mentre per De Mossi e Vinciguerra il Tribunale della Storia finisce con l’avere un volto sempre positivo, perché riparatore, al contrario per Mieli, esso rappresenta quasi un caso di “malagiustizia”, tali e tanti sono gli errori che gli addebita. A cominciare dal “pio” Enea, sospetto traditore della patria.
L’implicazione nei suoi responsi di un giudizio morale mette il Tribunale della Storia e, di conseguenza, il revisionismo di Paolo Mieli in totale opposizione alla concezione della storia propria di un Benedetto Croce (tuttora assolutamente dominante), che ritiene ogni giudizio morale incompatibile col giudizio storico ( a differenza di quel che viene sostenuto dalla cosiddetta cancel culture).
Al tempo stesso, il Tribunale della Storia rimane estraneo anche alla visione cristiana della Storia. Da un lato, infatti, la “morale” cui fa riferimento può variare a seconda delle coordinate del tempo e dello spazio e, comunque, non è necessariamente quella cristiana. Dall’altro, le sue decisioni riguardano, di volta in volta, singoli “casi” e sono perfettamente compatibili anche con le opinioni che considerano gli eventi storici una semplice successione di fatti, privi di quel significato e di quel senso ultimo che, come gli anelli di un’unica catena, ne fanno per i cristiani le componenti di quella storia della salvezza di cui, come insegna Sant’Agostino, è indispensabile presupposto la fede che Gesù sia il Cristo, l’Unigenito Figlio di Dio. Tuttavia, a differenza di quanto avviene con la tesi crociana, non vi è incompatibilità assoluta, perché l’esigenza di un giudizio morale, anche se riferito ad ogni singolo evento, pur se non lo presuppone e non lo esige, non è nemmeno in necessaria contraddizione col riconoscimento del senso e del fine della Storia. In effetti vi sono stati secoli nei quali il Tribunale della Storia risultava nei suoi giudizi se non partecipe, quanto meno influenzato dalla visione cristiana. Oggi non più.
Francesco Mario Agnoli