Le continue polemiche tra Governo e Regioni cui assistiamo quotidianamente da qualche settimana in merito alla competenza (e alla responsabilità) nell’assunzione dei provvedimenti connessi all’emergenza Covid 19, unite alle dichiarazioni di esponenti sia della maggioranza sia dell’opposizione circa l’opportunità o meno di una ri-centralizzazione della sanità non sono solo occasionate dalla drammatica situazione che stiamo attraversando, ma evidenziano in realtà alcuni nervi scoperti del nostro sistema istituzionale e più in generale dell’assetto del regionalismo nel nostro Paese.
Le contrapposizioni centro-periferia, infatti, non sono ascrivibili unicamente alla dialettica maggioranza-opposizione: contro il Governo si esprimono anche Presidenti di Regione appartenenti a una delle forze politiche di maggioranza nel Governo. Non solo, la polemica sta altresì investendo il tema pubblico-privato nell’organizzazione regionale della sanità, quindi una scelta di campo non condivisa dall’attuale Governo, almeno da una componente dello stesso.
Insomma il tutto suona come un campanello di allarme per il regionalismo del post emergenza, poiché, peraltro, si colloca in un contesto caratterizzato (e già prima dell’emergenza) dalla centralizzazione dei poteri normativi del Governo e dalle continue dichiarazioni circa la necessità di “nazionalizzare” (strade, trasporti…).
Sul tema della sanità, che pare la spia sintomatica di ben altre questioni, val comunque la pena di spendere qualche considerazione. I giudizi di merito sull’attività delle Regioni di questo periodo (positivi o negativi poco importa) non tengono conto del fatto che già oggi lo Stato, se veramente lo volesse, dispone di strumenti che gli consentono di imporre indirizzi unitari o, comunque, di intervenire in determinate situazioni con scelte unitarie.
Già ora, infatti, il Parlamento dispone della competenza legislativa esclusiva ex art. 117 comma 2 lett. m della Costituzione sui livelli essenziali delle prestazioni (anche in materia sanitaria) che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. In secondo luogo l’art. 120 Cost consente al Governo il potere sostitutivo (nei confronti delle Regioni) proprio a tutela dei livelli essenziali di cui sopra.
La centralizzazione di cui si discute, dunque, è già possibile, e consiste nella possibilità (legislativa o comunque normativa) di imporre alle Regioni di garantire le prestazioni che vengono ritenute indispensabili per l’uguaglianza dei cittadini, ovunque essi risiedano. Del resto, il potenziale di differenziazioni territoriali introdotto dal nuovo Titolo V, anche sul terreno dei diritti sociali, ha posto sin dal 2001 il tema degli strumenti di garanzia della necessaria unitarietà, tipico, per la verità, degli ordinamenti decentrati. In questi, infatti, si pone come determinante la questione del punto di equilibrio tra esigenze di unità fondate sulla costruzione della cittadinanza sociale e libertà di differenziazioni legittimate dal frazionamento del potere politico. Punto di equilibrio che, nel nostro ordinamento, è stato rinvenuto, soprattutto, nella formula dei livelli essenziali delle prestazioni.
Per la verità, nella materia sanitaria i livelli essenziali di assistenza sono peraltro già stati individuati dal DPCM 12 gennaio 2017, che ha sostituito integralmente il DPCM 29 novembre 2001, con cui i LEA erano stati definiti per la prima volta. In entrambi i casi, va sottolineato, la individuazione ha visto una reale concertazione Stato-regione, a dimostrazione che il regionalismo cooperativo è possibile. Ma la stessa vicenda dimostra che a quasi vent’anni dalla revisione costituzionale del 2001 in una materia così delicata sono stati prodotti solo due provvedimenti, e in un settore in cui il progresso scientifico e tecnologico, nonché il mutamento della conformazione della popolazione richiederebbe, invero, interventi costanti.
La carenza di un serio impegno statale nell’individuazione dei livelli essenziali (anche negli altri settori di fruizione dei diritti e soprattutto dei diritti sociali) incide direttamente (e in negativo) sull’eguaglianza sostanziale, cioè sulla garanzia della a-territorialità nella fruizione. Ma, come ha osservato Roberto Bin (La Costituzioneinfo, 6 aprile 2020), tale carenza è addebitale allo Stato – Parlamento e Governo – e non certo alle Regioni, il cui scopo costituzionale è la differenziazione, mentre è allo Stato che compete mettere in campo gli strumenti unitari.
Se, invece, l’argomento polemico consiste nel contestare l’esistenza di “venti sistemi regionali diversi”, allora si entra in un genere di considerazioni completamente diverso, e il discorso si sposta inevitabilmente sul senso del regionalismo e sul suo “posto” nel sistema costituzionale. Qui non è più un problema di fruizione di prestazioni essenziali (la cittadinanza sociale a-territoriale) ma si contesta direttamente la possibilità di differenziare l’organizzazione del sistema sanitario.
A parte la considerazione che già dal 1990-1992 (ben prima dunque della riforma costituzionale del 2001) l’indirizzo politico statale si è decisamente e costantemente indirizzato verso un decentramento nell’organizzazione della sanità (che peraltro costituisce la quasi totalità del bilancio regionale), vi è, in realtà, un vizio di fondo teorico in quel ragionamento, spia di una ben esile considerazione del regionalismo in quanto tale.
Il regionalismo è infatti, pour cause, differenziazione, altrimenti non avrebbe motivo di esistere. Le Regioni sono nate per rendere il sistema più democratico ma ciò, inevitabilmente sfocia nella diversificazione, poiché significa consegnare alle comunità regionali talune scelte che incidono sulla vita della comunità stessa. Quando, dunque, si addebita al regionalismo la differenziazione come esito delle politiche regionali si mette in campo un’argomentazione del tutto inconferente. Il tema, semmai, è fin dove si può spingere quella differenziazione, tema, appunto che percorre tutti i sistemi decentrati.
Prima di revocare in dubbio il regionalismo e il Titolo V sarebbe forse utile iniziare a farlo funzionare. Sarebbe utile lasciare alle Regioni la possibilità di differenziarsi, mentre lo Stato dovrebbe finalmente assolvere al compito di unitarietà che lo stesso Titolo V gli assegna, e che non consiste nell’ossessiva compressione delle competenze regionali (come dimostra il fatto che praticamente tutte le leggi regionali vengono impugnate dinanzi alla Corte costituzionale), quanto nel programmare lo sviluppo economico e sociale del Paese e immaginare quelle “infrastrutture di sistema” utili anche alle Regioni.
Prof. Anna Maria Poggi
ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Universita di Torino