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1. Al momento del dilagare in tutto il mondo dell’emergenza Covid19, hanno destato scalpore le iniziali affermazioni del governo britannico che da un lato, per bocca del Primo Ministro, Boris Johnson, ha da subito manifestato consapevolezza della gravità dell’epidemia, senza indulgere in banalizzazioni o fatui ottimismi, dall’altro, sposando le tesi dei consulenti scientifici Chris Whitty e Patrick Vallance, è sembrato adottare la strategia secondo la quale sarebbe preferibile lasciare che il contagio si diffonda nella popolazione, con l’obiettivo primario di raggiungere la c.d. “immunità di gregge”.
L’immunità di gregge è una forma di protezione indiretta che si verifica quando la vaccinazione di una parte molto significativa, sebbene non totale, della popolazione fornisce una tutela anche agli individui che non hanno sviluppato direttamente quella specifica immunità e agli individui immunodepressi. Tuttavia, non esistendo ancora un vaccino per il Sars-Cov-2 e non potendosi, dunque, procedere a una vaccinazione di massa, l’immunità di gregge dovrebbe ottenersi in modo naturale, cioè lasciando che un numero sufficiente di persone – secondo Whitty e Vallance almeno il 60% degli inglesi (ma presumibilmente di chi con essi abbia contatto) – contragga il virus, sviluppi autonomamente gli anticorpi, e guarisca. Dopodiché, le probabilità di contagio scenderebbero notevolmente.

L’approccio suggerito dai consiglieri del Primo Ministro inglese è stato sommerso da un profluvio di critiche da parte della comunità scientifica internazionale, che ha segnalato come l’immunità di gregge è una strategia che si usa quando c’è un vaccino e in questo caso non c’è; che la soglia di immunizzazione per malattie ad elevata contagiosità deve essere molto alta (almeno il 90%); che l’immunizzazione da Covid19 tramite contagio non è affatto sicura, trattandosi di un virus nuovo e non essendoci conferme scientifiche sull’immunità duratura per le persone guarite; che, soprattutto, la mancata adozione di misure di contenimento determinerebbe il verosimile rapido contagio a probabile esito infausto di un numero elevato di persone vulnerabili.

2. Tanto ha indotto il governo britannico a rivedere il proprio approccio; non così altri Paesi, Olanda in testa, il cui Premier, Mark Rutte, persegue una strategia di sacrificio dei più deboli sull’altare del business as usual e delle libertà individuali (nella declinazione libertaria e tutt’altro che comunitarista tipica dei Paesi Bassi). Basti pensare che in Olanda, in pochissimi giorni, il numero di contagiati e di morti è aumentato oltre ogni previsione (i Paesi Bassi contano circa 17 milioni di abitanti) e si sono esauriti i posti in terapia intensiva; sicché le autorità sanitarie, attraverso i medici di famiglia, stanno chiedendo ai cittadini, a cominciare dai più anziani, di mettere nero su bianco se in caso di contagio e situazione grave intendano essere curati (con il respiratore), oppure lasciare che la malattia faccia il suo corso: con l’implicita pressione a cedere il posto a qualcuno più giovane con maggiori probabilità di guarigione. Una vera e propria selezione mascherata da eutanasia selettiva. Una selezione che, del resto, il governo olandese vorrebbe determinare anche sotto altro profilo, considerato che è il più duro oppositore di un’azione comune dell’Unione Europea contro la crisi e la successiva “ricostruzione”…

Quella che non può essere nascosta, dunque, è la visione di fondo darwiniana, che si tinge sinistramente di cinismo sociale ed economico, delle proposte di parte del mondo scientifico (e purtroppo, poi, adottate da alcuni governanti) provenienti da aree geografiche già culturalmente e istituzionalmente distintesi per aver trasformato in “diritto” quelle che sono sue aberrazioni (dal suicidio assistito all’eutanasia infantile, imposta anche agli infradodicenni affetti da malattie gravi) o per aver abbandonato terapeuticamente, nel paradosso del loro “miglior interesse”, neonati malati gravi, ritenuti inguaribili e come tali nemmeno meritevoli di cure: il riferimento è ovviamente alle vicende dei piccoli Charlie Gard, Alfie Evans, Isaiah Haastrup, solo per citare i casi di cui si è avuto notizia e di cui il Centro Studi Livatino ha avuto modo di occuparsi .

3. Il prezzo di una (presunta) immunità della comunità, ottenuta non con un vaccino ma esponendo deliberatamente la stragrande maggioranza della popolazione al virus, sarebbe, infatti, elevatissimo. Se la mortalità da Covid19 fosse del 2%, su un milione di infetti vi sarebbero 20 mila morti, su 40 milioni (il 60% dei britannici), 800 mila morti. Ovviamente, come ormai noto, il tasso di letalità è di gran lunga più elevato nella popolazione anziana e affetta da altre patologie (non necessariamente gravi, tra di esse rientra ad es. anche l’ipertensione arteriosa…), sicché la magna pars di un numero spropositato di decessi si registrerebbe proprio tra i soggetti più vulnerabili della comunità. Sotto altra prospettiva, se, come sembra, il 10% dei malati di Covid19 necessita di terapia intensiva, significa che su un milione di infetti ne avrebbero bisogno 100 mila pazienti. Siccome nessun sistema sanitario al mondo è in grado di far fronte a un’emergenza di questo tipo, la conseguenza sarebbe il deliberato abbandono terapeutico della “zavorra improduttiva” della comunità (deboli, vecchi, malati) in voluta applicazione di protocolli da c.d. “medicina delle catastrofi”, non più improvvisamente necessitati, ma perseguiti e intenzionalmente prescelti, con tutte le enormi implicazioni etiche che essi portano con sé.

In estrema sintesi, la c.d. “medicina delle catastrofi” consente la deroga alla norma deontologica secondo la quale «tutti i pazienti sono uguali e vanno curati senza discriminazioni», quando le risorse non consentono di trattare tutti i pazienti che necessitano di uno specifico trattamento clinico. Questo determina la necessità di operare una selezione nell’ammissione ai trattamenti per effettuare la quale occorrono criteri ulteriori rispetto a quelli clinici di appropriatezza e proporzionalità: le probabilità di sopravvivenza (ovvero la maggiore speranza di vita), l’importanza del paziente per il benessere altrui (es. medico), l’età (ovvero chi può avere più anni di vita salvata), l’ordine di arrivo (first come o first served), la casualità (randomness). Criteri riflessivi di diversi modelli di etica.

4. Un’eco della c.d. “medicina delle catastrofi” (o della maxi-emergenza) si è avuta anche in Italia, all’esito della emanazione delle “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili” da parte della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva. Documento rispetto al quale il Centro Studi Livatino ha già espresso alcune riserve , che si appuntano sul carattere generico di raccomandazioni che prescindono dalla specificità del caso concreto, sulla necessità di evitare l’abbandono preventivo di alcuni pazienti in attesa di pazienti più meritevoli, sul rischio di favorire indirettamente una ulteriore riduzione in futuro delle risorse curative in favore della popolazione.

Lo «squilibrio tra necessità e risorse disponibili» (per usare l’espressione del SIAARTI), infatti, non pare la condizione dei sistemi sanitari esclusivamente nell’emergenza dettata dalla pandemia da Covid19, nel quale quello squilibrio si manifesta solo in tutta la sua abissale drammaticità, quanto piuttosto una condizione che potrebbe connotare stabilmente i sistemi sanitari anche fuori da contingenti situazioni di emergenza. Il tema, allora, non è la circoscritta ammissibilità etica della “medicina delle catastrofi” in occasioni – appunto – catastrofiche, straordinarie e non volute, ma il rischio implicito di scivolamento durevole dei sistemi sanitari da una prospettiva etica che pone al centro la persona a una prospettiva etica che privilegia l’utilità e che fa da sfondo a un pragmatismo affaristico con tendenze economico-eugenetiche. Rischio che si trasforma in certezza laddove scelte eticamente (oltre che clinicamente) laceranti non sono necessitate da un evento catastrofico non gestibile altrimenti, ma dalla precisa scelta di accettare, attraverso la discutibile e rischiosa scelta di una immunizzazione attraverso la malattia, centinaia di migliaia di morti. Una scelta che non potrebbe non assumere i caratteri di un darwinismo applicato alla società e alla specie, di una forma di determinismo biologico (resiste chi resiste) deprecabile in sé e in contrasto con la nostra tradizione di civiltà.

In questi giorni qualcuno ha opportunamente ricordato che la nostra cultura si radica remotamente nella pietas di Enea: senso del dovere ma anche sentimento, riconoscimento di un compito da adempiere in favore del prossimo e di Dio, cura delle radici e della tradizione nel cammino verso il futuro. Pietas che si rivela massimamente nell’immagine di Enea che fugge da Troia in mezzo alle fiamme con il vecchio padre Anchise, paralizzato nelle gambe e con la schiena ricurva, sulle spalle : «Su dunque, diletto padre, salimi sul collo; ti sosterrò con le spalle, e il peso non mi sarà grave; dovunque cadranno le sorti, uno e comune sarà il pericolo, una per ambedue la salvezza» . È un’immagine potente, dolente, commovente: davvero vogliamo e possiamo disfarcene per un’incerta “immunità di gregge”?

Avv. Francesco Cavallo
Dottore di ricerca di diritto costituzionale comparato nell’Università del Salento

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