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Prosegue il dibattito sulla riforma c.d. Bonafede-Cartabia con le riflessioni del presidente di sezione emerito della Cassazione Pietro Dubolino, rielaborate dall’Autore da due articoli a sua firma pubblicati sul quotidiano La Verità, del 13 e 14 agosto. Sono illustrate le ragioni per cui gli emendamenti dell’attuale Guardasigilli, approvati dalla Camera, sono peggiorativi rispetto alla pur criticabile riforma Buonafede, e mostrano evidenti profili di illegittimità costituzionale.

1.   Pezo el tacòn del buso. Questo detto popolare veneto,“peggio la toppa del buco”, sembra potersi perfettamente adattare alla riforma del processo penale delineata nel disegno di legge recentemente approvato dalla Camera, nella parte in cui prevede una nuova disciplina della prescrizione del reato, in sostituzione di quella, a suo tempo fortemente (e giustamente) criticata introdotta, per ostinata volontà soprattutto del Movimento 5 stelle, con la legge n. 3 del 2019. Con questa legge si era stabilito, nell’essenziale, che il corso della prescrizione, sempre decorrente dalla data in cui il reato era stato commesso, rimanesse sospeso a tempo indeterminato a far tempo dalla pronuncia della sentenza di primo grado fino al momento in cui il procedimento fosse stato definito con sentenza irrevocabile.

Ciò comportava, e ancora comporta  che, nel caso di impugnazione della sentenza di primo grado (anche da parte del pubblico ministero, ove essa sia stata di assoluzione)  l’imputato può rimanere nella posizione di eterno giudicabile, magari fino al termine della vita, in piena violazione, tra l’altro, della regola della c.d. “durata ragionevole del processo” prevista dall’art. 111 della Costituzione; violazione, quella anzidetta, dalla quale,  in base alla legge n.89/2001 (c.d. “legge Pinto”), può conseguire l’ onere, per lo Stato (e, quindi, per la collettività), di corrispondere allo stesso imputato che ne faccia richiesta  una “equa riparazione” economica, di importo spesso tutt’altro che indifferente.

2. Per rimediare, in parte, a tali inconvenienti erano già state proposte, dall’allora ministro della giustizia Bonafede,  nell’ambito del disegno di legge per una più ampia riforma del processo penale presentato il 13 marzo 2020, varie modifiche del testo normativo, la più importante delle quali prevedeva che la sospensione del termine di prescrizione non operasse quando la sentenza di primo grado fosse stata di assoluzione.

Questa strada è stata però abbandonata con la formulazione del maxi emendamento al suddetto disegno di legge, firmato da Marta Cartabia, nuova ministra della giustizia, approvato qualche settimana fa dalla Camera. Con esso, nell’essenziale, si stabilisce che, salvo il caso di delitti punibili con l’ergastolo, il corso della prescrizione non è più sospeso, ma cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado e si fissano dei termini entro i quali debbono essere definiti gli eventuali giudizi di impugnazione, in appello ed in cassazione, a pena di improcedibilità (cioè, in pratica, di estinzione del processo) in caso di loro mancata osservanza; termini, quelli anzidetti, che possono essere, in varia misura, prorogati dal giudice procedente “quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare”. 

3. È appunto questo il “tacòn” che rischia di essere peggiore del “buso” che, con esso, si vorrebbe riparare.

Il sistema introdotto con la legge n. 3/2019, infatti, pur con tutti i suoi difetti, aveva almeno il pregio della semplicità  e della coerenza rispetto all’obiettivo dichiarato, che era quello di impedire a qualsiasi costo che, una volta pronunciata la sentenza di primo grado, l’imputato potesse sperare, proponendo appello e poi ricorso per cassazione,  di conseguire l’impunità per effetto del sopraggiungere della prescrizione del reato prima che la condanna fosse divenuta irrevocabile.

Tanto la semplicità quanto la coerenza risultano invece del tutto assenti nel nuovo sistema che, con gli emendamenti Cartabia, dovrebbe subentrare al precedente, essendo esso caratterizzato, in particolare, da una duplicità di previsioni in evidente contraddizione logica l’una con l’altra. Infatti, da una parte, l’aver limitato l’efficacia della prescrizione alla pronuncia della sentenza di primo grado risponde al chiaro scopo di scoraggiare impugnazioni pretestuose e puramente dilatorie; dall’altra, l’aver previsto che, quando queste ultime vengano comunque proposte, la loro mancata definizione entro i termini stabiliti (ed eventualmente prorogati) produca l’estinzione del processo, da considerarsi, nella sostanza, un effetto del tutto assimilabile a quello della prescrizione, significa aver fatto rientrare dalla finestra, per giunta peggiorato,  ciò che si è inteso cacciare dalla porta.

4. Perché peggiorato? Perché i suddetti termini, pur tenendo conto di tutte le possibili proroghe, possono frequentemente risultare, di fatto, assai più ristretti di quelli della prescrizione, anche con riguardo a reati tutt’altro che trascurabili. Basti pensare, ad esempio, che  l’omicidio non aggravato, il cui termine prescrizionale ordinario è di anni 24 (corrispondente al massimo della pena prevista dalla legge), se giudicato in primo grado a distanza, mettiamo, di tre anni dal momento in cui è stato commesso (eventualità tutt’altro che improbabile), potrebbe diventare improcedibile, nella peggiore delle ipotesi (per l’imputato), allo scadere dei successivi sei anni, per un totale, quindi, di soli nove anni. E ciò supponendo che si sia ancora nel periodo transitorio, la cui durata è prevista fino al 31 dicembre 2024 e nel corso del quale il termine per la definizione del giudizio d’appello potrebbe essere prorogato fino ad un massimo di quattro anni e quello per la definizione del giudizio di cassazione fino ad un massimo di due anni.

Successivamente al 31 dicembre 2024 le prospettive, per l’imputato, sarebbero poi ancora migliori perché il termine per il giudizio d’appello sarebbe prorogabile fino ad un massimo di soli tre anni e quello per il giudizio di cassazione fino ad un massimo di soli un anno e mezzo, per un totale, quindi, di quattro anni e mezzo. Esempi del genere potrebbero farsene a decine, con riguardo anche a reati meno gravi dell’omicidio semplice, quali la rapina aggravata e l’estorsione aggravata, il cui termine prescrizionale ordinario è di anni venti, fino a giungere al furto in abitazione e al furto con strappo; reati, questi ultimi, il cui termine prescrizionale ordinario è di sette anni ma, essendo frequentemente giudicati in primo grado con il rito direttissimo, a seguito di arresto in flagranza, potrebbero facilmente diventare anch’essi improcedibili, in base alla nuova disciplina, in un tempo sensibilmente inferiore.

La progettata riforma, quindi, lungi dallo scoraggiare la proposizione di impugnazioni puramente dilatorie, avrebbe semmai l’effetto, in moltissimi casi, di incentivarle maggiormente, con ulteriore, deprecabile  aggravio degli uffici giudiziari. Con il che, però, un risultato positivo sarebbe comunque raggiunto, anche se un po’ diverso da quello dichiaratamente perseguito dai riformatori: il risultato, cioè, costituito da un prevedibile aumento del volume d’affari degli studi legali penalistici.

5.   Con il che non può tuttavia dirsi esaurito il “cahier de doleance”, dal momento che la progettata riforma sembra presentare anche notevoli criticità sotto il profilo della sua compatibilità con taluni principi costituzionali.

La prima di tali criticità è quella ravvisabile nella previsione che  i termini entro i quali, a pena di estinzione del processo, debbono essere definiti i giudizi di impugnazione possano essere prorogati, in varia misura, con ordinanza del giudice procedente “quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare”. Ora, la verifica di tali condizioni non può che essere frutto di valutazioni necessariamente caratterizzate da un ampio margine di discrezionalità; il che appare difficilmente compatibile con le esigenze di certezza e di uniformità di trattamento che, in una materia come quella in discorso, dovrebbero essere considerate ineludibili. Di qui la possibile violazione del principio di uguaglianza e del diritto di difesa, previsti, rispettivamente, dall’art. 3 e dall’art. 24 della Costituzione; violazione che non è invece prospettabile con riguardo alla causa estintiva del reato costituita dalla prescrizione, dal momento che i termini di quest’ultima sono stabiliti direttamente dalla legge in misura uguale per tutti coloro i quali  siano imputati degli stessi reati, per cui l’eventualità che essa operi per un imputato  piuttosto che per un altro non dipende mai direttamente dalla volontà del giudice ma soltanto dalla ineliminabile varietà delle vicende di ogni singolo processo.

6. Né potrebbe dirsi che l’uniformità di trattamento sarebbe comunque assicurata dalla possibilità, pure prevista nel progetto di riforma, del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti con i quali il giudice dell’impugnazione disponga la proroga del termine per la definizione del relativo giudizio. Trattandosi, infatti, di provvedimenti la cui adozione non è subordinata alla presenza di condizioni rigidamente e tassativamente stabilite, in via preventiva, dalla legge, la stessa corte di cassazione, quale giudice di mera legittimità, altro non potrebbe fare se non verificare che l’ordinanza di proroga non sia viziata a causa di “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità” della motivazione, senza poter in alcun modo sindacare il suo fondamento nel merito. E ciò senza considerare la singolarità (per non  dire altro) del fatto che, quando il procedimento penale fosse pendente davanti alla Corte di cassazione, è a quest’ultima che spetterebbe la competenza ad adottare l’eventuale provvedimento di proroga del termine stabilito per la sua definizione e a decidere, quindi, essa stessa, sul ricorso  che avverso quel provvedimento venisse proposto dall’imputato.

Ulteriore profilo di possibile incostituzionalità è poi quello nascente dal fatto che nel progetto di riforma è previsto che la proroga del termine di definizione dei giudizi di impugnazione, normalmente possibile per una sola volta, sia illimitatamente reiterabile  quando si procede per taluni reati nominativamente indicati. Ora, già il prevedere che, per tali reati, il giudice, sulla base di valutazioni che (come si è detto) non possono che essere largamente discrezionali, possa prorogare pressoché  all’infinito un termine posto a garanzia del diritto riconosciuto all’imputato di non rimanere sottoposto a giudizio per un tempo ritenuto dallo stesso legislatore come eccessivo non appare facilmente conciliabile con i già ricordati articoli 3 e 24 della Costituzione. E la difficoltà aumenta ove si consideri che la selezione dei reati per i quali non sono previsti limiti alla reiterabilità delle proroghe non appare fondata su alcun riconoscibile criterio logico. 

Nel relativo elenco, infatti, sono compresi, fra gli altri, reati in materia sessuale, indubbiamente gravi, ma ne rimangono esclusi, inspiegabilmente, altri puniti assai più gravemente quali, ad esempio,  l’omicidio semplice, la rapina aggravata e il sequestro di persona a scopo di estorsione, e suscettibili di produrre allarme sociale non certo inferiore a quello prodotto dai reati sessuali. Di qui la non remota possibilità che la scelta del legislatore, siccome priva di ragionevolezza, cada, alla prima occasione, sotto la mannaia della Corte costituzionale, avendo quest’ultima da gran tempo adottato una interpretazione dell’art. 3 della Costituzione secondo cui il principio di uguaglianza, affermato in detto articolo, può dirsi violato anche quando la norma ordinaria sia da ritenere, a giudizio della stessa Corte, viziata da irragionevolezza.

7. Esposta a grave rischio di incostituzionalità appare infine anche la norma con la quale è stato  previsto che la nuova disciplina sui termini stabiliti per la definizione dei giudizi di impugnazione e sulle conseguenze della loro inosservanza valga soltanto per i procedimenti aventi ad oggetto reati commessi successivamente al 1° gennaio 2020. Trattandosi, infatti, di norma che pur avendo carattere formalmente processuale, è dotata di effetti sicuramente sostanziali e spesso più vantaggiosi, per l’imputato (come si è visto nel precedente articolo) rispetto a quelli della vecchia disciplina in materia di prescrizione, essa dovrebbe poter trovare applicazione in tutti i procedimenti ancora pendenti, a prescindere dalla data di commissione dei reati cui essi si riferiscono.

Ciò  in applicazione della regola della c.d. “retroattività della norma più favorevole”, la quale, pur non essendo espressamente prevista dalla Costituzione ma soltanto dall’art. 2 del codice penale, deve tuttavia ritenersi, secondo quanto più volte affermato dalla Corte costituzionale (ved. ad es. le sentenze nn. 393/2006, 394/2006, 236/2011), “non priva di fondamento costituzionale”, essendo questo da individuarsi, ancora una volta,  nel “principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice”.

Ed a tale regola, sempre secondo la Corte costituzionale, può derogarsi soltanto in presenza di ragioni oggettivamente valide quali, in particolare, quelle dettate dalla necessità di salvaguardare interessi di rilievo costituzionale non inferiore a quello dell’uguaglianza, come specificato, in particolare, nella sentenza n. 393/2006, la quale aggiunge che, per non incorrere in un giudizio di incostituzionalità, non è sufficiente che la norma derogatoria “non sia manifestamente irragionevole”, ma occorre che essa sia tale da “superare un vaglio positivo di ragionevolezza”; condizione, quest’ultima, che, nel nostro caso, difficilmente potrebbe dirsi soddisfatta, non risultando in alcun modo né enunciate né comunque riconoscibili le ragioni della deroga e non vedendosi, d’altra parte, per quale motivo il regime transitorio che pure è stato previsto per i processi già pendenti in grado di appello o di cassazione non potrebbe estendersi anche a quelli aventi ad oggetto reati commessi prima del 1 gennaio 2020.

                                                                                             Pietro Dubolino

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