Per decenni, l’industria automobilistica è stata la colonna vertebrale del sistema manifatturiero europeo. Più di ogni altro settore, ha incarnato il concetto di “motore di sviluppo”: un catalizzatore di innovazione tecnologica, un creatore di posti di lavoro qualificati e un generatore di un enorme indotto che si estendeva dalla siderurgia alla chimica, dalla componentistica avanzata ai servizi. Oggi, questo gioiello della corona industriale europea sta vivendo la crisi più profonda della sua storia, che sembra avvicinarsi ad un punto di non ritorno.

Questa parabola la vediamo paradigmaticamente raffigurata nella storia dei gioielli industriali italo-torinesi giunti agli onori delle cronache nell’ultimo lustro per cessione a realtà estere, quasi sempre orientali: FCA la cui fusione con il gruppo PSA ha originato Stellantis a trazione francese, Magneti Marelli ceduta ai giapponesi di Calsonic Kansei Corporation, COMAU la cui maggioranza è stata ceduta alla società di private equity  OEP, IVECO di cui è in corso di perfezionamento l’acquisizione da parte dell’indiana TATA, Pininfarina entrata da tempo nell’orbita dell’indiana MAHINDRA, Italdesign forse in dirittura d’arrivo per l’acquisizione da parte del gruppo Indo-Americano UST. Ma l’elenco potrebbe continuare.

All’origine di questa ondata di cessioni e accorpamenti vi è certamente una crisi reale. Resta da interrogarsi sulle sue ragioni apparenti e profonde.

Molto è cominciato con il tuffo entusiasta degli anni ‘90 nel tino alcolico di una globalizzazione non gestita e tantomeno ragionata che ha posto sullo stesso piano sistemi produttivi antitetici che andavano da quelli basati sull’ipertrofia delle tutele e delle libertà occidentale ai sistemi semischiavistici dei paesi (allora) in via di sviluppo, avendo come unico scopo l’abbassamento dei costi per favorire i consumi (nella migliore delle ipotesi) o massimizzare i profitti.

La delocalizzazione, il just in time sono diventati i nuovi mantra dei guru del successo manageriale. In realtà ci siamo trovati con consumi crollati, logistica paralizzata ed indebitamenti devastanti: l’esatto contrario delle previsioni dei “visionari” del tempo, oggi tutti impegnati a sbolognare la patata bollente (con relativo fardello di lavoratori) a qualche gigante finanziario d’oltreoceano (Indiano).

L’emergenza della pandemia COVID 19, con la sua dimensione reale e con la sua sovrastruttura narrativa, ha fatto da pettine a cui sono arrivati tutti i nodi di questo modello. Il crollo istantaneo durante le sue fasi acute e l’euforia della ripartenza dopo la sua cessazione hanno messo in luce tutte le criticità.

La rapida e disomogenea ripartenza della domanda globale ha creato enormi colli di bottiglia. Ne è esempio preclaro la crisi dei semiconduttori: l’aumento esponenziale della domanda di elettronica di consumo durante i lockdown ha dirottato la produzione di microchip, componenti ormai essenziali in ogni settore, ma vitali per l’automotive. Ovviamente, chi ne deteneva il monopolio produttivo (Cina, Taiwan, Corea etc) ha privilegiato l’industria locale rispetto a quella europea.

Parallelamente, si è verificata una crisi della logistica. I porti congestionati, la carenza di container e di manodopera specializzata hanno portato a un’impennata dei costi di trasporto marittimo, tuttora l’unica modalità di trasporto idoneo ad alimentare le grandi supply chain.

Le aziende manifatturiere europee hanno subito ritardi significativi nelle consegne di componenti essenziali, rendendo impossibile la pianificazione della produzione e causando interruzioni nelle linee di montaggio. L’allungamento dei tempi di consegna è diventato una criticità costante. Basti vedere l’enorme allungamento dei tempi di riparazione di una vettura a seguito della mancanza di disponibilità dei pezzi di ricambio che tutti stiamo sperimentando.

Su questa situazione già oggettivamente critica si sono abbattute due grandinate che si erano caricate di energia negli anni precedenti che ora stanno scaricando tutto il loro impatto devastante.

Da un lato la crisi energetica generata sia dal conflitto Russo-Ucraino che dalla situazione oramai fuori controllo in tutto il Medio Oriente, con conseguente aumento dei costi e dispersione di energie nella competizione per le risorse.

Dall’altro la vittoria totale dell’ideologia ambientalista sul principio di realtà e la dittatura oramai completamente perfezionata del concetto disumanizzato di sostenibilità a discapito del ben più realistico principio di vivibilità che aveva il proprio baricentro nell’uomo come persona nella sua concretezza e non in una natura tanto eterea quanto divinizzata.

Vale la pena soffermarsi sulle responsabilità di questo ambientalismo irresponsabile che trova piena incarnazione nell’emoziocrazia ondivagante dell’Unione Europea.

L’automobile è diventata il simbolo e, per molti versi, il terreno di scontro principale della transizione ecologica. A livello normativo, l’auto è un bersaglio quasi perfetto: è un prodotto di massa, di uso quotidiano, con un impatto ambientale visibile e facilmente misurabile (le emissioni allo scarico). Regolamentare le auto è politicamente più semplice e mediaticamente più efficace che affrontare le complesse e diffuse emissioni dell’industria pesante, dell’agricoltura o del riscaldamento degli edifici.

Questo ha portato a un approccio quasi dogmatico, in cui l’auto elettrica a batteria (BEV) è stata identificata non come una delle soluzioni, ma come l’unica soluzione per la decarbonizzazione della mobilità privata. Questa focalizzazione esclusiva ha generato un colossale “effetto imbuto” industriale: ha ignorato il principio di neutralità tecnologica, decretando la fine di una tecnologia (il motore a combustione interna, o ICE) invece di fissare un obiettivo di riduzione delle emissioni e lasciare che fosse il mercato e l’innovazione a trovare le soluzioni migliori. L’auto è stata caricata di un peso simbolico sproporzionato, e le normative che ne sono derivate ne riflettono tutta la rigidità.

All’interno del pacchetto di riforme climatiche noto come “Fit for 55” (l’obiettivo di ridurre le emissioni nette di gas serra del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990), la misura più drastica e impattante per l’industria è senza dubbio quella che riguarda l’automobile: l’obbligo per i costruttori di raggiungere il 100% di riduzione delle emissioni di CO2 per auto e furgoni nuovi immatricolati a partire dal 2035.

La normativa europea, oltretutto, è focalizzata esclusivamente sulle emissioni allo scarico (“Tank-to-Wheel”). Un’auto elettrica, non avendo scarico, ha per definizione “zero emissioni”. Questo approccio è scientificamente parziale e industrialmente fuorviante. Ignora completamente le emissioni generate durante il ciclo di vita del veicolo (“Cradle-to-Grave” o Lifecycle Assessment): estrazione e trasporto di “terre rare”, la fabbricazione a grande consumo energetico delle batterie, il loro smaltimento, etc.

Questo, di fatto, è un divieto di vendita per qualsiasi veicolo con un motore a combustione interna, inclusi quelli ibridi (mild, full e plug-in). Non si tratta di una transizione, ma di una cesura netta. Vista con una lente industriale, e non puramente ambientale, questa decisione si rivela un acceleratore forzato con profonde implicazioni critiche.

L’industria automobilistica europea e italiana in particolare è cresciuta per un secolo perfezionando la tecnologia del motore a scoppio, attraverso continue innovazioni incrementali (iniezione diretta, turbo, sistemi di post-trattamento dei gas di scarico, etc.). Ogni standard (da Euro 1 a Euro 6) rappresentava una sfida evolutiva. Lo stop al 2035, invece, rappresenta una discontinuità radicale.

Non si chiede all’industria di migliorare ciò che sa fare, ma di abbandonare il proprio core business e il know-how accumulato in 100 anni per adottarne uno completamente nuovo (elettromeccanica, chimica delle batterie, software di gestione energetica). Questo azzera il vantaggio competitivo storico dell’industria europea e, in particolare, delle eccellenze italiane e tedesche nella meccanica di precisione, aprendo il campo a nuovi concorrenti.

Questa politica ha di fatto imposto all’industria europea di convergere esattamente sulla tecnologia dove la Cina aveva costruito, con 15 anni di pianificazione statale, un dominio quasi monopolistico.

Risultato: alto costo del prodotto, diminuzione del potere di acquisto dei lavoratori/consumatori, crollo delle vendite, insostenibilità degli investimenti, e quindi chiusure, vendite assorbimenti etc.

Questo ci permette di puntualizzare due problemi specifici del contesto italiano: la produttività e il nanismo industriale. Si tratta di inquadrarli nel contesto. E’ innegabile che il problema ci sia ma la narrazione, che si trasforma in quotidiana autoflagellazione, funge da alibi ad operazioni speculative in danno dell’interesse nazionale a cui sono dedite le aristocrazie industriali nostrane di seconda o terza generazione.

Ci è stato raccontato che essendo noi il paese delle eccellenze anche il nostro sistema produttivo automotive sarebbe vissuto costruendo Ferrari e Lamborghini o comunque auto di altissima fascia nella quale siamo in effetti bravissimi.

Si tratta però di piccole serie o dei numeri limitati che il segmento premium riesce ancora ricavarsi pur nella restrizione del mercato. Per decenni e non sempre in modo previdente il nostro sistema produttivo è stato costruito su grandi stabilimenti per la produzione di massa di vetture di fascia medio-bassa.

Se misuriamo la produttività di stabilimenti nati e cresciuti per costruire milioni di Uno, Punto, Panda etc. con le scale e le tecnologie richieste dai segmenti premium è chiaro che partiamo sconfitti in partenza, già rispetto all’Est europeo e al Nord Africa, non parliamo di India e Cina. Anche se resta innegabile che l’unica speranza che il sistema italiano ha di uscire dall’angolo è lavorare su questo punto. In questo saremmo perfino avvantaggiati sui competitor tedeschi che invece devono cambiare modello e non solo migliorare l’esistente già ad alti livelli di ottimizzazione.

Il deprecato nanismo industriale italiano si sostanzia, quando parliamo di automotive, nel famoso indotto, accusato di essere troppo frazionato per competere in innovazione con i grandi sistemi internazionali. E’ vero, e anche su questo punto si deve lavorare per “mettere a sistema”, come dicono quelli bravi, la piccola e media industria del settore.

Ma anche qui c’è un cavillo: l’indotto non è destinato come target principale a fare innovazione. E’ chiaro che quella discende dalla grande industria e dalla sua capacità di ricerca e sviluppo che in Italia esiste e funziona (vedi i casi virtuosi di Leonardo ed ENI) o esisteva (vedi iniezione diretta e Common Rail). L’indotto innerva il territorio e quindi la società con sistemi produttivi diffusi a supporto della grande industria, tendenzialmente efficienti, e, soprattutto, genera lavoro e ricchezza magari non faraonici ma diffusi e reali.

L’indotto rischia di essere la vera vittima di quel processo di dismissione verso oriente che caratterizza i grandi marchi, perché se gli enti centrali di queste realtà sopravviveranno per ragioni di innovazione o per essere semplici teste di ponte ad aggiramento di un paventato e mai realizzato protezionismo europeo, i costruttori di componenti a maggiore intensità di lavoro umano sono destinati ad essere surclassati dal mercato del lavoro dei paesi “in via di sviluppo”.

Anziché essere tutelato come un patrimonio, l’indotto automotive italiano riceve dai propri stessi committenti industriali quotidiani consigli a trasferirsi esso stesso in quei paesi che prima venivano crassamente definiti dall’acronimo LCC (Low Cost Country) oggi sostituito dal più elegante BCC (Best Cost Country).

In conclusione solo qualche riflessione sulla crisi come processo che riguarda l’Italia e l’Europa ma anche l’Occidente nella sua accezione più ampia.

Non trovo azzardato, sul piano delle riflessioni, vedere in profondità sotto l’epifenomeno della crisi industriale una importante vena di crisi identitaria che coinvolge lo stesso concetto di Occidente, sottoposto a ripetuti cicli di eterogenesi dei fini, almeno dal secondo dopoguerra.

Con un trasbordo ideologico altamente inavvertito siamo passati dall’Occidente come modello di civiltà con il suo sistema di equilibri e valori magistralmente descritto da Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona ad una identificazione dell’occidente come modello economico basato sul suo sviluppo industriale. Il boom economico degli anni ’60 ha identificato la nostra libertà con quella di produrre, consumare e legittimamente arricchirsi.

E questo, sia chiaro, ha avuto importanti ricadute positive. L’errore è stato trasformare questi che erano effetti positivi in cause fondative di questa libertà. Le conseguenze di questa sostituzione hanno cominciato appalesarsi quando questo modello è entrato in crisi di crescita ed è sfociato nella sovraproduzione. Quella che era la libertà di produrre e consumare si è trasformata, negli anni ’70 e ’80, in consumismo, cioè in obbligo di consumare spacciato non come esercizio di libertà ma come dovere civico per la sopravvivenza del “nostro stile di vita”.

Quando neppure questo è stato più sufficiente alcuni architetti di ingegneria sociale a livello globale, con presenze significative anche nel capitalismo famigliare italico, hanno intravisto la possibilità di trasformare tutto questo in asset finanziari, più facili da manipolare, da cedere, da monetizzare e, soprattutto più lontani e distaccati da quelle fastidiose complicazioni del reale sociale. Non si è trattato di complotto, o almeno non nel suo insieme, ma di evoluzione naturale del gene predatorio dei professionisti della speculazione.

Oggi che i nodi che abbiamo descritto stanno venendo al pettine risulta così molto più agevole smontare e rimontare intere società come pezzi di un Lego o di un Domino, utilizzando una narrazione ampiamente fantastica del progresso, pseudo spirito santo della post modernità che, come tutti i surrogati del vero, soffia dove gli conviene.

Valter Maccantelli

Share