L’obiezione di coscienza come diritto fondamentale: l’analisi della sentenza 467/1991, il primato della coscienza individuale e gli obblighi del legislatore.
- Linee generali
La locuzione “obiezione di coscienza” sta indicare, come noto, l’esercizio di una facoltà giuridica soggettiva attiva avente ad oggetto il rifiuto di adempiere ai contenuti prescrittivi di una norma, allorché ciò venga a sostanziare una violazione dei convincimenti intimi, di tenore etico/morale e/o religioso, di una persona. Si tratta dunque di un diritto che attua il principio fondamentale della libertà di coscienza e sancisce altresì il primato della coscienza individuale sulla legge, alla luce però di una previa disposizione normativa che espressamente l’abbia previsto. Dunque in una prospettiva strettamente giuridica, perché si possa parlare di un diritto all’obiezione di coscienza occorrono 3 elementi: 1) che la legge prescriva una condotta come obbligatoria; 2) che l’adempimento della stessa possa verosimilmente sostanziare un conflitto con valori morali e/o religiosi considerati degni tutela nella prospettiva della libertà di pensiero/coscienza del singolo (causalità); 3) che la legge preveda, a certe condizioni, il non adempimento incolpevole degli obblighi di legge.
In Italia, come noto, la legge 772/1972 (di cui ci occupiamo per mera completezza espositiva, non essendo più vigente, a seguito della cancellazione della leva obbligatoria) consentiva agli obbligati alla leva che dichiaravano di “essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza“, di soddisfare l’obbligo del servizio militare con due diverse modalità: il servizio militare non armato e il servizio sostitutivo civile. La legge precisava che “i motivi di coscienza addotti devono essere attinenti ad una concezione generale basata su profondi convincimenti religiosi, o filosofici o morali professati dal soggetto“. I giovani dovevano presentare una “dichiarazione/domanda”, nella quale, appunto, manifestavano la propria contrarietà all’uso delle armi e su di essa il Ministero della Difesa doveva decidere, “sentito il parere di una terza commissione circa la fondatezza e la sincerità dei motivi addotti dal richiedente“.
Sei anni dopo, arriva la legge 194/78, regolante l’interruzione volontaria di gravidanza, il cui art. 9 comma 3°, prevede l’esonero per gli obiettori, personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie, «dal compimento di procedure e attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza e non dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento»; inoltre, per il comma 5°, «l’obiezione di coscienza non può essere invocata quando, data la particolarità delle circostanze, il personale intervento del sanitario obiettore sia indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo».
Nel 1993, poi, è la volta della legge 413, contenente “Norme sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale”. L’articolo 1 enuncia solennemente il diritto all’obiezione di coscienza, con una formulazione paradigmatica: “I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi, possono dichiarare la propria obiezione di coscienza ad ogni atto connesso con la sperimentazione animale“. Il diritto si esercita con una semplice dichiarazione che può essere effettuata da “medici, ricercatori e personale sanitario, […] studenti universitari interessati“; in forza della stessa, tali soggetti “non sono tenuti a prendere parte direttamente ad attività e interventi specificamente diretti alla sperimentazione animale“.
Infine, concludiamo con la legge 40 del 2004 contenente “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita” che prevede, all’art. 16, il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie, da esercitare con preventiva dichiarazione. Anche in questo caso, in conseguenza della dichiarazione, tale personale obiettore “non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’applicazione delle tecniche di fecondazione artificiale“, con la specificazione, del tutto analoga a quella prevista dalla legge 194, che “l’obiezione di coscienza esonera dal compimento delle procedure e delle attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’intervento di procreazione medicalmente assistita e non dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento“.
2. Caratteristiche comuni della normativa.
I presupposti di esercizio di tale facoltà, comuni alle ipotesi normative appena enumerate, sono: 1) che l’obiezione di coscienza, come è evidente, venga riconosciuta a fronte di un obbligo giuridico, di natura pubblica o privata: di prestare il servizio militare, di partecipare alle procedure abortive, di effettuare sperimentazione animale e così via. La dichiarazione di obiezione di coscienza solleva l’interessato dal rispetto dell’obbligo; 2) che ciò avvenga in maniera incondizionata: l’obiettore di coscienza non è in alcun modo gravato dai problemi organizzativi che possono sorgere dall’esercizio del diritto da parte sua e di altri soggetti (ad esempio, la legge 194 del 1978 sull’interruzione di gravidanza prevede che debbano essere le A.S.L., le Case di cure autorizzate e le Regioni ad assicurare l’espletamento delle procedure abortive autorizzate, senza condizionare in alcun modo il diritto del singolo sanitario alla risoluzione delle problematiche organizzative: cfr. sul punto Cass. n. 14979 del 2 aprile 2013); 3) che l’obiettore sia semplicemente tenuto a svolgere attività di carattere diverso, in sostituzione di quella rispetto alla quale ha sollevato la dichiarazione; 4) che il riconoscimento del diritto consegua direttamente alla dichiarazione, senza che qualche ente o soggetto possa valutarla e decidere di non ammettere il dichiarante al regime conseguente; 5) che la dichiarazione di obiezione di coscienza sia scritta. Essa sarà altresì unilaterale, recettizia e non richiederà di essere espressamente motivata.; 6) che l’esenzione dalle attività per le quali è stata presentata la dichiarazione di obiezione di coscienza sia assoluta, ovvero, l’obiettore è esentato dall’intera attività e le deroghe sono previste in casi decisamente eccezionali[1]; 7) che l’esercizio dell’obiezione di coscienza non possa determinare nessuna conseguenza negativa/sanzionatoria per l’obiettore: si tratta di una previsione che, sebbene ovvia, tenuto conto che l’obiettore esercita un diritto, è nondimeno menzionata in alcune norme.
3. Le norme sull’obiezione di coscienza come obbligatorie per il legislatore
Da quanto detto, dovrebbe esser chiaro che l’obiezione di coscienza non ha niente a che vedere con le idee e le opinioni/convinzioni del singolo, tanto meno con quelle politiche, nel senso che esercitare o sostenere l’obiezione di coscienza non equivale affatto ad intraprendere o proseguire una battaglia politica (principio di rilevanza). La coscienza, insieme alla ragione, è ciò che distingue gli esseri umani, come recita il preambolo alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza“).
La coscienza morale, in particolare, identifica un giudizio della ragione pratica mediante il quale la persona riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre in essere o che ha compiuto. La coscienza richiama ad una legge non scritta dalla persona, ma “iscritta nel suo cuore” che è vincolante. Comprendiamo, allora, come l’uomo che ascolta la sua coscienza percepisce il dovere di astenersi da determinate azioni, dovere che gli proviene da una legge che egli, con l’uso della ragione, riconosce esistente; quando una legge dello Stato lo obbliga a compiere quella azione, egli si trova di fronte a due leggi che contengono due imperativi contrapposti.
Ma, di fronte all’obiezione di coscienza si pone un’alternativa anche per lo Stato: permetterla, se del caso regolandola, oppure non riconoscerla, considerando una violazione della norma il rifiuto opposto dall’obiettore di eseguire l’azione prevista come obbligatoria dalla legge e, quindi, sanzionarlo. Anche per il singolo, di fronte ad uno Stato che non riconosca la sua obiezione di coscienza, esiste un’alternativa: cedere e porre in essere la condotta obbligatoria per legge, non ottemperando al divieto della sua coscienza, ovvero confermare il suo rifiuto, affrontando le sanzioni che lo Stato gli irroga (cd. Dilemma di Antigone).
La sentenza della Corte Costituzionale n. 467 del 1991 – pronunciata con riferimento alla legge 772/1972, ma avente esplicitamente una portata generale – chiarì ampiamente questi principi. In primo luogo, la Corte inquadrò la tutela della coscienza individuale all’interno di quella dei diritti fondamentali dell’uomo, fornendo una bella definizione della coscienza: “A livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico. In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo […], essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o impedimenti posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima”.
Nel passaggio successivo, poi, la Corte enunciò l’obbligo per il legislatore di riconoscere l’obiezione di coscienza con l’utilizzo di una forma verbale – “esige” – che non permette equivoci: “Quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione) – la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale”, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire “una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana”. La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di professare la propria fede religiosa, garantite dagli artt. 21 e 19 della Costituzione, non sopportano limitazioni; allo stesso modo la tutela della coscienza individuale deve essere disegnata con priorità assoluta e tenendo conto del carattere fondante di quei diritti, perché negare la libertà di coscienza significa comprimere quei diritti fondamentali. Nel passaggio finale, la Corte precisava anche il ruolo del legislatore: “Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale, la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta […] un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)“.
L’opera del legislatore, quindi, deve essere diretta in primo luogo ad evitare disfunzioni di carattere organizzativo derivanti dall’esercizio dell’obiezione di coscienza; non è escluso che il diritto dell’obiettore possa essere bilanciato con doveri di carattere costituzionale, ma ricordando che la tutela della coscienza individuale giustifica, per la sua elevatezza, l’esenzione dall’assolvimento di doveri pubblici inderogabili.
Il primato della coscienza individuale non venne smentito nemmeno quando la stessa Corte, con le sentenza n. 196/1987, respinse la questione di legittimità costituzionale della legge 194 del 1978 nella parte in cui non permette ai giudici tutelari, chiamati ad autorizzare le minorenni a procedere all’interruzione di gravidanza senza il consenso dei genitori, di sollevare obiezione di coscienza non per l’inesistenza di un diritto a far valere le proprie convinzioni, quanto per la mancanza di un collegamento causale tra l’autorizzazione all’aborto della minore e l’aborto stesso: l’intervento del menzionato Giudice tutelare, infatti, non è decisorio, “bensì meramente attributivo di una facoltà di decidere”,ed è da inquadrarsi in funzione di “integrazione cioè della volontà della minorenne per i vincoli gravanti sulla sua capacità di agire. Esso dunque rimane estraneo alla procedura di riscontro […] per potersi procedere alla interruzione gravidica, […] intervenendo egli […] nella sola fase generica della capacità (incapacità) del soggetto”. La Corte, peraltro, in quella occasione, ribadì che si tratta “di comporre un potenziale conflitto tra beni parimenti protetti in assoluto: quelli presenti alla realtà interna dell’individuo, chiamato poi, per avventura, a giudicare, e quelli relativi alle esigenze essenziali dello jurisdicere (ancorché intra volentes)“, confermando, da un alto, la protezione assoluta della coscienza individuale e respingendo, dall’altro, la questione di legittimità in ragione della differente posizione dei magistrati rispetto agli altri dipendenti pubblici (richiamando le norme sul divieto di iscriversi ai partiti politici e sull’inamovibilità), e ciò sulla base della constatazione per cui la professione di magistrato garantisce appieno la piena tutela della coscienza di chi la esercita. Tuttavia – per segnalare la necessità di una tutela piena della coscienza dei magistrati e l’equilibrio nell’esercizio della giurisdizione – la Corte aggiungeva un accenno alla possibilità di adottare “adeguate misure organizzative nei casi di particolare difficoltà“, così da non destinare i magistrati la cui coscienza si oppone alle procedure abortive al ruolo di Giudice tutelare.
4. Le conseguenze dell’obbligo per il legislatore di riconoscere l’obiezione di coscienza.
Non è, quindi, impossibile ed appare anzi perfettamente coerente con la natura di diritto fondamentale dell’uomo riconoscere come esistente il diritto all’obiezione di coscienza pur nell’ipotetica assenza di una generale legge regolatrice. Il diritto, nel nostro ordinamento, discende infatti direttamente dall’art. 2 della Costituzione e dalle norme da esso richiamate[2]. La Costituzione già “riconosce e garantisce” questo diritto e pretende una tutela assoluta e prioritaria ad esso; si deve quindi affermare che, benché sommamente opportuna, una legge che regolamenti l’obiezione di coscienza non è necessaria per rendere effettivo l’esercizio del relativo diritto. Il diritto a non cooperare all’uccisione di esseri umani, per esempio, non è affatto condizionato dal testo della legge (se non, nel caso già visto, dal pericolo per la vita della madre). L’imperativo morale “non uccidere” non ammette condizioni e risuona con la medesima forza non solo per medici e sanitari, ma anche nei farmacisti chiamati a collaborare a pratiche abortive.
Il medico, in particolare, è colui che meglio di ogni altro conosce i processi della vita, perciò la sua obiezione è un autorevole testimonianza a favore della vita umana. La sua obiezione non è mai assimilabile ad uno mero scrupolo religioso, ma al faro che mantiene accesa nella coscienza sociale la consapevolezza che il valore in gioco è quello della la vita umana. Così, si può affermare conclusivamente che alla radice delle tendenze odierne al misconoscimento o alla restrizione del diritto di sollevare obiezione di coscienza – in specie negli ambiti che attengono alla difesa della vita umana, dal concepimento al suo naturale compiersi – si trova la negazione della dignità personale dell’essere umano, oltre che dei collegati valori di libertà, uguaglianza, solidarietà.
Antonio Casciano
[1] L’articolo 9 della legge 194, in particolare, non smentisce questa impostazione: non solo quando impedisce di invocare l’obiezione di coscienza in caso di intervento indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo, trattandosi di obbligo di intervenire coerente con i motivi per cui l’obiezione di coscienza è sollevata (non collaborare alla soppressione di una vita umana), ma anche quando, nel selezionare le attività da cui l’obiettore è sollevato, si riferisce alle “procedure di cui agli artt. 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza“, precisando che si tratta di procedure ed attività “specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza”.
[2] Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), a proposito, in particolare, della c.d. “contraccezione d’emergenza” ha ritenuto comunque che l’esercizio della libertà di coscienza del medico sia fondato sul codice deontologico. “Il riferimento alla “clausola di coscienza” – si legge nella nota del 28 maggio 2004 – riflette, d’altra parte, quanto già previsto dal Codice Deontologico della FNOMCEO del 1998, che all’articolo 19 recita “Il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona assistita”: norma la quale ribadisce, per la coscienza, uno spazio di espressione maggiore di quello che le risulti esplicitamente attribuito da singole disposizioni di legge”. Non vi è motivo di ritenere superato questo pensiero, poiché l’art. 22 del Codice deontologico del 16 dicembre 2006 ricalca sostanzialmente il precedente art. 19 del Codice del 1998.