Luci e ombre di una sentenza europea
La Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, con una sentenza depositata il 27 agosto scorso nel caso Parrillo contro Italia, ha respinto il ricorso di una cittadina italiana che si era vista rigettare, dai giudici italiani, sulla base della l. 40/2004, la propria richiesta di donazione per fini di ricerca scientifica degli embrioni crioconservati e si era, quindi, rivolta alla giustizia europea.
Pubblichiamo un commento alla sentenza dell’Avv. Vicenzina Maio.
La qualificazione del “concepito” come “soggetto” titolare di diritti è un dato normativo fondamentale e decisivo per comprendere la l. 40/2004, che non può essere né ignorato né trascurato.
La ragionevolezza di tutta la successiva disciplina legislativa si fonda su di esso.
È questo il motivo per cui gli artt. 13 e 14 vietano la distruzione di embrioni e quindi anche la produzione soprannumeraria, la sperimentazione distruttiva, la selezione, il congelamento embrionale.
Proprio l’art. 13 della legge (che al co. 1 vieta “qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano”) è al centro della sentenza della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’Uomo depositata il 27 agosto scorso nel caso Parrillo contro Italia.
Il caso riguarda una coppia che nel 2002, attraverso la tecnica della fecondazione in vitro, otteneva 5 embrioni crioconservati presso una clinica privata di Roma. A seguito della morte del compagno, la donna chiedeva di poter donare gli embrioni per fini di ricerca scientifica, in particolare per contribuire a scoprire nuovi trattamenti per malattie di difficile cura. La richiesta veniva respinta dai giudici italiani in virtù, appunto, del divieto posto dall’articolo 13 della legge 40/2004. La donna decideva, allora, di ricorrere alla CEDU investendola di una pronuncia in merito al suddetto divieto.
La Corte si è trovata ad affrontare un duplice quesito: è possibile salvaguardare il diritto al rispetto della vita privata e familiare, cristallizzato nell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, impedendo ad una donna di donare gli embrioni ottenuti tramite fecondazione in vitro per fini di ricerca scientifica? Il divieto contenuto nell’art. 13 della l. 40/2004 vìola il diritto di proprietà contenuto nel Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione?
La sentenza ha dichiarato (con 16 voti a 1) che nella vicenda in esame non c’è stata alcuna violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, né dell’art. 1 del Protocollo addizionale relativo al diritto di proprietà.
La pronuncia presenta due aspetti di particolare rilievo .
Il primo, più immediato, è quello relativo al riconoscimento dell’ampio margine di apprezzamento concesso agli Stati ai quali è attribuita la possibilità di scegliere, come ha fatto l’Italia, di vietare la ricerca scientifica sugli embrioni .
Il secondo, altrettanto interessante, riguarda la possibilità, per gli individui, di ricorrere alla Corte europea senza dover attivare e attendere un’eventuale pronuncia della Corte costituzionale.
Ma andiamo con ordine.
Per la Grande Camera, il divieto di donazione di embrioni per la ricerca scientifica, fissato dall’articolo 13 della legge n. 40, non è contrario all’articolo 8. La Corte ha chiarito che gli embrioni contengono materiale genetico della ricorrente e, quindi, sono una parte costitutiva della sua identità. Questo vuol dire che l’articolo 8, nella parte in cui tutela la vita privata, è applicabile e include il diritto di decidere degli embrioni frutto della fecondazione assistita. Gli embrioni, quindi, sono parte dell’identità personale e del diritto di autodeterminarsi. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che la legge che vieta la donazione degli embrioni sia un’ingerenza nell’articolo 8 CEDU.
Detto questo, però, la Grande Camera ha stabilito che detta ingerenza, alla luce delle eccezioni previste dall’articolo 8, si può considerare “necessaria in una società democratica” anche perché raggiunge un giusto bilanciamento tra interessi dello Stato e diritti individuali. Inoltre, – ed è un aspetto che la Grande Camera considera centrale – sulle questioni sensibili dal punto di vista etico e morale e su aspetti sui quali manca ancora un’uniformità di orientamento degli Stati, i Paesi aderenti alla Convenzione godono di un ampio margine di apprezzamento. Se alcuni ammettono la ricerca sugli embrioni, altri la vietano espressamente o la consentono solo per la protezione della salute dell’embrione.
Le conclusioni cui giunge la Corte sono senz’altro da salutare con favore quanto al risultato finale di escludere la possibilità di “donazione di embrioni a scopo di sperimentazione”.
Non altrettanto soddisfacente, però, è la strada giuridico argomentativa utilizzata. La Corte, infatti, pur avendo respinto il ricorso, ha tuttavia accettato per la prima volta il principio che la decisione sulla sorte di un embrione riguarda la vita privata di una persona, aprendo di fatto nuove possibilità di ricorsi nel futuro, laddove, senza grandi sforzi ermeneutici, avrebbe potuto semplicemente (e conformemente alla ratio legis italiana) riconoscere e ribadire la libertà di uno Stato di considerare che ontologicamente l’embrione è un soggetto di diritto.
Peraltro, nel caso dell’Italia, occorre anche rammentare l’adesione alla Convenzione di Oviedo del 1997, recepita con legge n. 145/2001, che contiene principi non passibili di restrizioni tra cui il divieto di uso di embrioni umani per la ricerca.
Certo, va considerato a favore della Corte che le argomentazioni giuridiche erano, in qualche modo, delimitate dai motivi di ricorso, sicché la sentenza rappresenta comunque un punto di approdo non scontato che traccia una strada, meno lineare ma comunque percorribile, volta alla tutela dell’embrione seppure in bilanciamento con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e con il diritto di proprietà.
Proprio in merito a quest’ultimo aspetto, la Grande Camera ha escluso la possibilità di invocare l’articolo 1 del Protocollo n. 1.
Chiarito che non è necessario esaminare la controversa questione relativa al momento in cui inizia la vita umana ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione, che assicura il diritto alla vita, la Corte europea ha escluso la violazione del diritto di proprietà perché gli embrioni non possono essere considerati dei beni nel senso stabilito dalla norma convenzionale che ha un’evidente connotazione patrimoniale.
E l’approdo non può che essere condiviso perché l’embrione, quale persona non ancora nata, in nessun caso può essere considerato un mero oggetto di diritto.
Giova ricordare infatti che l’istituto della donazione, invocato nel ricorso, è stato pensato dal legislatore come mezzo contrattuale con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto. Applicare questa fattispecie all’embrione significherebbe considerare la vita di un essere umano, l’embrione appunto, alla stregua di un diritto patrimoniale del quale i genitori possono liberamente disporre. Una deriva pericolosa che la sentenza della Corte di Strasburgo contribuisce significativamente ad arginare.
A completare l’apparato motivazionale della sentenza interviene la considerazione sulla assenza di consenso informato da parte del partner deceduto. Precisa, infatti, la Corte che il compagno della ricorrente non aveva espresso la propria volontà sugli embrioni prima della morte, tanto più che ciò non era possibile in base alla legislazione italiana.
Il secondo aspetto rilevante della sentenza, destinato ad influenzare pesantemente il futuro delle istanze giurisdizionali nelle delicate vicende bioetiche, riguarda la possibilità di ricorso diretto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Invero il Governo italiano aveva formulato eccezione preliminare di irricevibilità del ricorso Parrillo in quanto la ricorrente aveva violato l’obbligo del previo esaurimento dei ricorsi interni (non avendo promosso un ricorso alla Corte costituzionale).
La posizione è stata, però, respinta da Strasburgo che, per la prima volta, si è occupata del rapporto tra previo esaurimento dei ricorsi interni, condizione di ricevibilità dell’azione a Strasburgo a patto che essi siano effettivi sotto il profilo pratico e non solo teorico, e ricorso dinanzi alla Corte costituzionale. Ed invero, per la Corte europea, il ricorso alla Consulta non può essere considerato effettivo perché, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti, non si tratta di un ricorso diretto poiché è il giudice di merito a dover sollevare la questione di costituzionalità. La Corte ha anche considerato che l’Italia non ha fornito alcun esempio di pronunce interne sulla donazione degli embrioni e che non si può contestare alla ricorrente di non aver presentato un ricorso per misure proibite dalla legge, dimodoché ha ribadito il diverso ruolo delle due Corti: Strasburgo interpreta e accerta le violazioni della Convenzione, mentre la Consulta verifica la conformità del diritto interno alle norme convenzionali, come interpretate dai giudici di Strasburgo.
Sembra di assoluta evidenza che siffatta posizione agevolerà la proposizione di futuri ricorsi che potranno essere presentati anche contemporaneamente rispetto alle corti giudiziarie nazionali. Con risultati che, verosimilmente, potranno aumentare il rischio di confusione interpretativa.
Vincenzina Maio