fbpx

Con la sentenza n. 161, depositata il 24 luglio 2023, la Corte Costituzionale ha confermato la legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo capoverso della legge n. 40/2004, nella parte in cui non prevede un termine per la revoca del consenso prestato da uno degli aspiranti genitori, in particolare dal padre, all’utilizzo di tecniche di procreazione medicalmente assistita, dopo che l’ovulo è stato fecondato e l’embrione formato.

Nel caso sottoposto all’esame della Corte, l’aspirante madre aveva chiesto di impiantare nel proprio utero l’embrione crioconservato ottenuto alcuni anni prima, mediante tecniche di fecondazione artificiale, utilizzando il proprio ovulo e il gamete maschile del marito. Nel frattempo, tuttavia, la coppia aveva divorziato e l’ex marito si opponeva all’impianto dell’embrione, sostenendo di voler revocare il consenso originariamente prestato alla PMA, poiché a causa del tempo trascorso non era più interessato al “progetto di genitorialità” (par. 11.1.) che da quella fecondazione doveva scaturire e che si legava a una famiglia che aveva dissolto. A fronte della titubanza della struttura sanitaria a eseguire l’impianto, stante il dissenso dell’ex marito, l’aspirante madre si è rivolta a un giudice e questi, constatata la volontà dell’ex marito di voler revocare il proprio consenso alla fecondazione, e vista la preclusione legislativa alla revoca del consenso dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo, ha sollevato questione di legittimità dell’art 6 stesso nella parte in cui non prevedeva la possibilità di ripensamento all’impianto dopo la formazione dell’embrione stesso.

Confermando la bontà della scelta legislativa di non consentire un ripensamento dopo la formazione dell’embrione, la Corte è giunta a una decisione giusta, in un campo che essa stessa riconosce essere particolarmente complesso perché attinente a un corpus normativo – quello della procreazione medicalmente assistita – complesso di per sé e ulteriormente complicato da precedenti interventi della Corte Costituzionale, che avevano snaturato l’originario assetto delineato dal legislatore.

La sentenza deve essere salutata con favore per il risultato cui giunge, per l’equilibrio con cui ha affrontato una tematica che essa stessa definisce “tragica” (par. 9.2.) e per alcuni insegnamenti che da essa si desumono.

Un primo insegnamento ha carattere sostanziale. La sentenza afferma, con chiarezza, l’autonoma “dignità dell’embrione”, cui dedica l’intero par. 12.2. Si tratta di un’affermazione di grande importanza, ribadita dalla presente decisione con anche maggior forza rispetto ai precedenti in cui la Corte già l’aveva utilizzata (Corte Cost., n. 229/2015, par. 3; Corte Cost., n. 84/2016). Meritevole di particolare apprezzamento è anche il passaggio (par. 12.3), in cui si evidenzia che, a fronte di un istituto che “mira a favorire la vita”, “la compressione della libertà di autodeterminazione” risulta “non irragionevole”: val quanto dire che, a fronte di beni giuridici supremi come la vita, anche la libertà di “scelta” e il diritto all’“autodeterminazione” incontrano un limite intrinseco.

Un secondo insegnamento ha carattere istituzionale. L’autentico ginepraio in cui la Corte si è trovata per decidere il caso concreto è dipeso, non già da sciatteria legislativa, bensì dal cortocircuito sistematico creato dal combinarsi da una serie di precedenti pronunce della Corte stessa (segnatamente, la n. 151/2009, che ha consentito la posticipazione dell’impianto dell’embrione, e quindi la sua crioconservazione, nonché la n. 96/2015, che ha consentito l’accesso alla PMA anche a coppie fertili ma portatrici di malattie genetiche gravi, con conseguente possibilità di selezionare gli embrioni recanti la medesima malattia). L’intervento del giudice delle leggi deve guardare con equilibrio alla discrezionalità del legislatore, anche quando si tratta di pretesi “nuovi diritti”, poiché l’intervento giurisprudenziale ha per sua natura carattere casistico e singolare e non si presta a quella visione ampia degli effetti della norma che soltanto l’intervento normativo generale e astratto può ambire ad assumere. Negli anni passati la Corte ha talora ecceduto nel sindacare le scelte o le non scelte (ubi lex noluit tacuit) del legislatore in materie eticamente sensibili.

Un terzo insegnamento ha carattere prospettico. Sebbene con specifico riferimento alla PMA, la sentenza delinea con parole nitide e a tratti accorate il valore umano che comporta, per una donna, e solo per una donna, portare avanti una gravidanza: “corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo processo, che culmina nella concreta speranza di generare un figlio” (par. 12.1.).  In questo modo, la sentenza spiega in modo mirabile perché l’ordinamento non possa veicolare ideologie che mirano a negare la radice sostanziale della differenza tra i sessi maschile e femminile e perché, in queste materie collegate alla sfera sessuale e riproduttiva, l’applicazione del principio di uguaglianza non solo può, ma deve tener conto di tali differenze: la donna “è coinvolta in via immediata con il proprio corpo, in forma incommensurabilmente più rilevante rispetto a quanto accade per l’uomo”. Inoltre, i passaggi della sentenza in cui si evidenzia il coinvolgimento fisico ed emotivo della donna, nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita danno corpo in modo magistrale all’affermazione, consolidata nella giurisprudenza (Corte Cost., n. 79/2022; Corte Cost., n. 33/2021; Corte Cost., n. 272/2017), secondo cui la surrogazione di maternità “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”.

Non può mancare, infine, una notazione antropologica. La sentenza dà conto che, nel settembre 2017, il marito della donna aveva acconsentito alla crioconservazione dell’embrione, poiché sua moglie, che evidentemente aveva seri problemi di fertilità, doveva sottoporsi – dopo  “cicli di stimolazione ovarica” e “prelievo dell’ovocita, … trattamento sanitario particolarmente invasivo, tanto da essere normalmente praticato in anestesia generale” – a ulteriore “apposita terapia farmacologica, a ulteriori analisi e al cosiddetto «scratch endometriale», ovvero alla «terapia della preparazione a graffio»”. Dopo tre mesi (“gennaio 2018”) l’uomo “si era allontanato dalla residenza familiare”, così che la coppia si separava nel 2019. Nel 2020 la donna chiedeva di procedere all’impianto e allora l’uomo “dopo avere domandato la dichiarazione giudiziale della cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva formalmente revocato il consenso all’applicazione delle tecniche di PMA”. Il mondo del diritto non potrà mai conoscere il cuore delle persone coinvolte, ma il presupposto trascritto dall’odierna sentenza lascia nero su bianco uno spaccato desolante e avvilente della crisi della figura maschile e della figura paterna, di cui oggi spesso si parla: una moglie che d’accordo col marito si sacrifica per sottoporsi a interventi invasivi sul proprio corpo per coronare una vocazione a rendere fecondo il rapporto coniugale (non è questa la sede per valutare se più o meno legittimamente sul piano bioetico) e un marito che subito dopo l’abbandona, cercando ogni via per sottrarsi alla propria responsabilità. La Corte, con un notevole sforzo ermeneutico e un sapiente uso dei canoni giuridici, ha posto rimedio alla beffa che dopo il danno avrebbe potuto patire la donna per effetto del comportamento di quello che era suo marito. Ma non dovrebbe essere la scienza giuridica il primo strumento per affrontare questo tipo di situazioni. Dovrebbe essere una grammatica umana di base che, purtroppo, sempre più spesso sembra mancare nel corpo sociale.

Francesco Farri

Share