La Divina Commedia, oltre ad essere una grandiosa opera letteraria, è anche uno strumento prezioso nel cammino di fede, soprattutto durante l’Anno Santo.
Il tema dell’attuale Giubileo, che si avvia ormai verso la conclusione, come noto, è la speranza. La speranza non delude, si legge nell’incipit della Bolla di indizione, riprendendo quanto affermato dall’apostolo Paolo (Rm 5,5). Nel formulare l’auspicio di un Giubileo quale occasione per tutti di rianimare la speranza, Papa Francesco ha ricordato come «la vita cristiana sia un cammino, che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire e irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù. Non a caso il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita».
Mi sembra interessante richiamare colui che lo stesso papa Francesco, alla vigilia del Giubileo straordinario del 2015, definì «profeta di speranza», invitando tutti a leggere le sue opere per trarne giovamento nel cammino di fede. Il riferimento è a Dante Alighieri e alla sua Divina Commedia, indicata dal Pontefice come «il paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Par. XX, 151) per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità».
La lettura della Divina Commedia è stata più volte considerata dai pontefici – da Benedetto XV a Francesco – quale strumento utile per la conversione: «sappiamo che alcuni, studiando con amore la Divina Commedia, per divina grazia, prima cominciarono ad ammirare la verità della fede cattolica e poi finirono col gettarsi entusiasti tra le braccia della Chiesa», affermò Benedetto XV, legando inscindibilmente lo studio delle opere dantesche con l’accompagnamento nella fede. Paolo VI invitò a leggere la Divina Commedia «non precipitevoli e frettolosi, ma con mente penetrante e con meditazione amorosa», donandone una copia a coloro che parteciparono al Concilio Vaticano II.
Non va dimenticato, inoltre, che Dante, nella Divina Commedia, colloca l’inizio del suo pellegrinaggio verso la salvezza in un anno particolare, il 1300. Un periodo per lui di intensa attività politica e di massimo riconoscimento (a giugno fu eletto priore della città di Firenze, una delle cariche più alte e prestigiose) e, al tempo stesso, l’anno del primo Giubileo nella storia della Chiesa, ossia del periodo dedicato alla remissione dei peccati, alla riconciliazione e alla penitenza sacramentale.
Sotto il primo profilo, è interessante osservare che è proprio nel momento del successo che Dante si riconosce nella selva oscura (simbolo dello smarrimento morale), ostacolato dal peccato (simboleggiato dalle tre fiere) nel suo cammino lungo la via del bene. Una collocazione temporale ben precisa, con la quale il poeta ricorda ai lettori che senza il Signore tutte le opere umane, anche le più grandi, sono vane, perché non sono in grado di portare alla salvezza, come insegna anche il salmo 127 (v. 1), il poema sapienziale attribuito a Salomone: «Se il Signore non costruisce la casa, invano lavorano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella».
All’azione di Dante che intraprende il viaggio verso la felicità, si contrappone l’immobilismo degli ignavi, coloro che hanno vissuto «sanza ’nfamia e sanza lodo» (Inf., III, v. 36) e che, da morti, «’nvidiosi son d’ogne altra sorte». Anime di persone che hanno condotto un’esistenza vile e senza gloria, collocate, nell’immaginario dantesco, persino fuori dall’Inferno, a sottolineare il fatto che gli ignavi, fra tutti i dannati, sono i più spregevoli.
Il riferimento al vessillo bianco che queste anime sono condannate ad inseguire simboleggia proprio il vuoto della loro vita, vissuta in maniera passiva, senza slanci, senza presa di posizione verso il Bene o verso il Male; quando l’uomo è invece chiamato, per sua natura, ad agire secondo ragione e volontà. Come si legge anche nell’Apocalisse (3,16), si può essere caldi o freddi − ossia ardere di amore per Dio o versare in uno stato di colpa grave – ma non si può essere tiepidi perché questa condizione implica il rifiuto del libero arbitrio, «lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, e a la sua bontade più conformato, e quel ch’e’ più apprezza», spiega Dante nel Paradiso tramite Beatrice (Par., V, vv. 19-21).
Ecco perché quelle anime tutte ammassate − tormentate da vespe e mosconi, costrette a correre senza sosta dietro ad un inutile vessillo bianco – sono indicate come le anime di coloro «che mai non fur vivi» (Inf. v. 64) e che «non hanno speranza di morte».
L’immagine della condizione delle anime degli ignavi è utilizzata da Dante per scuotere le coscienze di coloro che, avendone ancora la possibilità, possono intraprendere il cammino di salvezza pensato da Dio per tutti i suoi figli.
Un monito, quello di Dante, a non essere indifferenti, a non rimanere vigliaccamente inerti di fronte alle ingiustizie.
Dante, con la sua Commedia, ricorda che la salvezza è per tutti, anche per coloro che hanno commesso gravi peccati, laddove si pentano del male commesso e intraprendano il cammino di conversione, perché la misericordia di Dio è infinita.
Un cammino che, tuttavia, necessita di guide capaci perché alla salvezza non si può arrivare da soli. Lo stesso Dante, nel pellegrinaggio ultramondano, viene accompagnato prima da Virgilio, poi da Beatrice e, infine, da San Bernardo. Nel nostro cammino abbiamo bisogno di guide che sappiano condurci sulla strada giusta, persone che Dio ci dà la possibilità di incontrare, lasciando a noi la libertà di decidere se seguirle.
Pensiamo ad esempio al viaggio di Tobia e a quel suo speciale compagno di viaggio, Azaria, che riesce a salvarlo in tante situazioni durante il suo viaggio verso Sara e che poi si rivelerà essere l’arcangelo Raffaele; e pensiamo soprattutto alle parole del padre di Tobia, Tobi: «cercati, dunque, o figlio, un uomo di fiducia che ti faccia da guida» (Tb 5,4). Tobi invita il figlio a fare un primo discernimento per individuare una guida.
Ma per iniziare il viaggio verso la salvezza, ricorda Dante, non basta avere una valida guida al proprio fianco: è necessario riconoscersi bisognosi di aiuto. Ecco, allora, che le prime parole che Dante pronuncia all’inizio del suo viaggio e che rivolge a Virgilio sono: «Miserere di me», abbi pietà di me. Chi è superbo non vede il proprio peccato, non si considera bisognoso di aiuto, non riesce ad accogliere la grande misericordia di Dio.
Dante invece si mostra bisognoso di aiuto, si mostra umile, dando quindi una precisa indicazione: per entrare in relazione con Dio e procedere verso la salvezza è necessario seguire l’esempio di Maria. L’umiltà – termine che richiama la terra, da humus − è la strada che porta verso l’alto, in Cielo, come insegnato anche da Gesù: «chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11).
E questo spiega anche la ragione per la quale Dante pone Ulisse fra i dannati dell’inferno. Ulisse viene posto fra i consiglieri fraudolenti ma ciò che Dante mette in evidenza è soprattutto la sete di scoperte geografiche di Ulisse. Dante, tuttavia, non lo condanna per il suo desiderio di conoscere, di spingersi sempre oltre (come dimostrano i versi «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza», Inf., XXVI, vv. 119-120): Dante condanna Ulisse per la sua mancanza di umiltà, per essere andato oltre i limiti, per aver forzato i divieti stabiliti, per aver confidato solo nelle proprie forze. Attraverso Ulisse, Dante ha voluto condannare l’atteggiamento di chi “non sa stare al proprio posto”, di chi ritiene di sapere meglio di Dio quale viaggio intraprendere per il proprio bene. I figli di Dio sono invece chiamati, con vera umiltà, ad operare là dove Dio li ha pensati, perché lì possono trovare la felicità. È un’esortazione, dunque, a non intraprendere un “folle volo” come è stato quello di Ulisse, bensì il cammino di salvezza che consente di sperimentare la grande misericordia con cui Dio va a cercare le sue pecore smarrite.
Potremmo chiederci per quale ragione, allora, secondo la visione dantesca, Dio misericordioso abbia previsto l’inferno, il luogo della dannazione eterna.
La risposta sta proprio nell’amore di Dio e nel grande dono del libero arbitrio: Dio non obbliga i suoi figli a seguirlo; per coloro che decidono di farlo ha promesso la felicità eterna, ma la scelta è libera. L’inferno, quindi, non è tanto una punizione, quanto, piuttosto, la conseguenza delle scelte fatte durante la vita terrena.
Un bene particolarmente prezioso è dunque il tempo, che va amministrato con prudenza, ricordando che il giorno del Signore arriverà all’improvviso, «come un ladro nella notte» (1 Ts, 5,2), e che occorre quindi farsi trovare vigili e pronti; «perder tempo a chi più sa più spiace», dice Dante per bocca di Virgilio nel terzo canto del Purgatorio (Purg. III, v. 78), spiegando che tanto più si è saggi e tanto più si è consapevoli dell’importanza di non sprecare il tempo a disposizione, bensì di viverlo in modo proficuo.
Tutti noi possiamo essere amministratori disonesti del tempo che Dio ci ha donato. Ma, come ricorda Dante, ognuno di noi può decidere di cambiare, in qualunque momento. Il tempo che abbiamo male amministrato ormai è perso, ma possiamo rimediare, prima di tutto amando il prossimo, come insegna la parabola di quell’amministratore disonesto che, una volta scoperto dal padrone, riconosce il suo stato di errore e di bisogno e decide di compiere gesti di solidarietà (Lc 16, 1-9). La parabola dell’amministratore disonesto, in definitiva, invita a farsi degli amici, a costruire relazioni, in quanto, per usare le parole di San Pietro, «la carità copre una moltitudine di peccati» (1Pt 4,8). L’insegnamento che se ne ricava ben si adatta anche al messaggio di speranza che Dante, attraverso la Commedia, offre ai lettori da oltre sette secoli.
Speranza è la parola posta al centro di questo Giubileo ed è anche la parola con cui Dante inizia e termina il suo viaggio: da quel «lasciate ogni speranza o voi che entrate» (Inf., III, v. 9) che si trova sulla porta degli inferi, all’appellativo con cui viene indicata Maria «tu sei di speranza fontana vivace» (Par., XXXIII, v. 12).
Si compie in tal modo l’itinerario dantesco, che inizia nel luogo della dannazione eterna, dove non vi è più speranza e, passando per il purgatorio quale luogo di pentimento e di attesa, giunge alla speranza certa del bene.
Un invito, dunque, a mettersi in cammino, ad accogliere il mare della misericordia di Dio; un invito ad essere uomini e non pecore matte (Par., V, v. 80).
Daniela Bianchini