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Il Centro Studi Rosario Livatino considera di centrale importanza, per l’attuale congiuntura, richiamare i principi fondamentali in tema di rapporto fra diritto ed economia, sia in generale e sia con specifico riferimento all’esperienza italiana. Avviamo la riflessione sul punto, pubblicando, ieri e oggi, due ampi scritti del prof. Mauro Ronco.

1. Ricordi dalla scuola elementare. – Quando frequentavo negli anni ’50 del secolo scorso le scuole elementari, ogni anno si celebrava “la Giornata del risparmio”. Il maestro, molto informato e motivato, dava lettura dell’art. 47 della Costituzione sia nel primo che nel secondo comma, attirando l’attenzione dei bambini in particolare sulla formula del 1° comma ove è scritto che: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”, nonché sulla statuizione del 2° comma, ove è scritto che: “[la Repubblica] favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice, e al diritto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. Soggiungeva che il primo scopo del risparmio familiare era l’acquisto di una abitazione in proprietà o, per i coltivatori, del fondo rustico su cui lavoravano. Al termine della spiegazione il maestro ci invitava a risparmiare per una settimana sulle merendine e a consegnare il ricavato del risparmio per fare una piccola donazione collettiva ai poveri.

2. L’art. 47 della Costituzione e la promozione e tutela del risparmio. –L’interpretazione dell’art. 47 Cost., almeno fino agli anni ’80 del secolo scorso, seguì la tesi di Massimo Severo Giannini, secondo il quale l’art. 47 costituiva la conferma dei principi della legge bancaria del 1936 (c.d. l. banc. – r.d.l. 12.3.1936, n. 375)[1]. Tale legge era caratterizzata dai princìpi della separazione netta tra banca e impresa e di segmentazione del sistema, attraverso la distinzione tra credito a breve termine, affidato alle aziende di credito, e credito a medio-lungo termine, attribuito agli istituti di credito.

La legge bancaria prevedeva un intenso controllo pubblico nei confronti del settore bancario. Lo strumento più efficace di vigilanza, previsto dall’art. 38, era l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria, secondo il quale senza l’autorizzazione della Banca d’Italia le aziende e gli istituti di credito non potevano costituirsi, né iniziare operazioni, né istituire sedi e filiali. A tale previsione faceva riscontro il corrispondente potere di revoca delle autorizzazioni. Il fine era di garantire una migliore distribuzione territoriale delle aziende di credito e stabilizzare il sistema finanziario tramite il controllo pubblico: un approccio concorrenziale era ritenuto pericoloso per la stabilità del sistema creditizio.

3. Separazione o contaminazione tra banca e finanza? – La legge bancaria del 1936, costituì un antidoto ai dissesti bancari degli anni ’30, in quanto pose in essere gli strumenti giuridici per resistere meglio alle influenze delle grandi imprese, garantendo un’allocazione del credito più efficace. In effetti il modello della legge bancaria del 1936 si ricollegava alla legge statunitense Glass-Steagall del 1933, che aveva separato le banche commerciali, che raccolgono il risparmio e prestano il denaro all’economia reale, dalle banche di investimento, che attendono alla speculazione dei titoli azionari e obbligazionari, svolgendo una funzione eminentemente finanziaria.

Come è noto, la legge Glass-Steagall costituì la risposta del Governo federale alla grande depressione del 1929, sul rilievo che tra le principali cause di essa erano da annoverarsi le contaminazioni tra attività bancaria e attività finanziaria.

La ratio giuridica della separazione consiste nell’esigenza di contrastare i conflitti di interesse dei banchieri e del management degli istituti bancari. E’ ovvio infatti che la custodia dei risparmi e lo sviluppo degli investimenti produttivi – scopi dell’attività bancaria – sono compromessi dall’interesse speculativo che caratterizza tipicamente l’operatore finanziario. La protezione normativa dall’insidia dei conflitti di interesse preserva le banche commerciali dall’intraprendere attività rischiose, volte a massimizzare i profitti dell’azionariato di controllo e del management, che mettono a rischio la sicurezza dei risparmiatori.

Negli anni ’90 , su pressione della finanziarizzazione dell’economia diretta all’accrescimento esponenziale dei profitti dall’intermediazione finanziaria, avvenne il totale cambiamento  di rotta sia  in Italia che negli Stati Uniti.

In Italia la pressione proveniente dalle istituzioni europee per la liberalizzazione e la privatizzazione dell’economia portò all’abrogazione della legge bancaria del 1936, realizzatasi con la promulgazione del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, il cui articolo 10, 3° co., consentì alle banche di esercitare “oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuno, nonché attività connesse o strumentali”[2].

Negli Stati Uniti l’aspirazione dei banchieri ad abrogare il restrittivo Glass-Steagall Act portò alla riforma del 1999 con la promulgazione del Gramm-Leach-Biley Act, denominato legge sulla modernizzazione dei servizi finanziari (Financial Services Modernization Act).

4. Gli effetti perversi della finanziarizzazione dell’attività bancaria. – Joseph Stiglitz ha descritto gli effetti quasi immediati che seguirono all’abrogazione del principio separativo: i) il sopravvento nelle banche commerciali della cultura dell’investment banking, con la ricerca di rendimenti elevati, conseguibili soltanto con grandi rapporti di indebitamento e rischi notevoli; ii) la concentrazione degli istituti bancari, al punto che la quota di mercato delle principali banche passò dall’8% del 1995 al 30% del 2009[3].

Onde le grandi banche di investimento presentavano nel 2002 un rapporto di indebitamento di 29 a 1: “[…] il che significa che una diminuzione del 3 per cento del valore degli asset le avrebbe spazzate via”[4]. La Securities and Exchange Commission (SEC) non intervenne perché, in virtù del principio dell’autoregolamentazione, mostrava di essere convinta che le banche fossero in grado di autocontrollarsi; iii) la cartolarizzazione dei debiti, al fine di conseguire il vantaggio di diversificare e distribuire il rischio. Con la cartolarizzazione gli investitori potevano comprare azioni legate a mutui accorpati e le banche di investimento potevano anche accorpare tali mutui tra di loro. Gli acquirenti si trovavano in una posizione informativa asimmetrica ed erano esposti alla frode perché non conoscevano il grado di affidabilità dell’ente che aveva emesso il mutuo. Il processo di cartolarizzazione – annota Stiglitz – si basa sulla greater fool theory, cioè sulla convinzione fraudolenta che “[…] c’è sempre qualcuno più fesso di te a cui vendere i mutui tossici e i pericolosi pezzi di carta basati su di essi. La globalizzazione ha creato un nuovo mondo di fessi …”[5].

Nei templi della finanza riformata secondo il principio della “modernizzazione dei servizi finanziari” il gigantismo bancario indotto dalla febbre delle fusioni ha provocato crac spaventosi. Marco Onado ne ha narrato alcuni. L’americana Citigroup, cresciuta abnormemente fino a diventare la banca per capitalizzazione più grande del mondo fu costretta a vendere gli asset principali per fare cassa e ricostituire il capitale eroso dalle perdite sui titoli strutturati e sui crediti. Alla fine del 2006 quotava 55,88 dollari; all’inizio del 2009 scese a poco più di 1 dollaro. Infine fu salvata dallo Stato che intervenne con un massiccio finanziamento.

La britannica Northern Rock, che si vantava di essere una delle due aziende del Nord-est della Gran Bretagna a far parte della ristretta élite dell’indice Ftse 100, spinse il grado di indebitamento al massimo possibile per sfruttare il lato positivo della leva finanziaria, puntando soprattutto sulla raccolta interbancaria a breve. Al bloccarsi del mercato interbancario la banca si trovò con debiti in scadenza a meno di tre mesi per 34 miliardi di sterline e con attività a breve per solo 8. Infine, addirittura il colosso UBS, allocato nell’incontaminata purezza bancaria della Svizzera, subì perdite gravissime in una strategia di crescita incentrata su operazioni incontrollate di finanza strutturata[6].

5. Gli effetti perversi in Italia e la totale inosservanza dell’art. 47 Cost. – In Italia la riforma bancaria del 1993 ha prodotto effetti del tutto analoghi, anche se ovviamente su scala più ridotta rispetto agli Stati Uniti.

Se il nostro Paese, invero, adottò in ritardo – solo nel 1936 – il principio separativo dell’attività bancaria da quella finanziaria, anticipò addirittura gli Stati Uniti nella sua abrogazione. Anche nel nostro Paese la rete protettiva del sistema bancario, certo arretrato e bisognoso di modernizzazione, ma comunque radicato sul territorio e attento alle necessità dell’economia reale, fu squarciato dalla pressione europea affinché “si facessero le riforme” modernizzatrici dei servizi finanziari, come recita la denominazione dell’Act statunitense del 1999.

Non è questa la sede per parlare delle frodi compiute da un numero non insignificante di banchieri italiani, che si sono trasformate in monstra divoratrici dei risparmi privati a favore degli amministratori e dei manager. Soltanto l’intervento salvifico del comparto pubblico ha scongiurato le bancarotte che avrebbero portato i responsabili a rispondere dei loro delitti nel processo penale. I profitti conseguiti indebitamente tramite le fusioni a debito, le privatizzazioni sconsiderate e l’avulsione di molte banche dal territorio in cui si radicavano i finanziamenti per le imprese produttive hanno visto come danneggiati, insieme con l’Erario, i risparmiatori retail e la platea indeterminata dei contribuenti.

La contaminazione fra banche commerciali e istituti finanziari fu determinata dall’ossessione che unì finanza e politica, a favore del modello dell’investment banks, tutto orientato sulla crescita dei ricavi e sulla massimizzazione del valore delle azioni. Con la finanziarizzazione dell’attività bancaria anche nel mondo bancario italiano crebbe la corsa dei banchieri e dei manager all’oro. Assumendo posizioni speculative su determinati titoli e sfruttando modelli matematici raffinati, alla maniera dei finanzieri internazionali più ingegnosi, essi incrementarono massicciamente i loro profitti con danno per l’economia reale.

I cambiamenti avvennero nel totale silenzio della dottrina costituzionalistica e con l’approvazione entusiasta di tutta la comunità degli economisti, dei finanzieri e, purtroppo, anche dei giuristi, che si risvegliarono assai tardivamente, soltanto al momento dell’esplosione della grande crisi finanziaria ed economica del 2008-2010. I gravi rischi insiti nel modello ispirato ai princìpi della liberalizzazione assoluta dei capitali, della finanziarizzazione dell’attività bancaria e del distacco degli istituti di credito dagli scopi tradizionali di sostegno all’economia produttiva non furono previsti in alcun modo dalla classe politica.

Al verificarsi dei danni la risposta della classe politica fu debole e miope: non si permise di porre in questione i perversi princìpi della concorrenza priva di regole e della finanziarizzazione dell’attività bancaria, accontentandosi di parlare della necessità di introdurre nuove regole e tentando, a partire dal 2011, il difficile risanamento del sistema con il mezzo meno costituzionalmente orientato, cioè con l’impoverimento dei risparmiatori e dei contribuenti. L’inosservanza dell’art. 47 della Costituzione costituisce un vizio di fondo che ha afflitto la politica finanziaria e economica italiana a partire almeno dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso su pressione delle istituzioni europee e delle grandi corporazioni finanziarie internazionali.

Mauro Ronco


[1] m. s. Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1977, 205.

[2] Il testo unico del 1993 ha completamente riformato il sistema delineato dalla legge bancaria del 1936 (r.d.l. 12 marzo 1936 n. 375), che, nata su iniziativa di Alberto Beneduce e Donato Menichella, separava l’attività bancaria a breve termine, esercitata dalle aziende di credito ordinario, dall’attività bancaria a medio e lungo termine, svolta dagli istituto di credito.

[3] Federal Deposit Insurance Corporation, Summary of Deposits, 15 ottobre 2009, disponibile all’indirizzo http://www2.fdic.gov/SOD/sodSummary.asp?barItem=3, ripreso da Stiglitz, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera, Torino, 2010, 3, 235., (originale inglese: Id., America, Free Markets, and the Sinking of the World Economy, 2010.

[4] Stiglitz,  Bancarotta. cit.. 235.

[5] Stiglitz, Bancarotta, cit., 130.

[6] Onado, I nodi al pettine. cit., 106-116; v. anche più in generale Id., Economia e regolamentazione del sistema finanziario, Bologna, 2008.

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