Lo sfondo storico di tutto il pensiero intorno alla giustizia e al diritto nella letteratura greca primitiva fu il sorgere della nuova polis, che prese la sua forma caratteristica durante il settimo e sesto secolo, e culminò nella democrazia ateniese del quinto secolo. La lotta per un nuovo ordine sociale che doveva prendere il posto della vecchia società aristocratica fu chiaramente descritta da autori contemporanei come Solone e Teognide. È bensì vero che essi videro la grande rivoluzione del loro tempo da punti di vista opposti, dato che Solone era il campione del popolo mentre Teognide rappresentava la classe un tempo privilegiata che era stata privata da poco dei suoi poteri ereditari. Ma anche la classe dirigente spodestata si univa nell’appello per il diritto e la giustizia dato che lo stabilirsi di un saldo ordine legale era la sua sola speranza di sopravvivere. La legge era il porto nel quale le due parti trovavano un ancoraggio sicuro nella tempesta che entrambe le minacciava.
Dalle incerte testimonianze sulla sua vita pare che Teognide (Θέογνις) fosse nato a Megara Nisea verso il 630 e partecipasse da aristocratico alla lotta contro i democratici. Questa notizia troverebbe conforto nelle lotte interne che animarono questa città e che videro il demos scalzare, momentaneamente, il potere aristocratico e trovare appoggio nella tirannide di Teagene.
A Megara, infatti, verso il 640 a.C. aveva imposto la sua tirannide Teagene, il quale, secondo Aristotele, si era guadagnato la fiducia popolare facendo massacrare le greggi dei ricchi latifondisti che fossero sorprese a pascolare su terreni pubblici.
Platone ne parla, invece, come «cittadino di Megara in Sicilia» (Megara Iblea, colonia di Megara Nisea), ma già nell’antichità Arpocrazione di Alessandria, grammatico e lessicografo greco del II sec d.C, richiamandosi al v. 783 “ἦλθον μὲν γὰρ ἔγωγε καὶ εἰς Σικελήν ποτε γαῖαν” – «Io giunsi infatti una volta anche alla sicula terra»- contestava la notizia platonica, e il poeta stesso si definisce «Megarese» senza ulteriori specificazioni (v. 23). Forse Teognide, pur nativo di Megara Nisea, assunse a causa dell’esilio la cittadinanza di Megara Iblea.
D’altra parte, non è agevole inserire i dati che emergono nelle elegie teognidee entro il quadro storico megarese: comunque sia, l’insieme politico-sociale che emerge dalle due elegie quasi certamente autentiche dei vv. 39-52 e 53-68, eventualmente integrabili con quella dei vv. 1197-1202 (dove si rievoca la spoliazione dei beni), presuppone una situazione in cui i capi del demos puntano a misure radicali contro la vecchia aristocrazia, per cui la polis è agitata da violentissime tensioni interne; si teme per l’ascesa di un tiranno; pastori e contadini si sono inurbati; alcuni aristocratici hanno intrapreso iniziative e affari in associazione coi nuovi ceti.
Una situazione che si accorda con l’inizio di quella fase che Plutarco definisce di «sfrenata democrazia» (ἀκόλαστος δημοκρατία) e che si può collocare intorno al 600 a.C. Datare le elegie citate intorno al 600 sembra pertanto l’ipotesi più plausibile.
La produzione poetica di Teognide ci è giunta all’interno di un corpus in due libri, dedicato a Cirno, spesso apostrofato col patronimico Πολυπαΐδης («figlio di Polipao»), un giovane aristocratico megarese a cui il poeta rivolge gran parte delle sue elegie, spesso apostrofandolo direttamente, per educarlo a diventare un perfetto rappresentante della nobiltà.
Il Corpus Theognideum conta un totale di poco meno di 1400 versi, molti dei quali sono però da considerare non teognidei e parecchi rappresentano riprese alterate da Tirteo, Mimnermo, Solone, adottate come punto di partenza o pretesto per nuovi spunti all’interno dei «nastri» tematici simposiali, cioè i motivi-guida su cui i convitati concentravano, per un breve lasso di tempo, le loro improvvisazioni.
Dovunque Teognide dispensasse le sue perle (ampiamente riutilizzabili in più contesti) di quotidiana (e talora utilitaristica) saggezza al giovane Cirno e ai suoi ἑταῖροι a banchetto, è difficile ipotizzare che ciò avvenisse senza alcun rapporto (di filiazione o di riecheggiamento) con le elegie soloniane, tanti sono i paralleli formali e contenutistici con l’eunomía ateniese (fr. 4 W.2: vd. commento a T6) reperibili in questi versi, ben oltre le persistenze di slogans e parole vuote che l’elegia arcaica offre all’inesausta azione di shifting, riuso con variazione, simposiale.
L’equilibrio ‘centrista’ che pervade i versi soloniani, preoccupati di proporre una sorta di patto sociale (l’eunomía appunto) favorevole alla nobiltà e tollerabile per il popolo, si frantuma qui, però, in una contrapposizione insanabile tra i “buoni”, ovvero gli aristocratici (gli ἀγαθοί, gli ἐσθλοί), “che non hanno condotto alla rovina mai nessuna città”, e i “cattivi”, ovvero la plebaglia (i κακοί, i δειλοί), che producono corruzione, discordia civile, assassinî politici e persino lo spettro della tirannide: un “raddrizzatore” (v. 40) della “malvagia arroganza” – significativa ammissione, se non è mero retaggio dell’affettata terzietà soloniana – della parte nobiliare.
Cirno, questa città è gravida: temo che possa partorire un raddrizzatore della nostra malvagia arroganza. Se infatti questi nostri cittadini sono ancora assennati, i loro capi si sono già traviati e cadranno in un’enorme sciagura. Gli uomini buoni, Cirno, non hanno mai condotto alla rovina nessuna città, ma qualora ai cattivi piaccia di agire con arroganza, essi rovinano il popolo e agli ingiusti rendono sentenze favorevoli, sia in vista di guadagni privati, sia per ricavarne potere; non aspettarti che per lungo tempo possa quella città restar tranquilla – neppure se adesso si trova in una gran quiete apparente – qualora agli uomini, ai cattivi, risultino gradite queste cose: guadagni che si fanno strada insieme al pubblico male. Ne conseguono infatti sedizioni, ed assassinî di concittadini, e singoli reggenti: mai ciò piaccia a questa nostra città! (vv 39-52)
La storia del lungo periodo tra la fine del VII e il VI sec. a.C. insegnò amare verità alle aristocrazie cittadine: le pretese ormai antistoriche dei ceti nobiliari rispetto a diritti anticamente acquisiti ma ormai soggetti a un progressivo sgretolamento (la “malvagia arroganza” del v. 40) e la sempre più inarrestabile avanzata di istanze da parte di homines novi, ceti mercantili, contadini espropriati e ridotti in semischiavitù conducevano a contrasti talmente violenti e distruttivi da richiedere l’intervento di plenipotenziari non di rado interessati.
Appoggiati quasi sempre da soggetti sociali ‘nuovi’, propugnatori in prima persona o tiepidi esecutori (più o meno eterodiretti) di riforme sociali quasi sempre a danno dei grandi latifondisti e dei privilegi nobiliari, i tiranni costituivano un autentico spauracchio per tutte le aristocrazie conservatrici delle πόλεις elleniche, e non fa meraviglia che Teognide apra (vv. 39s. “temo che possa partorire un uomo raddrizzatore, ἀνὴρ εὐθυντήρ, della nostra malvagia arroganza”) e chiuda (v. 52, dove sono di scena i μούναρχοι, i “singoli reggenti”, coloro che esercitano da soli, μοῦνοι, il potere, l’ἀρχή) la propria elegia, con quasi tabuistici sinonimi, nel segno della deprecata tirannide.
Davanti a un simposio di concittadini (ἀστοί), probabilmente all’interno di un circolo antagonista rispetto all’attuale governo della città, Teognide salva dalle rampogne la cittadinanza, di cui è anzi elogiata la persistente abitudine di restare al proprio posto (la σωφροσύνη cui rimanda il σαόφρονες, “assennati” e “moderati”, del v. 41), e le dirige piuttosto, solonianamente, contro le “guide”, i “capi” (gli ἡγεμόνες): là, condannati a un destino, già pronto, di sofferenze in gran numero (T6,8); qui, già volti, deliberatamente, a un’atroce caduta in “un’enorme sciagura” (v. 42).
Ma qui la parentesi teognidea appare diversa da quella soloniana, e divide torti e ragioni con un coltello dichiaratamente di parte: “gli uomini buoni, Cirno, non hanno mai condotto alla rovina nessuna città”, recita il v. 43, che assolve un’intera classe sociale (di cui pure tre versi prima si ammetteva l’ὕβρις) dalle responsabilità del disastro; che competono per intero, invece, a un’altra ὕβρις, quella dei κακοί, nella loro distruttiva opera di corruzione del popolo (il δῆμος, che qui pare ancora un termine collettivo e non di parte, come poi invece nel V sec., quando designerà direttamente la fazione ‘popolare’) e di stravolgimento dell’amministrazione della giustizia (v. 45), in vista di guadagni economici e di potere politico (v. 46).
L’insistenza sullo stravolgimento di “sentenze” (δίκαι), che è in Solone (T6,14 e 36) e prima ancora in Esiodo (Op. 35-39, 219-221, etc., sullo sfondo del perduto processo che l’oppose al fratello Perse), getta qualche luce su modalità e strumenti (tra cui riforme giudiziarie e processi) con cui le classi emergenti si ritagliarono un ruolo economico e politico (i “guadagni” e il “potere” del v. 46) in contesti precedentemente dominati da autoreferenziali aristocrazie terriere. Le quali – come testimoniano Esiodo, Solone e Teognide, e secondo una retorica dell’intransigente conservatorismo approdata sino all’età contemporanea – gridarono ovviamente al complotto giudiziario e al sovvertimento della Giustizia.
Una città del genere non può “restare a lungo tranquilla” (v. 47), nemmeno se la “quiete”, cioè l’equilibrio sociale, che al momento vi regna – e che sempre Solone rileva tra le “gioie” del simposio cui indirizzava la propria εὐνομία (T6,9s.) – sembri stabile e abbondante (v. 48).
Ciò che è gradito ai κακοί, infatti, e dunque soprattutto i turpi “guadagni” (κέρδεα) cui sono dediti, non può sopraggiungere se non insieme a un altro idolo polemico di Solone (T6,26), quel δημόσιον κακόν, il “pubblico male” (v. 50), che chiunque si veda sottrarre un privilegio denuncia al fine di mantenere lo status quo ante.
Le conseguenze, che l’oltranzismo teognideo imputa ovviamente alla sola parte avversa, sono sotto gli occhi di tutti: rottura della pace sociale (στάσεις, “sedizioni”), ricorso all’omicidio come arma di lotta politica (φόνοι ἔμφυλοι) e, naturalmente, la tirannide (μούναρχοι, i “monarchi”). Agli occhi di Teognide, la situazione doveva essere precipitata, se alle ambiziose, eunomiche cure soloniane (T6,32-39) fa qui da pendant un malinconico scongiuro: Dio non voglia! (v. 52: “mai ciò piaccia a questa nostra città”, dove il ‘piacere’, e quindi l’interesse, dell’intera comunità cittadina è sapientemente distinto da – e anzi opposto a – quello dei κακοί, citati ai vv. 48s. immediatamente precedenti).
Teognide, invocò la giustizia divina di Zeus per punire i malvagi senza che la loro colpa ricadesse sul popolo o sui figli. Contrappose a questa speranza la triste realtà contemporanea, segnata da un andamento della giustizia opposto: «Ora, invece / chi male fa, la scampa, sconta la pena una altro» (Elegie, I, vv. 741-742).
Questa invocazione è intrisa dello stato d’animo del poeta, afflitto per le lotte interne alla sua città, probabilmente Megara Nisea, dove si schierò contro i democratici che, invece, uscirono vincitori dalla lotta.
Inoltre, la υβρις condannata da Teognide è spesso intesa anche su un piano socioeconomico: nella sua opera, egli opera una distinzione fra αγαθοι e κακοι, ma in un senso prima di tutto economico e sociale, in secondo luogo morale. Per questo, la sua preghiera[1] per una punizione dei malvagi potrebbe assumere un valore differente da quella puramente morale di Esiodo.
[1] Deh, se piacesse ai Numi di spingere sempre i malvagia tracotanza, padre Giove, e piacesse a loro
che chi medita e compie misfatti con anima iniquasenza avere pei Numi riguardo alcuno, il fio
poi dovesse egli stesso pagar, né le colpe del padredovessero produrre la sciagura dei figli,
sì che dell’empio i figli, quand’anche del giusto Cronìde temono l’ira, e solo pensano e fanno il giusto,
rinnovellando il culto del giusto fra i concittadini, non dovesser le pene scontar dei padri loro.
Deh, se così piacesse d’Olimpo ai Beati! Ora, invece, chi male fa, la scampa, sconta la pena un altro.
(Teognide, “Elegie”, I, vv. 731-742)