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Il Centro Studi Rosario Livatino considera di centrale importanza, per l’attuale congiuntura, richiamare i principi fondamentali in tema di rapporto fra diritto ed economia, sia in generale e sia con specifico riferimento all’esperienza italiana.
Avviamo la riflessione sul punto, pubblicando, oggi e domani,  due ampi scritti del prof. Mauro Ronco.

A partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso si è diffusa nel mondo occidentale e anche in Italia l’idea che la giustizia sociale sia una superstizione. L’idea proviene da un famoso scritto di Friedrich von Hayek pubblicato per la prima volta nel 1973 (Law, Legislation and Liberty, London, 1973). La traduzione italiana del 2010 contiene il seguente passo: “Ciò con cui si ha a che fare nel caso della ‘giustizia sociale’ è semplicemente una superstizione quasi religiosa che si dovrebbe lasciar perdere finché essa serve unicamente a rendere contento chi la detiene, ma che si deve combattere nel momento in cui diventa un pretesto per costringere gli altri. La fede diffusa nella ‘giustizia sociale’ è probabilmente al giorno d’oggi la minaccia più grande nei confronti della maggior parte degli altri valori di una civiltà libera[1]. L’espressione di Hayek poteva sembrare nel 1973 giustificata come provocazione contro il totalitarismo economico di marca sovietica che tendeva a estendersi nell’Europa occidentale. Senonché, tramontato il comunismo storico e l’imperialismo economico sovietico, il concetto è maturato in un contesto storico completamente diverso in cui le ragioni di una libertà economica indiscriminata hanno sopraffatto le legislazioni dei singoli Paesi e, in particolare, hanno ispirato politiche di privatizzazione dei beni comuni e dei beni strategici per la sopravvivenza delle nazioni. L’idea che la giustizia sociale sia una superstizione ha prodotto pessimi frutti.

La crisi economico-finanziaria del 2008/2010 ha rivelato in modo drammatico i danni provocati alle collettività nazionali da un processo di liberalizzazione condotto dalle classi finanziarie senza freni etici e senza contrappesi di carattere politico.  E’ apparsa evidente, in quel momento storico, la necessità della presenza attiva di una autorità regolatrice superiore agli interessi dei singoli e dei gruppi, che non sia troppo minuscola, tale da non poter esercitare funzioni regolatrici efficaci, né troppo grande, sì da non poter mantenere un rapporto democratico con i popoli e i territori interessati agli eventi economici e finanziari.

Questa autorità regolatrice, allo stato attuale dei processi di consolidazione politica, non può che essere lo Stato, in quanto unico soggetto capace di garantire i diritti sociali delle popolazioni, bilanciando gli interessi collettivi con quelli egoistici di coloro, individui o imprese, che operano liberamente nel mondo dell’economia e della finanza.

Lo ha proclamato con forza Joseph Stiglitz in anni recenti[2]. Egli ha sottolineato la necessità che all’assoluta libertà mercatale serve un contrappeso di tipo comunitario per gestire gli immensi rischi dell’interdipendenza a livello planetario dell’azione degli innumerevoli soggetti economici. Secondo Stiglitz occorrono energie collettive in grado di riequilibrare l’azione anomica dei soggetti che agiscono per fini individualistici in un’economia complessa e in movimento perenne e sempre più vorticoso: “Lo Stato è uno dei nostri principali mezzi di lavorare insieme. La differenza tra lo Stato e le altre forme di cooperazione è il potere di coercizione: lo Stato può costringere le persone e le istituzioni a non far questo e a far quello [non provocare la morte e i danni al prossimo – pagare le imposte e non commettere frodi negli affari]”[3].

Affiora in questa fase storica l’esigenza di calibrare meglio anche la funzione del diritto criminale, affinché esso sia in grado di intervenire nella materia economica per ostacolare efficacemente gli abusi di mercato che provocano lacerazioni rovinose al tessuto sociale del Paese.

I beni giuridici oggetto dei reati che concernono la materia economica non sono infatti di tipo individualistico-patrimoniale, poiché costituiscono la base indispensabile affinché l’esistenza dei popoli possa progredire secondo criteri di giustizia legale e distributiva. Questi beni sono di tipo eminentemente sociale, poiché appartengono alla categoria dei beni comuni. Come l’aria, l’acqua, l’ambiente ecologico[4], anche l’ambiente economico in cui si svolgono la produzione e la circolazione della ricchezza è un bene comune, di tipo immateriale, ma essenziale affinché possa comprendersi fino in fondo il disvalore delle condotte materiali di tipo predatorio. Le condotte che offendono tali beni si inseriscono in un contesto economico di inaccettabile ridistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto, con il conseguente ingiusto accrescimento delle disuguaglianze sociali.

La criminalità di conio economico è un veicolo potente di disorganizzazione distopica della società secondo una direzione che confligge con la funzione distributiva della ricchezza, che appartiene tradizionalmente allo Stato e, in particolare, allo Stato disegnato dalla Costituzione repubblicana. In virtù dei princìpi in essa statuiti spetta, infatti, allo Stato, nel quadro dei fondamentali artt. 2, 3 e 4, promuovere i diritti sociali ed economici dei cittadini, in particolare garantendo che la libera iniziativa economica privata non sia svolta “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41, co. 2 Cost.)[5].

La Corte costituzionale ha più volte affermato che l’art. 41 Cost. deve essere interpretato nel senso che esso “… limita espressamente la tutela dell’iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la sicurezza del lavoratore”[6]. La giurisprudenza costituzionale ha ribadito costantemente anche che le norme costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 impongono ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori[7]. Da ultimo, hanno affrontato in modo approfondito il tema del bilanciamento tra princìpi e diritti costituzionali le sentenze 85/2013 e 58/2018 con riferimento specifico ai beni dell’ambiente e della salute, che l’art. 41, co. 2 indica espressamente come limiti all’iniziativa economica privata[8]. La Consulta ha affermato che la Costituzione “richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi”[9].

Il divieto dell’attività economica in contrasto con l’utilità sociale, di cui all’incipit dell’art. 41 co. 2, trova un criterio di concretizzazione – di spettanza del legislatore ordinario – nell’esigenza di bilanciare gli effetti di progresso economico e il favor verso l’esplicazione della libertà individuale con i rischi che l’esercizio senza limiti di questa libertà comprometta il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), il diritto a un’equa retribuzione, sufficiente a assicurare un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.) e, da ultimo, ma non per ultima cosa, inibisca alla “Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscano il pieno sviluppo della persona umana …” (art. 3 co. 2 Cost.).

Come detto, il bilanciamento tra i vantaggi sociali, oltre che individuali, della libertà dell’iniziativa economica e i costi che l’esercizio di tale libertà esternalizza nei confronti dell’intera collettività o di alcuni settori di essa va compiuto dal legislatore secondo criteri di ragionevole discrezionalità anche nel solco del favor libertatis che ispira la Carta costituzionale nel suo insieme. Quando, però, i costi sociali, anche soltanto relativi alle disuguaglianze sistemiche, esponenzialmente crescenti, sono provocati da contegni decettivi, fraudolenti, elusivi delle norme che regolano l’attività economica e che riguardano i rapporti con il diritto finanziario dello Stato, allora la legge ha il compito di intervenire per effettuare il bilanciamento costituzionalmente doveroso tra i diritti e gli interessi correlativi tra le parti sociali più forti e quelle che appaiono prive di difesa nell’ambito dei rapporti produttivi.

La legge ha il compito non solo di introdurre rimedi amministrativi allo scopo di porre un freno alle disuguaglianze abnormi che il liberalismo economico assoluto provoca nella società, ma anche di intervenire con lo strumento penale contro la criminalità dell’impresa, allorché l’attività imprenditoriale venga realizzata in violazione delle regole di diritto ordinario.

Il patto sociale costituzionale tra Stato e cittadini, siglato nel 1948 con la promulgazione della Carta, imponeva alcuni presidi, anche di carattere penale, a tutela dell’economia, alla cui base stava un’idea, forse non ben definita concettualmente, dell’impresa come istituzione, per la delineazione delle cui caratteristiche assume rilievo centrale la nozione di interesse sociale. Tale concezione, approfondita in seguito dagli studi di Pier Giusto Jaeger, appare più conforme ai princìpi costituzionali incisi nella Carta agli artt. 35-47 che non la nozione meramente contrattualista dell’impresa, secondo cui non sarebbe possibile individuare interessi di carattere metagiuridico altri rispetto agli interessi dei soci e, in specie, di quelli che detengono il controllo della società[10].

L’idea forte all’origine del processo di privatizzazione è imperniata sull’indimostrato assioma che i beni comuni sarebbero sempre e necessariamente mal gestiti[11], senza tener conto che i beni non sono tutti uguali e che l’etica impone delle priorità nel loro uso. La medesima idea giocò un ruolo decisivo nella privatizzazione dei beni comuni medievali e delle proprietà demaniali nell’epoca borghese a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, provocando guasti sociali di portata incalcolabile[12]. Karl Marx descrisse questo processo come caratteristico della fase di accumulazione primaria. Nonostante l’esperienza abbia mostrato i danni che provoca al tessuto sociale, tale processo è stato giustificato a partire dagli anni ’80 del secolo scorso con argomenti di tipo efficientistico che hanno convinto le classi politiche[13].

Il ruolo decisivo è stato giocato dalle privatizzazioni, realizzate in Italia in modo rovinoso nel ventennio 1990-2010, sempre sul rilievo che la gestione privata, addirittura dei grandi conglomerati industriali, il cui efficientamento e gestione in sicurezza richiedono investimenti immensi in una prospettiva economico-finanziaria a lungo termine, sarebbe risultata più efficiente di quella pubblica.

Al principio costituzionale della giustizia sociale, che si basa su valori culturalmente diffusi e ha per criterio di misura la dignità e il benessere dei cittadini, si è sostituito il concetto di giustizia del mercato, espresso dal valore che questo attribuisce alle prestazioni individuali in base al compenso relativo che esse ricevono in cambio[14].

La giustizia sociale avanza pretese in tema di correttezza, di lealtà, di equità; riconosce i diritti umani alla salute, alla sicurezza sociale, al lavoro, etc. La giustizia del mercato considera tali valori irrilevanti. Il percorso verso la piena liberalizzazione dei mercati vede costantemente nella politica un pericoloso ostacolo. Alle istanze della politica, che dovrebbe muoversi in rappresentanza dei cittadini, i fautori dell’assoluta libertà mercatale oppongono che la corruzione diffusa nella politica costituirebbe un ostacolo a quelle riforme che consentirebbero una maggiore efficienza a beneficio del benessere di tutti. Su questa tesi le privatizzazioni hanno avuto via libera. Il popolo del mercato ha prevalso sul popolo dei cittadini.

Invero, la giustizia del mercato sarebbe, al contrario di quella statale, impersonale e oggettiva, trasparente e universale, non contaminata dagli interessi particolari. L’apparato più disprezzato e schernito, individuato come ostacolo al progresso, sarebbe proprio costituito dalla legislazione penale, tipica della coercizione statalista, conservatrice, repressiva e impeditiva del progresso, nonché della sua applicazione concreta tramite l’esercizio della giurisdizione.

Il modello iper-liberistico ha esplicato i suoi effetti non soltanto sul piano della governance politica, ma anche sul piano culturale della funzione del diritto. Il problema è di carattere sistemico e ha caratteristiche radicali: riguarda infatti l’incomprensione del ruolo del diritto rispetto all’economia. Il diritto è la scienza della giustizia, cui spetta contribuire alla distribuzione delle utilità che provengono dall’economia. Se il giurista è inesperto di economia e si conforma acriticamente alle istanze degli economisti che sostengono le strategie del capitalismo finanziario, è inevitabile che la scienza giuridica divenga servile di fronte alle riforme che scardinano la tutela giuridica dei beni comuni nell’interesse della collettività.

Il giurista inoltre sa che il diritto, per quanto non sia di creazione integrale da parte dello Stato, ha bisogno di un potere superiore che conferisca al diritto – costituitosi secondo i suoi diversi formanti – certezza e stabilità, rendendo efficace per tutti gli obblighi che nascono dalle sue regole. Questo potere è a tutt’oggi lo Stato nazionale.

Mauro Ronco
Testo tratto da Diritto penale dell’impresa, quinta edizione, Zanichelli 2022


[1] Friedrich von Hayek, Legge, Legislazione e Libertà, Milano, 2010, 268.

[2] Stiglitz, People, Power, and Profits: Progressive Capitalism for an Age of Discontent, tr. fr. Peuple, pouvoir et profits, 2020, 175-194; v. anche Stiglitz, Fitoussi, Durand, Beyond GDP. Measuring What Counts for Economic and Social Performance, tr. it., Misurare ciò che conta. Al di là del Pil, Torino, 2021, passim  e, soprattutto, 69-145.

[3] Stiglitz, People, Power, cit., 193-194 dell’edizione francese dell’Autore.

[4] Con le leggi 3 aprile 2006, n. 152, art. 154, co. 1 (Testo unico ambientale) e con il d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni in l. 6 agosto 2008, n. 133, art. 23 bis fu realizzato un vasto programma di privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica, tra cui quelli concernenti l’acqua, i trasporti pubblici, lo smaltimento dei rifiuti, per i quali l’utente paga una bolletta o un biglietto a prezzo controllato. Le norme liberalizzatrici furono abrogate per effetto del risultato del referendum del 12 e 13 giugno 2011, che vide una maggioranza di oltre il 95% dei votanti contrari alla privatizzazione. Purtroppo nonostante la chiara volontà espressa dai cittadini il Parlamento non ha riordinato la materia tramite una disciplina alla cui stregua acqua, aria e ambiente siano riconosciuti come beni che gli enti pubblici debbono gestire secondo criteri di efficienza nell’interesse generale. La riforma del settore idrico delineata di recente nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza  come strumento per la migliore governance dell’acqua non sembra in verità procedere nel solco del referendum del 2011 poiché rilancia il processo di privatizzazione o di unione tra il pubblico e il privato estraneo al significato referendario del 2011.

[5] Gallo, Il diritto e l’economia. Costituzione, cittadini e partecipazione, AA.VV., Percorsi giuridici della postmodernità, Bologna, 2016, 102, secondo l’Autore “la formula dell’art. 41 rappresenta il punto di confluenza della tradizione liberale, del solidarismo cattolico e del dirigismo socialista” (108); Galgano, Sub art. 41, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione. Rapporti economici, II, Bologna-Roma, 1982, 1; Niro, Sub art. 41, in AA.VV., La Costituzione italiana. Principi fondamentali. Diritti e doveri dei cittadini. Commento agli artt. 1-54, a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, Torino, 2007, 846.

[6] C. Cost., 29 ottobre 1999, n. 405.

[7] C. Cost. 20 dicembre 1996, n. 399.

[8] C. Cost., 9 maggio 2013, n. 85; C. Cost., 23 marzo 2018, n. 58.

[9] C. Cost., 9 maggio 2013, n. 85.

[10] Jaeger, L’interesse sociale, Milano, 1964. Per l’approfondimento di questa linea si vedano i lavori di Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo (variazioni sul tema su uno spunto di Giorgio Oppo), in Riv. società, 2005, 693 ss.; Montalenti, Società per azioni, corporate governance e mercati finanziari, Milano, 2011. Per la concezione dell’impresa sotto il profilo tributario come insieme di attività economica, organizzazione, rischio e utilità sociale nel prisma dell’art. 41 Cost., v. altresì S.M. Ronco, Forma commerciale e impresa nell’imposizione sui redditi, Pisa, 2021, 327-336.

[11] Alesina, Perotti, Budget Deficits and Budget Institutions, in Poterba, von Hagen (a cura di), Fiscal Institutions and Fiscal Performance, Chicago, 1999, 13-36.

[12] Sul tema si vedano i memorabili studi di Dal Pane, Storia del lavoro in Italia dagli inizi del sec. XVIII al 1815, Milano, 1958.

[13] I dinamismi talora perversi in termini di sviluppo dei popoli e di uguaglianza sociale sono stati messi in luce, in continuità con l’Enciclica Rerum novarum di Leone XIII del 1893, dalle Encicliche Populorum progressio di Paolo VI del 1967 e Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II del 1987. In quest’ultima il Pontefice ha ribadito l’atteggiamento critico della Chiesa “nei confronti sia del capitalismo liberista sia del collettivismo marxista. Infatti, dal punto di vista dello sviluppo viene spontanea la domanda: in qual modo o in che misura questi due sistemi sono suscettibili di trasformazioni e di aggiornamenti, tali da favorire o promuovere un vero e integrale sviluppo dell’uomo e dei popoli nella società contemporanea? Di fatto, queste trasformazioni e aggiornamenti sono urgenti e indispensabili per la causa di uno sviluppo comune a tutti” (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 30 dicembre 1987). In effetti, dopo la caduta dei regimi retti dal collettivismo economico, i sistemi liberisti, diffusisi con minori ostacoli politici in tutte le parti del mondo, invece che provvedere ad autocritiche emendatrici, hanno intensificato i processi di accumulazione in spregio alle esigenze di distribuzione della ricchezza.

[14] Streeck, Gekaufte Zeit. Die vertagte Krise des demokratischen Kapitalismus, cit.; tr. it Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, cit., 79-80.

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