La grande abbuffata di Marco Ferreri, presentato a Cannes nel 1973 tra scandali e applausi compiaciuti, è stato a lungo difeso come capolavoro provocatorio, lucida denuncia del consumismo e della decadenza borghese. Questa lettura, tuttavia, è non solo parziale, ma ideologicamente comoda. Perché il film non si limita a rappresentare il nichilismo dell’uomo moderno: lo assume come orizzonte definitivo, lo estetizza, lo legittima. In questo senso, Ferreri non è il medico che diagnostica la malattia, ma l’intellettuale che ne accetta la metastasi come destino inevitabile. Il film non è uno scandalo morale: è uno scandalo etico. Non perché mostra l’eccesso, ma perché rinuncia programmaticamente a qualsiasi criterio di giudizio. Ferreri non denuncia: contempla. Non smaschera: compiace. Non grida: sospira.
La trama: un suicidio senza tragedia
La trama de La grande abbuffata è tanto semplice quanto radicale: quattro uomini della borghesia parigina, un cuoco, un produttore televisivo, un pilota d’aereo e un magistrato, decidono di ritirarsi in una villa isolata con l’unico scopo di mangiare fino alla morte. Non sono spinti da una disperazione manifesta, né da un trauma, né da un conflitto interiore riconoscibile. La loro decisione non nasce da una frattura, ma da una stanchezza indistinta, da un vuoto senza nome che Ferreri sceglie deliberatamente di non interrogare.
È qui che la trama rivela il suo limite più grave: il suicidio collettivo non è mai vissuto come tragedia, ma come progetto organizzativo. I protagonisti pianificano, cucinano, mangiano, evacuano, ricominciano. Il gesto estremo viene ridotto a procedura, la morte a semplice conseguenza meccanica dell’eccesso. Ferreri elimina ogni dimensione drammatica, ogni possibile conflitto morale, ogni residuo di angoscia metafisica. Il suicidio non è un grido, ma una consuetudine.
Le donne che gravitano intorno al gruppo, prostitute chiamate a servire il banchetto e una maestra elementare che vi partecipa fino alla fine, non introducono alcuna rottura simbolica. Non sono tentazione, né salvezza, né coscienza critica. Sono presenze funzionali, inglobate nel meccanismo dell’abbuffata. Anche la figura di Andréa, spesso letta come residuo di purezza o compassione, resta ambigua e irrisolta: Ferreri la mantiene in scena senza darle voce, senza permetterle di diventare vera alternativa. Ancora una volta, la possibilità di senso viene evocata solo per essere neutralizzata.
La villa, che potrebbe essere spazio di ritiro, di crisi o di rivelazione, diventa invece un non-luogo metafisico, chiuso, stagnante, autoreferenziale. Nulla entra davvero, nulla esce. Il mondo esterno è cancellato. Non c’è società da contestare, non c’è storia da attraversare, solo un eterno presente di consumo e dissoluzione. In questo isolamento totale, Ferreri compie la sua scelta più ideologica: trasformare la morte in un evento privo di peso simbolico, sottratto sia alla colpa sia alla speranza.
Così la trama, anziché essere il motore del senso, diventa il suo sabotaggio. L’idea estrema, mangiare fino a morire, avrebbe potuto aprire un abisso tragico, interrogare il limite, evocare la fame autentica dell’uomo. Ferreri, invece, la svuota progressivamente, fino a renderla un gesto ripetitivo e quasi noioso. Non c’è catarsi, non c’è rivelazione, non c’è nemmeno vera disperazione, solo la lenta amministrazione del nulla.
In questo senso, la trama non è il racconto di una fine, ma la messa in scena della rinuncia dell’autore a qualsiasi esito tragico o salvifico. È il suicidio non solo dei personaggi, ma della narrazione stessa, che abdica alla sua funzione più alta, dare forma al conflitto e aprire una domanda sul senso.
Mangiare fino a morire: la banalizzazione del male
Quattro uomini della borghesia parigina decidono di mangiare fino alla morte. L’idea è radicale, potenzialmente tragica, ma Ferreri la svuota deliberatamente di ogni dimensione tragica. L’autodistruzione non nasce da una disperazione autentica, da una frattura esistenziale o da un conflitto interiore insanabile, ma da una stanchezza indistinta, da un vuoto senza nome che l’autore sceglie di non interrogare. Il gesto estremo, invece di essere l’esplosione di una crisi, viene trattato come un progetto razionale, quasi logistico. Si organizza il cibo, si gestiscono i tempi, si amministra il corpo. La morte non irrompe, arriva per saturazione. Il male, così, perde ogni carica tragica e diventa semplice procedura.
È in questa trasformazione del male in meccanismo che emerge una colpa centrale di Ferreri: la banalizzazione del nichilismo. Il film non mette in scena l’orrore della perdita del senso, ma la sua accettazione passiva. Non mostra il vuoto come ferita, ma come ambiente naturale. La morte dello spirito non è una catastrofe che sconvolge, ma una consuetudine che si ripete, un fatto ordinario, quasi igienico. Ferreri non chiede allo spettatore di reagire, di provare angoscia o ribellione, ma di assistere, come se la dissoluzione dell’umano fosse ormai un dato acquisito, non più discutibile.
Il film procede per accumulo, ma senza tensione. Ogni eccesso dovrebbe avvicinare al limite, generare vertigine, produrre una frattura irreversibile, e invece ottunde. L’abbondanza non esplode, si deposita. Non c’è scatto, non c’è rottura, non c’è rivelazione. L’eccesso, ripetuto fino allo sfinimento, smette di essere eccezione e diventa norma. L’abbuffata si trasforma in routine, e la routine, lentamente ma inesorabilmente, si fa ideologia. Non più denuncia dell’eccesso, ma sua giustificazione estetica; non più rappresentazione della fine, ma sua amministrazione ordinata e priva di dolore.
Il ventre come idolo: pornografia del vuoto
Ferreri pretende di denunciare l’idolatria del corpo, ma finisce per celebrarla cinematograficamente, trasformando ciò che dovrebbe essere smascherato in oggetto di contemplazione ossessiva. Il ventre non è mai davvero rivelato come falso dio, come idolo vuoto e menzognero, ma viene continuamente inquadrato, indugiato, esibito fino alla saturazione visiva, come se l’occhio della macchina da presa non potesse fare a meno di adorarlo. Il corpo non è desacralizzato per essere liberato, ma per essere ridotto a feticcio. Il disgusto diventa linguaggio espressivo, il degrado diventa stile riconoscibile, firma autoriale, e in questo passaggio la critica si trasforma in complicità.
Il rovesciamento dell’Eucaristia è evidente, ma è un rovesciamento sterile, privo di vera profondità tragica. Ferreri convoca simboli cristiani potenti, il banchetto, il corpo, il sangue, la comunione, ma li usa senza attraversarne il significato salvifico. Li riduce a materiali provocatori, a segni svuotati, funzionali a un’estetica dello scandalo che non interroga più nessuno. Dove la liturgia cristiana apre alla redenzione attraverso il sacrificio, Ferreri mostra solo consumo senza dono, abbondanza senza grazia, ingestione senza comunione. Non c’è tensione verso l’alto, né caduta drammatica: solo una parodia che si esaurisce nella propria superficie.
In questo modo, il film rinuncia alla tragedia metafisica e si accontenta della caricatura sacrilega. Non c’è autentica profanazione, che presuppone almeno il riconoscimento di ciò che viene violato. C’è piuttosto un’ironia stanca, un cinismo esausto, tipico di chi ha già reciso ogni rapporto vitale con il sacro e può permettersi di giocarci sopra senza timore. Il sacro non viene combattuto, viene ignorato. E ciò che viene ignorato non può nemmeno essere davvero negato.
In questo senso, Ferreri non è eretico, perché l’eresia presuppone una verità con cui misurarsi e da cui deviare. Ferreri è indifferente. E l’indifferenza, sul piano spirituale e culturale, è una colpa più grave della bestemmia, perché non genera conflitto, non provoca reazione, non lascia ferite da cui possa nascere una domanda. È la forma più compiuta del nichilismo, quella che non distrugge con violenza, ma consuma lentamente ogni possibilità di senso.
Il peccato senza colpa: l’assoluzione preventiva
Nel mondo cinematografico di Ferreri la colpa semplicemente non esiste, e questa assenza non è neutra, ma costituisce la sua responsabilità più grave. I personaggi muoiono senza angoscia, senza rimorso, senza alcuna consapevolezza del significato di ciò che stanno facendo. Non attraversano il dolore morale, non conoscono il conflitto interiore, non sperimentano la vertigine del limite. La loro morte non è un evento drammatico, ma un processo fisiologico. Tuttavia, questa anestesia morale non appartiene solo ai personaggi: è la posizione ideologica del regista, che costruisce deliberatamente un universo in cui il male non viene mai riconosciuto come tale.
Ferreri mette in scena un mondo in cui il male ha perso ogni dimensione tragica perché ha perso ogni nome. Non è più trasgressione, non è più colpa, non è più peccato, ma semplice funzionamento. È un male “igienico”, silenzioso, ordinato, quasi amministrativo, che non scandalizza e non interroga. È un male che non chiede redenzione perché l’autore ha già rinunciato a formularla come possibilità pensabile. In questo universo, la salvezza non è negata con violenza: è rimossa per disinteresse.
Questa operazione non può essere scambiata per realismo. Non è uno sguardo lucido sul mondo, ma una rinuncia preventiva al giudizio. Non è coraggio intellettuale, ma resa culturale. Ferreri abdica alla funzione più alta dell’intelligenza morale, quella di distinguere, di nominare il bene e il male, di assumere una posizione. L’assenza di colpa diventa così una forma di assoluzione preventiva, che libera i personaggi e, insieme, lo spettatore, dal peso della responsabilità.
La borghesia come alibi, non come bersaglio
Ferreri dichiara di attaccare la borghesia, ma in realtà la protegge, la accompagna, la comprende fin troppo bene. I suoi personaggi non sono mai chiamati a rispondere delle proprie scelte, perché, in fondo, non sembrano nemmeno averne fatte. Non scelgono il vuoto: lo abitano passivamente, come una condizione data, inevitabile. Non sono colpevoli, sono “così”. Ed è proprio questa naturalizzazione della decadenza a trasformarsi nella più efficace forma di assoluzione.
Il film non giudica i suoi protagonisti, non li mette in crisi, non li espone a un vero conflitto. Li osserva con un misto di ironia e indulgenza, come se la loro fine fosse già scritta e non valesse la pena interrogarla. In questo modo, la critica sociale si rovescia nel suo contrario e diventa alibi intellettuale: se tutto è marcio, allora nulla è davvero colpevole; se tutto è vuoto, allora nessuno è responsabile. È il grande trucco del nichilismo culturale, che trasforma la diagnosi in giustificazione e la constatazione in destino.
Ferreri non combatte la borghesia, perché ne condivide lo sguardo stanco, il cinismo disilluso, l’inerzia spirituale. La sua è una critica dall’interno, ma senza rottura, senza distanza, senza conflitto. Non è l’attacco di chi vuole superare un mondo, ma la constatazione rassegnata di chi ha già accettato la sua fine.
Il tradimento della domanda metafisica
La grande abbuffata intuisce una verità fondamentale: l’uomo ha fame d’infinito e nessuna abbondanza materiale può colmarla. Ma Ferreri tradisce questa intuizione nel momento stesso in cui la sfiora. Perché non ha il coraggio di seguirla fino in fondo. Si arresta volontariamente al ventre, alla carne, alla decomposizione, come se oltre non ci fosse nulla di pensabile o di dicibile. La domanda metafisica viene evocata, ma immediatamente soffocata.
Il film è saturo di simboli, ma privo di un senso ultimo che li organizzi. È una teologia negativa mutilata, che non conduce al silenzio adorante, né all’angoscia tragica, ma a un vuoto compiaciuto, autosufficiente. Ferreri costruisce un Giudizio senza Giudice, una Morte senza Resurrezione, non per necessità tragica o per coerenza filosofica, ma per pigrizia metafisica, per rinuncia a pensare l’oltre, per paura di nominare ciò che eccede la materia.
In questo modo, la fame d’infinito non viene negata apertamente, ma resa impronunciabile. E ciò che non può essere pronunciato non può nemmeno essere cercato.
Conclusione: la colpa di Ferreri
La grande abbuffata non è un film coraggioso. È un film disperato che ha smesso di lottare. Ferreri guarda il baratro dell’uomo contemporaneo e decide che non vale la pena né denunciarlo né attraversarlo. Si limita a osservarlo, a renderlo spettacolo, a trasformarlo in linguaggio estetico. La sua non è una sfida al nichilismo, ma una resa elegante.
La colpa di Ferreri non sta nell’aver mostrato l’uomo senza Dio, ma nell’averlo mostrato senza dolore, senza domanda, senza possibilità di redenzione. È la colpa dell’intellettuale che scambia il nichilismo per profondità, il disincanto per verità ultima, la resa per lucidità.
Il film resta potente, indubbiamente. Ma è una potenza sterile, corrosiva, irresponsabile. Non salva, non interroga, non converte. E in un mondo che muore di sazietà, questa non è neutralità. È complicità.
Daniele Onori