L’insegnamento del Beato Rosario Livatino.
Nel dibattito contemporaneo sul cosiddetto “fine vita”, si ripropone con forza la necessità di un ancoraggio del diritto alla verità della persona umana. Non si tratta di opporre un sentimento religioso a una presunta neutralità dello Stato, ma di riaffermare un fondamento giuridico, razionale e universale: la legge naturale, la sola in grado di rendere giusto il diritto positivo, come, peraltro, autorevolmente ribadito da Papa Leone XIV, anche in occasione del Giubileo dei giuristi.
Il diritto, per essere tale, non può prescindere dalla legge morale naturale. Il positivismo giuridico, che ha preteso di separare il diritto dalla giustizia, ha prodotto norme formalmente valide ma intrinsecamente ingiuste. La legge, infatti, non è solo ciò che è stabilito da chi ha il potere di imporla: è tale solo se conforme alla natura razionale e relazionale dell’uomo. Senza un criterio superiore – valido sempre e ovunque, come ricordava Cicerone – il diritto si trasforma in volontà di potenza.
La scelta del legislatore di non legalizzare l’eutanasia non è una dimenticanza: è una scelta di civiltà.
Rosario Livatino, giudice e martire della giustizia, lo aveva compreso: “Alla fine non ci verrà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”. Credibili perché coerenti con una giustizia superiore, che non umilia il diritto ma lo fonda. Livatino ci ha insegnato che esiste una giustizia con la “G” maiuscola, capace di riconoscere la dignità della persona anche quando il mondo la rifiuta.
La medicina stessa, nella sua versione più pura, ha sempre riconosciuto questo principio. Basti rileggere il Giuramento di Ippocrate, nella sua formulazione autentica, oggi stravolta da letture ideologiche. In uno dei suoi passaggi più noti, si legge: οὐ δώσω δὲ οὐδὲ φάρμακον οὐδενὶ αἰτηθεὶς θανάσιμον, οὐδὲ ὑφηγήσομαι συμβουλίην τοιήνδε· ὁμοίως δὲ οὐδὲ γυναικὶ πεσσὸν φθόριον δώσω . “Non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né fornirò mai un tale consiglio; e similmente non darò a una donna un mezzo abortivo.”
Nel suicidio assistito o nell’eutanasia non si celebra il diritto a morire, ma si introduce il principio devastante che alcune vite valgano meno di altre. Non è un atto di libertà, ma una resa culturale.
San Giovanni Paolo II, denunciava con chiarezza i pericoli di questa deriva: “Oggi serpeggia un relativismo che spinge a dubitare dell’esistenza stessa di una verità oggettiva. A partire da tale scetticismo si giunge ad una falsa concezione di libertà che pretende di sottrarsi ad ogni limite etico e riformulare a proprio arbitrio i dati più evidenti della natura” . Il conflitto tra la libertà e la legge è artificiosamente provocato da quelle “dottrine che attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà di decidere del bene e del male” , come se la sola libertà umana potesse creare i valori, al punto che la verità sia una creazione della libertà, dimenticando il principio cardine del bene comune: l’uomo è libero di scegliere se operare nel bene o nel male, non di stabilire ciò che sia bene o male.
In questo contesto, la legge naturale è l’unico argine alla dissoluzione del diritto.
La storia ci insegna che ogni civiltà ha resistito fino a quando ha rispettato il principio della sacralità della vita. Quando il diritto ha smesso di essere ancorato alla verità dell’uomo, è divenuto strumento di distruzione e di dominio.
Kierkegaard insegna che la disperazione nasce dalla separazione dell’uomo dalla sua verità più profonda. E la verità dell’essere umano non si compie nel dominio sulla vita e sulla morte, ma nell’abbandono fiducioso a un disegno più grande, che la ragione può riconoscere nella legge naturale.
Come ricordava San Giovanni Paolo II, nella Evangelium Vitae, la dignità della vita umana non dipende da uno “standard” di salute, produttività o desiderabilità sociale. Essa si fonda sulla verità oggettiva dell’essere umano, iscritto nella coscienza e nella legge morale naturale che ogni giurista ha il dovere di riconoscere e tutelare.
La legge naturale è ciò che rende giusto il diritto positivo.Non il contrario. Ecco perché, innanzi ai richiami odierni aduna legislazione sul fine vita, ogni giurista fedele alla propria vocazione non può che opporsi. Non per ideologia, ma per coerenza con ciò che fonda la giustizia stessa: la tutela della vita, soprattutto quando non ha voce per difendersi.
Non è progresso uccidere per compassione. È abdicazione del diritto. E ogni giurista, se vuole restare fedele al suo nome, dovrebbe ricordarlo.
Avv. Giacomo Idolo Piscitelli