Articolo di Pietro Dubolino, pubblicato sul quotidiano La Verità il 13 dicembre 2022.
Alla parabola del figliuol prodigo (come veniva tradizionalmente definita) si preferisce oggi attribuire la denominazione di parabola del “padre misericordioso”. La vicenda in essa narrata (Luca, 15, 11-32) è troppo nota perché metta conto di riproporla in questa sede. Qui interessa solo ricordarne la parte finale, in cui compare la figura del figlio maggiore, il quale, saputo che il padre aveva organizzato una gran festa per l’insperato ritorno dell’altro scapestrato figlio, ordinando anche che venisse ucciso, per l’occasione, il “vitello grasso”, si mostra sdegnato e rifiuta anche, per protesta, di rientrare in casa al suo ritorno dal lavoro dei campi. Il padre, allora, gli va incontro e cerca di rabbonirlo dicendogli: “Figliuolo, tu sei sempre stato con me e tutte le mie cose sono tue. Ma bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è risuscitato; era perduto ed è stato ritrovato”.
Generalmente, nei commenti e nelle omelie, il comportamento del figlio maggiore viene presentato come esempio negativo di grettezza e chiusura mentale, per esortare quindi i fedeli a ben guardarsi dall’imitarlo. E ciò anche se, in verità (come, talvolta, ci si sente pur costretti ad ammettere), si tratta di un comportamento umanamente più che comprensibile, tanto che, ad esser sinceri, riesce difficile immaginare che, in analoghe circostanze, ad esso non si ispirerebbe anche la maggior parte di noi.
Quel che però si tralascia, quasi sempre, di mettere in luce è che il padre, oltre a mostrarsi misericordioso anche nei confronti del figlio maggiore, evitando di rimproverarlo e mostrando invece, di comprendere le ragioni del suo risentimento, si attiene anche ad un rigoroso principio di giustizia. Egli, infatti, ben sapendo che il figlio minore, prima di allontanarsi da casa, aveva chiesto e ottenuto che gli venisse consegnata in anticipo la parte di eredità che gli sarebbe spettata, si guarda bene dal prospettare anche la mera ipotesi che si potesse addivenire ad una nuova spartizione, in danno del figlio maggiore, per compensare il minore del fatto che la parte a lui assegnata, a cagione della sua condotta dissipatrice, era andata irrimediabilmente perduta. Il figlio maggiore, quindi, poteva e doveva rimanere sicuro che i suoi diritti (o, se vogliamo, le sue legittime aspettative), non sarebbero stati intaccati, come, presumibilmente, sarebbe pure stato possibile se il padre, avvalendosi della sua autorità, avesse deciso diversamente, per favorire il figlio minore. E il figlio minore, da parte sua, doveva contentarsi di essere stato riaccolto a pieno titolo nella casa paterna, rassegnandosi alla perdita definitiva, per propria colpa, della sua parte di eredità, salvo sperare nella generosità del fratello maggiore, che spontaneamente, mosso anche dall’esempio del padre, decidesse di lasciare anche a lui qualcosa del patrimonio paterno.
Tra gli insegnamenti che si possono trarre dalla parabola evangelica vi è, quindi, anche quello (di solito, invece, trascurato), che la misericordia non può mai essere esercitata a scapito della giustizia, come avviene quando si pongano coattivamente a carico di altri i relativi costi, sotto forma di perdita di diritti legittimamente acquisiti o anche di sacrifici di qualsivoglia altra natura. Ed è un insegnamento di palpitante e perenne attualità. Anche oggi, infatti, (e, anzi, oggi molto più che in passato) vi è una diffusa tendenza, soprattutto da parte dei pubblici poteri e con l’avallo, talvolta, anche delle gerarchie ecclesiastiche, a giustificare con asserite finalità di misericordia nei confronti di quelli che vengono spesso definiti “gli ultimi” l’adozione di politiche che non sono di vantaggio alcuno per la collettività dei cittadini ma, al contrario, impongono a questi ultimi sacrifici economici (sotto forma di aggravio di imposte) e rinunce a diritti (prima di tutto quelli all’ordine ed alla sicurezza) che ad essi dovrebbero essere invece garantiti. E’ il caso, ad esempio, delle politiche di indiscriminata accoglienza dei “migranti”, finanziate con il danaro pubblico e generatrici di condizioni di insicurezza e di degrado che sono sotto gli occhi di tutti e delle quali i cittadini debbono, loro malgrado, sopportare il peso, senza che, peraltro, da tali politiche derivino, il più delle volte, accettabili condizioni di vita neppure per gli stessi “migranti”.
Istruttivo, in proposito, potrebbe essere il raffronto con quanto avveniva nei secoli passati e fino ad un’epoca relativamente recente, in cui, pur riscontrandosi manchevolezze, anche gravi, nell’azione dei pubblici poteri a tutela dell’ordine e della sicurezza dei cittadini, nessun governo si sognava di giustificarle assumendo che ad esse i cittadini dovevano rassegnarsi per una sorta di malinteso amore degli emarginati e diseredati, veri o presunti, dalle cui condotte l’ordine e la sicurezza erano compromessi. Quell’amore doveva invece manifestarsi nelle opere di carità finalizzate alla loro assistenza, quali scuole, ospedali, ospizi e simili, la cui fondazione e il cui finanziamento erano frutto, essenzialmente, di elargizioni volontarie effettuate, a vario titolo, da parte di privati. E ciò pur svolgendo esse anche una evidente e preziosa funzione di utilità sociale, per cui anche l’impiego di risorse provenienti dall’imposizione fiscale sarebbe stato, in teoria, giustificato. Ma in passato, a differenza che nel tempo presente, era ben radicato il sano concetto che alle opere di carità e misericordia, in quanto essenzialmente finalizzate alla salvezza dell’anima, dovessero dedicarsi, a loro spese, solo i privati, e non lo Stato che, per quanto è dato sapere, un’anima da salvare non ce l’ha.