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Intervento del cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, al convegno “L’eredità del beato Rosario Livatino”, tenutosi a Roma il 18 gennaio 2023.

Introduzione

«Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo».

Queste parole del Messaggio del santo Padre Francesco per la LXVI Giornata della pace ci danno l’opportunità di guardare ai tempi in cui viviamo, agli eventi ed alle persone con occhio e cuore cristiani.Nella luce della Provvidenza, con uno sguardo peculiare, si sa riconoscere in ogni volto, un tu, una voce che proviene dall’alto e che ci affratella.

A partire dagli anni del Concilio Ecumenico Vaticano II, insieme con un innegabile processo di aggiornamento e di riforma, è iniziato un analogo processo di de-cristianizzazione delle società, specialmente del nord del mondo, che le sta corrodendo, come si dice, dall’interno. Per la prima volta si vedono mettere in discussione, in maniera generalizzata, i canoni etici fondamentali nella gestione del proprio quotidiano. Ai laici già la Gaudium et spes aveva affidato «propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali»[1]. Ora, proprio le questioni secolari registrano, invece, una crisi di sguardo cristiano.

Perché un certo secolarismo avanzato si dispiega come un buco nero fra le regole di vita e di moralità dei singoli e la realtà della condotta pubblica e privata d’inizio millennio? Assisteremo inerti – nella società della tecnologia avanzata e del multiverso – alla fine del cosiddetto regime di “cristianità” che, secondo alcune analisi, starebbe avvenendo in modi dirompenti e imprevisti? Forse i laici cristiani non sanno più riconoscere i segni dei tempi,espressione su cui insisteva, nella memorabile enciclica Pacem in terris, san Giovanni XXIII (11 aprile 1963)?

Un martire laico per riconoscere i segni dei tempi

La madre Chiesa, per assecondare la corretta opera di ricognizione dei segni del nostro tempo, ci addita ora una figura di laico cristiano, guardando al quale diviene possibile discernere, finché ci sia tempo, anche i nostri giorni e contesti, sempre nuovi e cangianti. Della vita di Livatino molto, quasi tutto, è già noto. La causa di beatificazione ha consentito di far luce su altro, su questioni non tanto biografiche quanto sostanziali e di notevole incidenza sul rapporto tra fede e Chiesa, da una parte, e organizzazioni criminali, dall’altra.

I suoi nemici lo chiamavano “scimunito” e “bigotto”, ma solo perché ne odiavano il rigore morale, la perfetta applicazione dei codici, la coerenza cristiana, per cui, mentre condannava giustamente i reati, pregava per l’anima dei morti ammazzati, aiutava discretamente le famiglie di chi usciva dal carcere, non disperava mai delle possibilità di redenzione dei mafiosi più incalliti.

Il termine dialettale santocchio lo qualificava in modo nettamente dispregiativo, evidentemente per la sua notoria vita laicale di fede e di preghiera, e comprova che l’odio alla fede del giudice circolava negli ambienti di Cosa nostra, quindi ben al di fuori dei circoli più ristretti delle Stidde di Palma di Montechiaro e di Canicattì, che concretamente realizzeranno le ultime fasi dell’omicidio.

Come già per padre Pino Puglisi, ma in questo caso con riferimento alla figura di un laico, il tema che si è posto è stato: gli assassini e i loro capi agirono per contrastare una giustizia intrisa di Vangelo? E se sì, lo fecero consapevolmente? Testimoni, atti, sentenze, il lavoro svolto in corso di causa ed infine la firma di Papa Francesco, sono inequivocabili: chi uccise Rosario Angelo Livatino, e chi decise che in tal senso si procedesse, lo face animato da una chiara, irrefrenabile avversione alla giustizia cristiana che nella figura del giudice risplendeva, trovando concreta quanto silenziosa attuazione nella pratica quotidiana.

Non era Livatino una persona avvezza alle telecamere: non aveva mai ricercato la notorietà. Non poteva essere diversamente per un servitore dello Stato che non aveva mai rinunciato a essere uomo di fede: “Il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio”. Non svelava cedimenti, agli occhi increduli degli stiddari, quel giovane tutto casa e chiesa che argomentava che “l’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella fedeltà ai principi, nella sua conoscenza tecnica, ma anche nella sua moralità, nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività”.

Dalla biografia di Rosario Angelo Livatino, insomma, ci viene in primo luogo mostrato come fede ed esistenza laicale siano inscindibili nella teoria e nella prassi, nella consapevolezza che la fede può ben essere “anima” nel modo di amministrare la giustizia, comprovando così la correlazione tra eterno e tempo, fede e giustizia. Del resto, la realizzazione concretadellavirtù della giustizia consiste nell’adempimento di un preciso dovere a vantaggio, anzi per la redenzione, del consorzio umano. Dopo il Regina caeli di domenica 9 maggio 2021, papa Francesco poté perciò esclamare: «Nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo, che non si è lasciato mai corrompere, si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere».

La causa di beatificazione ha consentito di comprendere, verificare, accertare che il delitto fu maturato in un contesto non soltanto nemico della Magistratura e dei suoi “scomodi” esponenti, ma ostile particolarmente a coloro che s’ispirano non soltanto a codici e norme indefettibili, bensì all’etica propria della fede cristiana. Ci si è convinti – ed è stato ampiamente dimostrato – che mandanti ed esecutori agirono contro Rosario Angelo per contrastare l’affermazione di una giustizia intrisa di Vangelo e di fede cristiana, e lo fecero consapevolmente.

Non c’è dubbio alcuno: Cosa Nostra e le Stidde (cioè i “rami” staccatisi dall’albero mafioso principale in quegli anni), per quanto abbiano talvolta inteso esibire e mostrare una vistosa devozione a santi e madonne, in realtà continuano in re ipsa a evidenziare una contraddizione, meglio: una scelta deliberata di negare il cristianesimo, rivelandosi una forma di paganesimo, prona al potere ed al denaro anziché all’Altissimo. A questa scelta perversa, ne viene opposta un’altra: «Decidere è scegliere, e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni», disse Livatino ad un convegno svoltosi a Canicattì il 30 Aprile 1986, e aggiunse: «E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare […]. Ed è proprio in questo scegliere per decidere che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio»[2].

Valori, Diritti, Doveri

Il Beato Livatino sollecita dunque donne e uomini cristiani a ri-scoprire che il dovere è un obbligo morale, ovvero è ciò che si considera giusto a priori senz’averlo verificato alla luce del buon senso o del “caso per caso”. Se è vero che viviamo in un’epoca in cui tutte le verità sono messe in discussione e a qualcuno sembra che quasi non esista più la verità, ma solo interpretazioni personali altamente discutibili, è il momento, per le donne e gli uomini di fede, di essere dediti al senso del dovere, prim’ancora di rivendicare dei pur fondati diritti. Siamo oggi, ci si dice, nel pieno dell’età dei diritti. Accanto ai diritti di “prima generazione”, quelli di libertà, si sono affermati i diritti di “seconda generazione”, ossia quelli politici e sociali. Di seguito, si sono aggiunti i diritti di “terza generazione”; e ancora, i diritti di “quarta generazione”, ovvero quelli strettamente collegati con lo sviluppo di nuove tecnologie soprattutto nel campo biologico e medico.

Mentre se ne vanno elaborando altri, domandiamoci: come ripensare in maniera laica e cristiana il tema dei diritti affinché il diritto stesso non diventi né corruzione dellumano, né elemento di violenza? È intuitivo che i diritti umani non possano essere tutti di eguale peso normativo, soprattutto quando sono in tensione gli uni con gli altri, facendo rischiare l’offuscamento di ciò che realmente li fonda: il dovere. La priorità del dovere corrobora per sua natura il principio di responsabilità, senza il quale anche ogni teoria dei diritti sarebbe vanificata.

Frattanto, un certo moralismo sociale preferisce esaltare i soli valori della legalità, mettendo pericolosamente la sordina ad altri valori, in nome della loro inevitabile negoziabilità in una società complessa. Tale modello rischia di perdere di vista il fondamento cristiano della giustizia sociale e della lotta alla corruzione politica, attentando talvolta agli stessi valori dell’unità nazionale e del solidarismo. Di qui: a) una pericolosa bipolarizzazione dell’opinione pubblica; b) la diffusione di modelli parziali che non favoriscono una maturazione condivisa della visione antropologica; c)il detrimento del futuro delle nostre società, in cui i sempre più pochi giovani, nell’incontro con il mondo degli adulti,riescono a trovare degli autentici testimoni di vita, dai quali imparare a districarsi dignitosamente nelle vicende quotidiane ed a riconoscersi parte attiva di una progettualità.

Un esempio motivante per i laici cristiani

Rosario Angelo Livatino può ben essere l’esempio per il laicato di ogni tempo e, in particolare, di questi nostri difficili e formidabili tempi. Lo è, in modo peculiare, per i magistrati e tutti gli operatori del vasto mondo della giustizia e del diritto, in quanto dimostra come le norme scritte non siano soltanto un deciso punto di riferimento per l’opera di prevenzione, per la corretta indagine e l’equa condanna dei reati, ma anche per una giustizia che sia riparativa e, perciò, strumento per la diffusione di valori perenni di umanizzazione e di fraternità/sorellanza. I laici della comunità ecclesiale – guardando alla luminosa testimonianza di Rosario – possono proporsi sempre più e meglio quali voci profetiche che, con la forza dell’amore, fermeranno il proliferare della zizzania e della corruzione maligna nel campo del Signore.

Livatino, a motivo della sua onestà cristiana e rigore morale, risultò impermeabile a ogni azione avversa al rigore cristiano e professionale: è troppo alto il suo senso del dovere e dell’indipendenza del giudice, troppo intenso il suo stile di laico cristiano (che lui stesso riconosce di aver appreso dal Concilio Ecumenico Vaticano II), in grado di tradurre quotidianamente il Vangelo nell’esistenza. In questo senso, egli apparve ai suoi avversari mafiosi e ai suoi assassini un ostacolo insormontabile. Volevano che nel suo lavoro egli si limitasse all’ordinario, senz’andare oltre. Volevano imporgli un potere assoluto, in contrapposizione alla legge divina; il Beato invece voleva l’attuazione di una legge dello Stato, riconoscendola comunque plasmata nella luce della legge divina. Come ricorda un componente del gruppo di fuoco che martirizzò il nostro Beato, i mafiosi sentirono come “dovere” (si doveva uccidere) quanto era stato imposto come obbligo dai capi. Livatino apparve una persona troppo giusta e attenta ai doveri professionali – lavorando in tribunale, nelle carceri, in obitorio, persino a casa, come nei turni obbligatori di reperibilità domenicale – perché motivato dalla sua fede, che egli assorbiva anzitutto dalle pagine bibliche. Frequentando con amore le Scritture, aveva appreso che la tzedakah – giustizia nella visione ebraica – consiste appunto nell’adempimento di un preciso dovere. In tal modo, la ratio iuris – ritenuta, in ultima istanza, emanazione di Dio, non del popolo – era ben in grado di correlarsi ai valori della aequitas, della humanitas e della benignitas. La giustizia, nel suo martirio, si correla alla fortezza. Nel martire cristiano, infatti, si esige la virtù della fortezza affinché egli, senza mai abbandonare la fede e la giustizia, sia fermamente confermato[3]. La realizzazione concreta di un atto di giustizia non è primariamente “pietà” o “misericordia”, dunque, ma l’adempimento di un preciso dovere, che grava sull’essere umano durante l’intero arco della sua esistenza, anzi non ha mai fine (cf. Dt 16,20).

In questo senso, si può fondatamente affermare che la fede e la pratica religiosa innervarono ogni aspetto dell’esistenza del Magistrato Beato, il quale, anche nel dovere di redigere rinvii a giudizio ed emettere sentenze di condanna, sapeva esercitare il perdono interiore e le altre virtù cristiane, attingendole dalla sua intensa vita di orazione e di azione. Dalle pur brevi note delle Agende s’intravvede una persona integerrima, costante sul piano della fede, della preghiera e del culto; attenta ai doveri professionali, molto impegnata nel contrasto alla mafia circa la quale, tra l’altro, annota anche un suo incontro con il giudice Falcone. Ma soprattutto, Livatino è una persona che non dimentica mai il suo prossimo che versa nel bisogno, anche se è in situazione di detenzione, correlando giustizia e carità. Dichiara significativamente in una Conferenza: «Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole. Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile»[4]. E ancora, in un’altra Conferenza aveva affermato: «Il Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano»[5].

Conclusioni

Rigore morale cristiano, fede che diviene prassi di giustizia e che perciò fa del bene al prossimo. Ecco le caratteristiche spirituali del laico Rosario Angelo Livatino. Egli pensava al modo migliore di svolgere il ruolo di giudice. Soffriva molto nelle pronunce penali nei confronti degli imputati, perché constatava come la libertà, male interpretata, avesse infranto la regola della giustizia. E nello stesso momento in cui doveva giudicare secondo legge, si poneva da cristiano il problema del perdono.

Per questo, con un’espressione ardita, potremmo dire che, ai fedeli cristiani laici, Livatino consegna una «mistica della magistratura», nel senso che, nell’esercizio della professione, egli inizia al “mistero” della professione di procuratore e di giudice. Non è, la sua, una «religione del dovere» derivante dal temperamento. Piuttosto, egli, nell’esercizio corretto della magistratura e delle sue decisioni, ritrova un modo per percepirsi unito a Dio, un prolungamento storico dell’attività dell’Altissimo, derivante da un esercizio di costante riferimento all’unità con Dio in ogni vicenda: «Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere […]. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio»[6].

Rosario Angelo venne assassinato nella prima mattinata del 21 Settembre 1990, dai membri di un commando di fuoco dotato di armi da guerra, mentre egli, inerme e privo come sempre – di scorta, stava raggiungendo la sede del Tribunale di Agrigento. Nelle sue ultime parole risuona il profeta Michea che la Liturgia del Venerdì Santo accomoda al Cristo morente sulla croce: «Popolo mio, che male ti ho fatto?» (Mic 6,3). Sacrificatosi per il trionfo della giustizia e dell’idealità della sua fede, Livatino, attraverso la sua morte tragica, diventa seme di conversione per alcuni suoi mandanti e assassini, ma soprattutto dimostra che anche in un territorio oppresso da corruzione e mafie è possibile praticare la giustizia e odiare l’iniquità. Davvero egli è un segno per i nostri tempi, particolarmente per i laici credenti. Il “colpo di grazia” che gli tolse la vita terrena ai piedi del viadotto Gasena, non voleva eliminare soltanto un uomo e neppure soltanto un magistrato: voleva uccidere un cristiano doc, un giudice laico. Ma egli resta vivo e ci parla col suo esempio, la sua testimonianza, il suo eroico sacrificio. E tutto questo ci fa palpitare ancora oggi.


[1] Gaudium et spes, n. 43: AAS 58 (1966), 1025-1120, qui 1062.

[2] Conferenza “Fede e diritto” (testo integrale), tenuta il 30 aprile 1986 da Rosario Angelo Livatino a Canicattì, nel salone delle Suore vocazioniste. Cf. AGRIGENTINA BEATIFICATIONIS SEU DECLARATIONIS MARTYRII SERVI DEI ROSARII ANGELI LIVATINO CHRISTIFIDELIS LAICI IN ODIUM FIDEI, UTI FERTUR, INTERFECTI († 21.09.1990), Positio super martyrio, Romae 2020, p. 578.

[3] «Dum fidem et iustitiam non deserit propter imminentia pericula mortis, quæ etiam in quodam certamine particulari a persecutoribus imminent» (Summa theologiae II-II, q. 124, a. 2, c.).

[4] Rosario Angelo Livatino, Il ruolo del giudice nella società che cambia; conferenza tenuta il 7 aprile 1984 presso il Rotary club di Canicattì. Cf. Positio, p. 562.

[5] Id., Fede e diritto; conferenza tenuta il 30 aprile 1986 a Canicattì, nel salone delle Suore vocazioniste. Cf. Positio, p. 680.

[6] Ivi. Cf. Positio, p. 578.

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